La fabbrica della morte
La fabbrica di San Filippo del Mela, a 30 chilometri da Messina, dove dal 1958 al 1993 hanno lavorato 212 operai. Oggi è diventata un deposito di generi alimentari.Su 212 operai, 77 sono deceduti e altri 119 si sono ammalati. Tutti per colpa dell'amianto. È la storia di un'industria in provincia di Messina che ha provocato (e provoca ancora oggi) lutti e dolore. Si potevano evitare? Panorama ha ricostruito i fatti. Scoprendo verità sconvolgenti.
"Il 24 ottobre 1961": Salvatore Santoro, classe '38, se lo ricorda come fosse ieri il giorno in cui firmò il suo contratto di assunzione alla Sacelit. "Operaio addetto ai pezzi speciali" enuncia ancora orgoglioso, mentre per un attimo fa scattare in alto la testa con fierezza. Sì, se lo ricorda ancora bene quel giorno. Fu proprio quello l'attimo in cui siglò il patto scellerato: un lavoro al posto della salute, le sue mani in cambio dei suoi polmoni. Per metà della vita ha respirato amianto dalla mattina alla sera. Adesso vive attaccato a una bombola d'ossigeno alta un metro che è costretto a trascinare per tutta la casa. "Se avessi saputo come mi sarebbe finita, manco ammazzato ci sarei entrato in quella fabbrica" dice digrignando i denti per la rabbia.
Ma quella mattina d'autunno di 43 anni fa nessuno gli aveva detto niente: non c'erano rischi, niente pericoli. Solo un impiego: e in Sicilia un posto così non si poteva rifiutare. L'hanno pensata come lui anche gli altri 211 colleghi che, nel tempo, hanno lavorato nello stabilimento di San Filippo del Mela, a pochi passi dalle colonne di fumi che continua a esalare la raffineria di Milazzo. Di questi, 77 sono morti per malattie direttamente correlate all'amianto; 77 su 212: più di un terzo. Le cartelle cliniche sembrano bollettini di guerra: 30 li ha spazzati via il mesotelioma; due il carcinoma; 45 l'insufficienza respiratoria o il collasso cardiocircolatorio. Ad altri 119 ex dipendenti l'Inail ha riconosciuto la malattia professionale: quasi sempre si tratta di asbestosi, la patologia dei lavoratori delle miniere d'amianto, che accorcia il respiro e strema dopo una rampa di scale.
Alla Sacelit facevano materiale per l'idraulica e l'edilizia in cemento-amianto: tubi, pareti, rivestimenti e le classiche lastre ondulate che ancora oggi campeggiano come reliquie sui tetti della fabbrica. I capannoni grigio scuro sono ancora lì: rinchiusi da una cancellata alta più di 2 metri nella zona industriale di contrada Archi, a una trentina di chilometri da Messina. Gli ex operai non ci mettono più piede dal luglio del 1993, quando anche gli ultimi 47 furono mandati a casa. Sedici mesi prima la legge 257 aveva bandito la produzione e la vendita della fibra killer in tutt'Italia.
Tardi, troppo tardi per chi aveva mangiato pane e amianto per una vita. Letteralmente. Anche nella mente di Salvatore Nania, 56 anni d'età e gli ultimi dieci trascorsi in compagnia dell'asbestosi, i ricordi del primo giorno di lavoro sono stampati indelebilmente: "Quella che mi è rimasta maggiormente impressa è la sala di disintegrazione: lì le varie fibre vengono prima polverizzati, poi mescolate insieme. Fino a fare un'unica miscela". Nania si ferma un attimo: tossisce. È un uomo piccolo e dinamico, porta degli occhiali spessi e indossa un maglione di lana beige che gli casca sulle spalle. Tossisce nuovamente. Riprende il racconto: "Il rumore e la polvere erano impressionanti. L'operaio addetto a quel reparto era seduto su una panchina rudimentale: in una mano aveva una paletta con cui lavorava l'amianto, nell'altra un panino. Restai impressionato. Ma all'azienda interessava solo la produzione: quasi tutti mangiavano sul posto di lavoro, in mezzo a quell'inferno. E anch'io, non appena iniziai i turni, mi trovai sulla panchina del reparto di disintegrazione. Accanto a me c'era l'operaio che avevo visto il primo giorno: con una mano continuava a raccogliere le fibre, con l'altra mangiava un panino. È stato uno dei primi a morire: un tumore lo ha fulminato 15 anni fa".
