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Due sacchetti per uscire subito e per sempre dall’emergenza

Le grandi imprese, al pari delle amministrazioni statali, hanno bisogno di momenti di trauma collettivo (Shock and Awe, shock e sgomento, fisico e psicologico) per dedicarsi a misure radicali di "ricostruzione".
9 gennaio 2008
Paolo Cacciari

Raccola indifferenziata

Proviamo a superare il grumo di sentimenti – un misto di vergogna e di rabbia–che ci provocano le troppe parole sprecate sul caso dei rifiuti di Napoli. In nome dell’”emergenza” mettiamo un attimo da parte le analisi delle cause e la ricerca dei responsabili. Ogni cosa a suo tempo; chi vorrà potrà sempre dire: “è stata colpa sua”, oppure: “io lo avevo detto”. Muoviamoci invece con puro spirito umanitario e compassionevole per evitare ancora troppe sofferenze alla popolazione napoletana: sia quella che vive nell’immondizia, sia quella che difende il territorio.

Tutti coloro che si occupano seriamente del problema sanno che i rifiuti solidi urbani, domestici, si riescono a smaltire tanto meglio (provocando meno inquinamenti e con meno costi) quanto più vengono differenziati a monte per frazione di materiale e tipologia merceologica. E’ la logica esattamente contraria alla cosiddetta “filiera industriale”, proposta in continuazione dalle lobby dei produttori, che prescrive: cassonetti indifferenziati lungo le strade, autocompattatori sempre più grandi, inceneritori di rifiuti “tal quali” (muniti di foglia di fico per il recupero di modestissime quantità di energia elettrica) ed infine trattamenti vari per sistemate le ceneri e le polveri tossiche prodotte dalla combustione che costituiscono dal 20 al 30 per cento in peso dei rifiuti iniziali bruciati.

Viceversa, un piccolo gesto individuale, un modesto atto di assunzione di responsabilità collettiva sociale, potrebbe innestare un circuito virtuoso, rigenerativo, economico (anche se probabilmente meno profittevole) che si chiama raccolta differenziata. Come ci dicono le centinaia di buone pratiche italiane e straniere, per iniziare basta separare i rifiuti solo per due componenti: in un sacchetto scuro (meglio se biodegradabile, in materiale biologico) si conferiscono gli scarti da cucina e tutti i residui umidi e putrescibili, nell’altro (meglio se trasparente, in modo che sia controllabile il contenuto) i rifiuti domestici solidi. Fatto questo tutto il resto viene da se. I servizi di raccolta si possono organizzare a giorni alterni (ad esempio: i giorni dispari l’umido, i pari il secco).
Al posto degli inceneritori, che nessuno vuole, si possono costruire semplici impianti di compostaggio (biocelle che accelerano la stabilizzazione del materiale riutilizzabile in agricoltura), mentre gli impianti per il confezionamento delle famose “ecoballe” dovrebbero essere riconvertiti in separatori di materiali: plastiche, metalli, carta, ecc.. I sovvalli e i materiali di scarto non recuperabili – inizialmente, realisticamente, saranno molti – potranno essere conferiti in discariche per soli materiali secchi. Ma nessuno avrà più di tanto da preccuparsi, poiché non contenendo materiali putrescibili non si formeranno percolati pericolosi per le falde acquifere, né biogas puzzolenti.

Troppo semplice? Una riorganizzazione dei servizi sulla base della separazione umido/secco può richiedere un paio di giorni per l’informazione alla utenza e un altro paio per riorganizzare i servizi di raccolta. In attesa del potenziamento dei centri di compostaggio campani si potrebbe “esportare” fuori regione solo questa tipologia di rifiuti. Nel giro di un mese nelle discariche andranno solo rifiuti secchi non putrescibili. Con grande beneficio per le popolazioni.
Per una volta, un’emergenza si risolverebbe in una diminuzione degli impatti ambientali, in una decrescita dei costi e degli sprechi. Viceversa Naomi Klein potrà trarre dalle vicende dei rifiuti napoletani un nuovo capitolo al suo Shock Econmy. Il capitalismo crea disastri ambientali per trasformarli in opportunità. Più grandi sono le distruzioni, più finanziamenti, più spesa pubblica, più profitti privati potranno essere lucrati. Le grandi imprese, al pari delle amministrazioni statali, hanno bisogno di momenti di trauma collettivo (Shock and Awe, shock e sgomento, fisico e psicologico) per dedicarsi a misure radicali di “ricostruzione”.
Basteranno tre o quattro inceneritori a salvare Impregilo e Bassolino?

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