Nel nome dello sviluppo industriale
Incontro con Medha Patkar, la leader delle mille barricate indiane
11 dicembre 2007
Daniela Bezzi (Giornalista freelance)
Fonte: da Persona a Persona 11/07 (www.pangeaonlus.org) - 11 dicembre 2007
La prima volta che la incontrai (non confusa in un vociante corteo o nella folla di un comizio; ma di persona, per un’intervista) fu a Mumbai, in occasione di un sit-in di protesta contro le requisizioni di terra lungo il corso del fiume Narmada, assediato da un folle progetto di dighe: oltre 3000 tra piccole, medie e grandi. I lavori sulla diga più grande di tutte, la Sardar Sarovar, erano appena ripresi nonostante il vincolo (con tanto di sentenza della Corte Suprema dell’India!) di assicurare alternative di vita, ovvero di terra, alle popolazioni che avrebbero dovuto sloggiare. Era il marzo 2003, qualche tempo prima c’era stata la manifestazione planetaria contro la Guerra in Irak e un giornalista del New York Times l’aveva definita “espressione della seconda potenza mondiale”. Particolarmente in Italia, a Roma, la partecipazione era stata una marea, tre milioni in piazza. Raggiunsi il luogo dell’appuntamento all’ora stabilita, non con Medha, per lei non esistono ore stabilite, tutto succede in un flusso di “azione continua” che in quel momento la vedeva laggiù, con il microfono, di fronte a una marea di donnine venute dai villaggi. Mi sedetti anch’io, tentando di passare inosservata. Impossibile. Perchè avendomi vista arrivare Medha non si lasciò scappare l’occasione di coinvolgere un’energia in più, anche senza conoscermi. Venni invitata sul palco, descritta come “delegata” (delegata io?) di quel ‘grande movimento pacifista’ che in Italia si era pronunciato contro l’aggressione in Irak, sollecitata a dire qualcosa. Improvvisai qualche frase di solidarietà (sentitissima, questo sì). E capii che la forza (la forza più autenticamente femminile) di Medha Patkar sta in quella capacità di azzerare le distanze e coinvolgere, portare al centro dell’azione, tirare letteralmente dentro anche figure di passaggio. Perchè niente deve andare perduto, perchè l’energia si sviluppa per contagio e anche una presenza nuova, esotica (come ero io in quell’occasione) può generare una forza anche minima di coesione in una platea magari demoralizzata e stanca. Sono stata con Medha altre volte e i momenti che ricordo con più emozione sono quelli trascorsi lungo il “suo” fiume, il Narmada: giorni interi a navigare su barchette lungo rive che lei, nel corso degli anni (e sono più di vent’anni!) ha visto evacuare e ripopolarsi e poi evacuare di nuovo mille volte, un po’ più in là o più in su, una cosa che commuove. E che ormai non sono più rive-di-fiume ma di grande lago, blu-cupo di acque che a un certo punto stempera in quello chiaro del cielo, una cosa surreale. E alberelli su sponde scoscese che erano (che in effetti sarebbero) sommità di montagne; templi che emergono dall’acqua: un’intera geografia, lungo un fiume lungo 1100 km (un’estensione territoriale pari a un terzo del territorio italiano!) cancellata. Ma che anche così stravolta, Medha ama al punto da aver proprio voluto e promosso queste ‘incursioni’ organizzate, periodiche – perchè a conoscere e ad amare quei luoghi, ci fosse il maggior numero di persone, da tutto il mondo. E ricordo una volta che mi disse: “Perchè un movimento possa avere fiato, è importante che ci siano gli uomini; ma è più importante che ci siano le donne. Perchè tra uomini si può solo essere compari o nemici, anche tra padre e figli o tra fratelli, c’è la rivalità. Mentre le donne sono innanzitutto madri, e poi spose e figlie, e fra di loro finiscono per essere anche sorelle. Sono il connettivo del collettivo…”
Quando proposi alla Redazione di Pangea questo articolo, Medha Patkar stava per arrivare in Italia. E poiché in qualche modo avevo contribuito all’organizzazione della sua visita (ormai avvenuta, 19-24 ottobre scorsi) contavo su ciò che avrei avuto da condividere, dopo... Ma la parola dopo è come una palla di neve che si gonfia mentre rotola a valle, nella vita di Medha - che è un continuo presente di appelli e di urgenze qui e ora, su barricate sempre più tumultuose, pressanti, drammatiche. Così, proprio oggi (ed è solo il 5 di novembre, solo 10 giorni dopo…) ecco che tutto quello che mi ero appuntata della visita di Medha in Italia non ha più gran valore al confronto con l’ultimo concitato messaggio appena arrivato, da un luogo per noi lontanissimo nel Bengala. Un luogo che per tutto l’anno scorso è stato teatro di battaglia – e che è riesploso di nuovo nelle scorse ore. Nandigram (un puntino sulla carta geografica dell’India) è di nuovo in fiamme. Nella primavera scorsa gli scontri che per settimane avevano infiammato la zona, tra ‘quadri’ dell’Amministrazione (per giunta Comunista) del Bengala e contadini refrattari alla cessione delle terre (per giunta fertili e molto produttive – dai 3 ai 5 diversi raccolti all’anno) erano culminati in un brutto bilancio di sangue: 14 morti, numero imprecisato di feriti, episodi di violenza, stupri, brutalità, vendetta che si erano ripetuti per mesi anche dopo, episodicamente riesplosi in scaramucce anche nell’estate.