Pane e amianto. "Gli addetti alle pulizie si lamentavano con i dirigenti per la polvere che li faceva tossire continuamente" ripensa oggi Santoro. "Loro rispondevano: "Ma che dite! L'amianto ve lo potete pure mangiare". Io questa frase non la dimenticherò mai".
Il primo a denunciare i rischi che stavano correndo fu Nania: "Nel 1979 lessi un articolo in cui si diceva chiaramente che il materiale provocava il cancro. Così iniziai a collegare il fatto con la morte per tumore di qualche mio collega avvenuta in quel periodo". Gli operai lo elessero nel consiglio di fabbrica e lui cominciò la sua battaglia. "Domandammo quelle mascherine e tute di protezione che non ci avevano mai dato, anche se la legge le imponeva dal 1955. Esigemmo visite mediche e più controlli". Ma la Sacelit, dice l'ex dipendente, non era sempre corretta: "Nel 1983" semplifica "l'Ispettorato del lavoro di Messina diede una multa all'azienda e indicò una serie di lavori da fare entro tre mesi, tra cui l'installazione di un impianto d'aerazione e una serie di misure per la sicurezza. L'unica cosa che hanno fatto è stato di ridipingere la mensa. E gli ispettori non si sono più visti".
Un punto va subito chiarito: l'azienda conosceva i rischi che si correvano dentro i capannoni di contrada Archi? Gli ex operai non tentennano un secondo: sì, ne sono tutti certi. La Sacelit smentisce. Oggi si chiama Nuova Sacelit, produce tubi ed è ancora in mano a uno dei gruppi italiani più importanti: la Italcementi, multinazionale bergamasca del cemento guidata da Giampiero Pesenti, 4,2 miliardi di euro di fatturato annuo e 17 mila dipendenti sparsi in tutto il mondo. La nota inviata a Panorama dalla Nuova Sacelit è perentoria: "Sono sempre state applicate le leggi e le norme del contratto collettivo nazionale relative all'igiene dell'ambiente di lavoro. Sulla base di quelle disposizioni, non vi sono stati comportamenti negligenti da parte della società o dei suoi dirigenti".
Alcuni documenti di cui è entrato in possesso Panorama smentiscono però questa versione: sono due lettere inviate nel 1976 dalla Medicina del lavoro dell'università di Bari alla direzione. Contengono i risultati delle visite mediche fatte quell'anno agli operai. Il primo documento è di febbraio (la data è illeggibile). Individua 12 dipendenti malati di asbestosi: per sei di questi, l'istituto consiglia di "non adibirli a mansioni lavorative che espongano a polveri". Sul secondo documento c'è anche il timbro di ricevimento: 24 maggio 1976. Anche qui c'è un elenco di lavoratori "non idonei a lavoro specifico e generico": seguono quattro nomi. Già nel 1976 la Sacelit sa quindi che 16 dipendenti soffrono di asbestosi, la malattia dell'amianto. Già nel '76 sa che chi entra a contatto con il materiale è a rischio. Oggi, a meno di 30 anni da quelle visite, di quei 16 lavoratori ne sono rimasti in vita solo quattro. Giovanni Saporita e Franco La Spada sono due dei superstiti. "Quelli di Bari" racconta il primo "mi avevano detto che con la mia malattia mi dovevo fare cambiare di posto. Ma fino all'ultimo giorno di lavoro sono rimasto sempre lì: a fare la manutenzione dei serbatoi". A La Spada è capitato lo stesso: "Ero il capomacchina e capomacchina sono rimasto".
