A qualcuno hanno bruciato l’auto. Ad altri hanno fatto una telefonata. Una settimana fa a un nostro collaboratore gli hanno mandato una lettera, un foglietto con quattro parole: «Sei morto Gianni Lannes».
Gianni è di quei cronisti impavidi che ficcano il naso dappertutto. Anche dove per qualcuno non si dovrebbe mai, tra le pieghe della criminalità organizzata o in quella zona grigia fatta di colletti bianchi al servizio di uomini dal grilletto facile. In Puglia, come in Sicilia o in Campania. In più, Gianni Lannes ha il brutto vizio di dare lezioni sul giornalismo antimafia per conto di Libera, l’associazione di don Luigi Ciotti diventata l’emblema della lotta alle mafie. Quelle, appunto, di cui si occupa ostinatamente Gianni Lannes, anche per left. Servizi pesanti, che sono ora al vaglio dei magistrati di Bari, che hanno raccolto la sua denuncia. “Puglia, morire di lavoro. La mafia dei cantieri”, “La mafia degli incendi boschivi”, sono solo due dei tanti titoli delle inchieste che Lannes ha fatto per il nostro settimanale. Servizi che ora gli impediscono di tornare a casa. Negli ultimi tempi segnali di insofferenza nei confronti dei cronisti ce ne sono stati tanti. È noto, oltre che logico, che la mafia non ami le luci dell’informazione. Roberto Saviano, ad esempio, sta ancora facendo i conti con la criminalità organizzata campana per quanto scritto in Gomorra. E non riesce più ad avere una vita “normale”, da cronista-scrittore che deve andare in giro a raccogliere storie per poterle raccontare.
Nella terra dove sono stati assassinati otto giornalisti, la Sicilia, lo scorso 19 marzo i soliti ignoti avevano la necessità di andare a controllare direttamente nella redazione del mensile Casablanca cosa avessero in mente i direttori Riccardo Orioles e Graziella Proto, due recidivi dell’informazione antimafia, già cronisti de I Siciliani di Pippo Fava, ucciso dalla mafia nel 1985. Il 26 luglio, sempre in Sicilia, è stata scelta una via sbrigativa per far sapere al direttore della locale Tv7, Federico Orlando, che il suo telegiornale non era gradito: gli hanno cosparso l’auto di liquido corrosivo e gli hanno tagliato le gomme. Chi l’ha fatto sapeva bene che il giornalista si era trasferito da due mesi a Cinisi, il paese di Peppino Impastato, ucciso dalla mafia nel 1978. Il 29 gennaio 2006, a Corleone, prima che Bernardo Provenzano venisse arrestato, anche l’auto di Dino Paternostro, corrispondente de La Sicilia e segretario della Camera del Lavoro è stata presa di mira: gli hanno dato fuoco.
È di questi giorni la notizia della riesumazione a Conflenti (Catanzaro) dei resti del boss Domenico Belvedere, che secondo alcuni pentiti apparterrebbero invece al giornalista de L’Ora di Palermo Mauro De Mauro, scomparso nel 1970, morto probabilmente per mano di mafia perché sapeva troppo sulla fine di Enrico Mattei o sul golpe Borghese. Recentemente è stato preso di mira il giornalista Lirio Abbate per aver pubblicato pochi mesi fa, assieme a Peter Gomez, uno straordinario libro-documento, I complici, che analizza l’evoluzione del sistema criminale, in cui l’organizzazione mafiosa è il centro-motore di una complessa galassia, dove attorno ai padrini vecchi e nuovi si intrecciano poteri legali e istituzionali, politici ai vari livelli, imprenditori, funzionari e tecnici, banchieri e professionisti. Insomma, i colletti bianchi, quella borghesia mafiosa di cui fanno parte anche i giornalisti. È di appena dieci giorni fa la notizia che Cosa nostra si starebbe muovendo nel sottobosco delle redazioni per assoldare giornalisti. Manovre di avvicinamento, allo scopo di esercitare pressioni e condizionare così l’informazione. Una strategia, non nuova per la verità, che sarebbe saltata fuori da alcune intercettazioni. Quanto basta per riunire d’urgenza i vertici dell’Ordine siciliano dei giornalisti, che hanno reagito con un durissimo documento in cui, oltre a stigmatizzare la faccenda, invitano i giornalisti a rispettare le regole deontologiche, con dignità e trasparenza. Che tanto spaventano e fanno saltare i nervi alle mafie.