Oggetto del contenzioso: 20 mila acri di terra (non uno scherzo!) promessi al gigante indonesiano Salim (petrolchimica) nel quadro delle cosiddette SEZ, ovvero Zone Economiche Speciali. La “formula magica” con cui l’India, emulando anzi superando persino la Cina sul fronte del più totale disprezzo dei diritti umani, pretenderebbe di risolvere decenni di ritardo sul fronte dello sviluppo industriale – e non importa se distruggendo en passant quello sviluppo agricolo che nel caso del Bengala aveva coinciso con coraggiose (e lodate) riforme agrarie. Ma una ragione ulteriore per sapere ciò che vi sto raccontando, è che in questo folle scenario di accaparramento siamo coinvolti anche noi italiani, visto che proprio con l’Amministrazione del Bengala, per chissà quali affinità (forse ideologiche?) la mega-missione Prodi-Bonino-Montezemolo che si è recata nel febbraio scorso in India, ha preso il maggior numero di “impegni”. E in particolare a Singur sorge ormai, sinistramente recintato, pattugliato giorno e notte dalle guardie, lo stabilimento della Tata Motors per la produzione della famosa “low cost car” in compartecipazione “tecnica” (ma anche di distribuzione, insomma in “società”) con la nostra Fiat. E anche Singur è stato, è continuato ad essere, anche di recente un campo di battaglia, solo un po’ meno sanguinoso di Nandigram. E questo era ciò che Medha aveva cercato di dirci, durante la sua visita in Italia, una decina di giorni prima dei nuovi tumulti di ieri – che quando leggerete questo pezzo speriamo non siano ulteriormente degenerati in nuovo pogrom, sull’altare dell’affarismo globale.
Quando proposi alla Redazione di Pangea questo articolo, Medha Patkar stava per arrivare in Italia. E poiché in qualche modo avevo contribuito all’organizzazione della sua visita (ormai avvenuta, 19-24 ottobre scorsi) contavo su ciò che avrei avuto da condividere, dopo... Ma la parola dopo è come una palla di neve che si gonfia mentre rotola a valle, nella vita di Medha - che è un continuo presente di appelli e di urgenze qui e ora, su barricate sempre più tumultuose, pressanti, drammatiche. Così, proprio oggi (ed è solo il 5 di novembre, solo 10 giorni dopo…) ecco che tutto quello che mi ero appuntata della visita di Medha in Italia non ha più gran valore al confronto con l’ultimo concitato messaggio appena arrivato, da un luogo per noi lontanissimo nel Bengala. Un luogo che per tutto l’anno scorso è stato teatro di battaglia – e che è riesploso di nuovo nelle scorse ore. Nandigram (un puntino sulla carta geografica dell’India) è di nuovo in fiamme. Nella primavera scorsa gli scontri che per settimane avevano infiammato la zona, tra ‘quadri’ dell’Amministrazione (per giunta Comunista) del Bengala e contadini refrattari alla cessione delle terre (per giunta fertili e molto produttive – dai 3 ai 5 diversi raccolti all’anno) erano culminati in un brutto bilancio di sangue: 14 morti, numero imprecisato di feriti, episodi di violenza, stupri, brutalità, vendetta che si erano ripetuti per mesi anche dopo, episodicamente riesplosi in scaramucce anche nell’estate.
Oggetto del contenzioso: 20 mila acri di terra (non uno scherzo!) promessi al gigante indonesiano Salim (petrolchimica) nel quadro delle cosiddette SEZ, ovvero Zone Economiche Speciali. La “formula magica” con cui l’India, emulando anzi superando persino la Cina sul fronte del più totale disprezzo dei diritti umani, pretenderebbe di risolvere decenni di ritardo sul fronte dello sviluppo industriale – e non importa se distruggendo en passant quello sviluppo agricolo che nel caso del Bengala aveva coinciso con coraggiose (e lodate) riforme agrarie. Ma una ragione ulteriore per sapere ciò che vi sto raccontando, è che in questo folle scenario di accaparramento siamo coinvolti anche noi italiani, visto che proprio con l’Amministrazione del Bengala, per chissà quali affinità (forse ideologiche?) la mega-missione Prodi-Bonino-Montezemolo che si è recata nel febbraio scorso in India, ha preso il maggior numero di “impegni”. E in particolare a Singur sorge ormai, sinistramente recintato, pattugliato giorno e notte dalle guardie, lo stabilimento della Tata Motors per la produzione della famosa “low cost car” in compartecipazione “tecnica” (ma anche di distribuzione, insomma in “società”) con la nostra Fiat. E anche Singur è stato, è continuato ad essere, anche di recente un campo di battaglia, solo un po’ meno sanguinoso di Nandigram. E questo era ciò che Medha aveva cercato di dirci, durante la sua visita in Italia, una decina di giorni prima dei nuovi tumulti di ieri – che quando leggerete questo pezzo speriamo non siano ulteriormente degenerati in nuovo pogrom, sull’altare dell’affarismo globale.
Note: da Persona a Persona - Fondazione Pangea Onlus
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