Sapevano, quindi? Il tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto è convinto di sì: conoscevano i rischi o perlomeno dovevano conoscerli. Lo confermano le 18 sentenze che hanno obbligato la Nuova Sacelit a risarcire altrettanti ex operai per il "danno biologico subito". Tutti ripagati con una somma che varia da 50 a 190 mila euro. Solo una richiesta è stata rifiutata: praticamente il tribunale ha sempre ritenuto colpevole la società.
Le motivazioni delle sentenze non lasciano dubbi: "Le argomentazioni difensive (della Sacelit, ndr) inerenti le scarse conoscenze scientifiche sulla pericolosità dell'amianto" non possono essere accolte. "L'associazione amianto-mesotelioma è stata unanimemente riconosciuta già dal 1965" e "già dal 1943 il legislatore dimostra di conoscere l'asbestosi come malattia fondata sulla correlazione con lavorazioni d'amianto". L'azienda ha inoltre "inequivocabilmente" violato le "norme dirette a prevenire gli infortuni e le malattie sul lavoro". Infine, conclude il tribunale, la società non ha mai "messo a conoscenza i lavoratori sui rischi specifici cui erano esposti".
Nessun dubbio, quindi: la Sacelit ha violato le leggi. Ma la procura della Repubblica di Barcellona è andata oltre. Sulla morte di due lavoratori, il sostituto procuratore Olindo Canali, un anno fa, ha aperto un'inchiesta per omicidio colposo. Indagati, i quattro dirigenti che, negli anni, hanno guidato lo stabilimento di San Filippo del Mela.
Oggi, di quell'inferno, restano solo morte e malattia. Francesco Saraò adesso è un vecchietto di 79 anni che parla a fatica e indossa sempre un cappello nero a tese larghe. È rimasto alla Sacelit dal 1961 al 1984: produceva tubi idraulici. Gli avevano diagnosticato l'asbestosi già nel 1967. Oggi vive tutto il giorno con l'ossigeno. Di mattina si scarrozza per tutta la casa una bombola portatile collegata alle narici con dei tubicini; di sera usa un ventilatore polmonare attaccato a una maschera che gli copre interamente il viso. "Avevo due passatempi: la caccia e la campagna" si lamenta. "Da 20 anni, a stento posso uscire per una passeggiata".
Giovanni Foti, invece, era un carrellista. È bassino e rotondo, con i capelli grigi tirati all'indietro e le mani grosse scorticate da anni di lavoro. Ha 64 anni ma ne dimostra dieci di più. "Vado avanti solo con gli spray. La sera mi sento soffocare. Devo alzarmi per prendere aria. Che vita è questa?". Il tribunale, nel 2002, gli ha assegnato 150 mila euro di risarcimento. "Ma che me ne devo fare dei soldi? Chi me la restituisce la salute?".
C'è pure la storia che racconta Domenico Mancuso. Davanti alla scrivania dell'ufficetto nella sua autofficina mostra una foto: il padre e la madre che sorridono.
Santo Mancuso, ex addetto alle produzioni, scomparso nel 1998 per insufficienza polmonare. Qualche giorno dopo il funerale, anche la moglie ha cominciato a stare male: "Le mancava l'aria, era sempre stanca e affaticata" racconta il figlio. "A Milano i medici non sapevano come dirmelo: soffriva della stessa malattia di mio padre". Per anni aveva respirato amianto pure lei. Non era mai entrata nello stabilimento, ma le era bastato buttarsi al collo del coniuge quando rientrava a casa dal lavoro, scuotere i vestiti e la tuta con ancora addosso quelle maledette fibre prima di metterla in lavatrice. Giuseppa Vasalli è morta due anni fa, a 67 anni. La causa del decesso sul suo certificato di morte è uguale a quella del marito: insufficienza respiratoria. "È stato l'amianto" dice Domenico Mancuso. "Tutti i medici ci hanno detto la stessa cosa: è stato quel maledetto amianto".
(Ha collaborato William Castro)
Storia di un bollettino di guerra
A Milazzo e dintorni, quando ne parlano, lasciano perdere gli eufemismi: la Sacelit è per tutti "la fabbrica della morte". Lo stabilimento di San Filippo del Mela, a pochi chilometri dalla città famosa per la raffineria e gli imbarcaderi che portano alle isole Eolie, viene inaugurato nel lontano 1958. Si produce materiale per l'edilizia e l'idraulica: tutto in amianto-cemento.
Il primo caso di morte per tumore è del 1978. Qualche anno dopo comincia la crisi aziendale: i primi prepensionamenti sono del 1983. Nel giro di qualche anno resta appena una cinquantina di dipendenti. La chiusura definitiva dello stabilimento avviene però solo nel luglio del 1993, a un anno dalla legge che vieta la produzione e la commercializzazione dell'amianto in Italia.
Nello stabilimento di San Filippo del Mela hanno lavorato, nel corso del tempo, 212 persone. Gli ex operai morti per malattie direttamente collegabili all'amianto sono già 77. Mentre sono 119 quelli a cui l'Inail ha riconosciuto la malattia professionale. Altri sei hanno però già avviato le pratiche per ottenere una rendita. Restano 10 persone: gli unici ex operai della Sacelit che, fino a oggi, l'amianto ha risparmiato.
Dopo gli ultimi due decessi, nel 2003 la procura della Repubblica di Barcellona Pozzo di Gotto ha aperto un'inchiesta per omicidio colposo contro quattro dirigenti dell'azienda.
FIBRA CHE NON LASCIA SCAMPO
La parola amianto deriva dal greco asbestos. Significa inestinguibile, indistruttibile. Proprio per questa sua resistenza il materiale (che ricorda il cotone) è stato impiegato in Italia dal dopoguerra. Ci si è costruito di tutto: dalle ormai famose coperture in Eternit alle piastre isolanti per i ferri da stiro, dagli schermi cinematografici alle carrozze ferroviarie. Una produzione vastissima che ha coinvolto almeno 1.300.000 lavoratori.
Dei danni provocati dall'amianto si parla già nel 1907. Ma è solo negli anni Sessanta che la comunità scientifica riconosce che il materiale può provocare il cancro.
Le malattie collegate all'inalazione della fibra killer sono tre: l'asbestosi, che riduce le capacità polmonari e può portare anche alla morte; il mesotelioma, un tumore che può colpire il rivestimento dei polmoni (pleura) e degli organi addominali (peritoneo); il carcinoma polmonare, forma di cancro molto diffusa.
Comunque, nonostante queste correlazioni fossero note da tempo, l'estrazione, l'importazione e la produzione continuano fino al 1992, anno in cui la legge 257 mette al bando l'amianto. La norma, però, è stata attuata solo in parte. Se dal 1994 è cessato il commercio, stessa efficacia non hanno avuto le attività di bonifica. Nel 2000 la commissione parlamentare d'inchiesta sul circolo dei rifiuti ha confermato: su tutto il territorio nazionale ci sono 23 milioni di tonnellate d'amianto. Rimangono ancora ad altissimo rischio: gli abitanti di case inquinate dalle fibre, i familiari degli ex lavoratori esposti e le case accanto ai numerosi siti dove si aspetta lo smaltimento.
Ogni anno muoiono per l'amianto tra le 4 mila e le 5 mila persone. Il tempo di latenza delle malattie è molto lungo: dai 20 ai 50 anni. Per questo, il picco della mortalità è atteso nel 2010. Gli epidemiologi hanno già fatto il conto finale: nei prossimi vent'anni, nei sei paesi europei più importanti, 250 mila persone moriranno solo per mesotelioma
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