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La dieta a base di carne produce costi che vanno ben oltre ciò che si paga al ristorante o dal macellaio.

L'Economia della carne

16 novembre 2004
Norman Myers (è uno dei massimi analisti ambientali a livello mondiale. Insegna alla Duke University (USA) ed è membro straniero della National Academy of Sciences degli Stati Uniti. La sua produzione scientifica e divulgativa è immensa e conta centinaia di pubblicazio)

. La dieta a base di carne produce costi che vanno ben oltre ciò che si paga al ristorante o dal macellaio. La rivoluzione dell’alimentazione tende a provocare un forte impatto nelle zone coltivate a cereali, in termini di erosione del suolo e altre forme di deterioramento della terra. La domanda di nuovi pascoli da destinare a bestiame può inoltre arrivare a pesare in modo determinante sulle foreste e sugli habitat naturali. A ciò si aggiunga che il bestiame può essere ecologicamente molto costoso in termini di gas serra. I bovini e gli altri ruminanti generano metano nella misura di un sesto delle emissioni globali, una frazione che probabilmente è destinata a salire parallelamente all’incremento dei consumi di carne.
Vanno inoltre considerati anche i rifiuti organici dell’allevamento, che giocano un ruolo importante nell’inquinamento delle acque, nelle esplosioni algali e nelle morie di pesci. Negli Stati Uniti l’inquinamento organico prodotto dalla zootecnia è 130 volte maggiore di quello prodotto dalla popolazione umana. E al primo posto di questa serie di problemi, vanno considerati anche gli effetti che una dieta ricca di grassi e calorie esercita sulla salute: l’alimentazione fondata sulla carne danneggia le arterie e può essere la causa di morte prematura.
Ci si dovrebbe gettare nelle scorpacciate di carne ricordando che mangiando quel cibo si stanno mangiando in realtà anche cereali, perché molta carne viene prodotta grazie ad essi. Il sistema di allevamento in feedlot (ambiente confinato per l’allevamento intensivo del bestiame, ndt) sta prendendo piede in Cina, Filippine, Brasile e nella maggior parte dei paesi neoconsumatori. Dal momento che i pascoli sono stati sovrasfruttati in quasi tutto il mondo, l’allevamento in feedlot diventerà sempre più significativo. E infatti i dati dicono che è il sistema a più rapida espansione negli allevamenti di molti paesi.
La Cina oggi destina quasi un quarto dei suoi cereali al bestiame, il Brasile e l’Arabia Saudita più della metà. In nove dei venti paesi di nuovo consumo i cereali trasformati in mangimi raggiungono i due quinti sul totale. Si tratta certamente di quantitativi immensi per paesi in via di sviluppo, sempre ricordando però che negli USA la quota è di due terzi. Nei due ultimi decenni il Messico ha visto salire al 41% la percentuale di cereali destinati all’allevamento.

Un chilogrammo di carne bovina prodotta in feedlot può richiedere 7 kg di cereali, quella di maiale 4 kg e quella di pollo 2 kg, il che rende la carne bovina molto più costosa delle altre. Il rapporto fra carne e cereali indica che il feedlot è un metodo molto inefficiente per produrre proteine. Un campo di un ettaro a cereali produce 5 volte più proteine dirette che proteine indirette attraverso l’allevamento. Il manzo contenuto in un hamburger equivale grossomodo a cinque filoni di pane.
Inconsapevoli di questo, i nuovi consumatori preferiscono mangiare carne che avrà un forte impatto sui paesi che dipendono dai cereali che importano. In Colombia le importazioni di cereali corrispondono a circa la metà del fabbisogno totale, in Venezuela ai due terzi, in Corea del Sud, Malesia e Arabia Saudita ai tre quarti. Dei 20 paesi, nove importano più di un quinto dei cereali che sono loro necessari, e altri sei importano quantitativi significativi (Cina, India e Pakistan ne importano relativamente pochi, mentre Argentina e Thailandia sono buoni esportatori). Le Filippine importano il 27% dei cereali che consumano, eppure riservano una quota analoga all’allevamento, mentre per il Brasile le due percentuali sono rispettivamente del 21% e 54%.
Queste importazioni producono una pressione sui mercati cerealicoli internazionali a danno dei paesi poveri che non possono affrontare prezzi alti. Ma ciò che è peggio è che la pressione può aumentare fino a un certo punto, dopo di che la produzione di cereali globale non è più in grado di soddisfare la domanda.
Nel triennio 2000-2002 il raccolto mondiale è sceso al di sotto dei consumi, portando le riserve cerealicole al livello più basso degli ultimi tre decenni. La reazione è stata un incremento del 30% dei prezzi del grano e del mais. Nel frattempo la popolazione mondiale è cresciuta di oltre 80 milioni di persone l’anno, e la domanda mondiale di cereali è salita di 16 milioni di tonnellate annue.

L’aritmetica dei cereali è la seguente. Il raccolto globale ruota attorno ai 1.900 milioni di tonnellate l’anno, di cui 340 milioni sono prodotti rispettivamente sia in Cina che negli Stati Uniti, e 200 milioni in India. I cereali commercializzati a livello mondiale ammontano a 300 milioni di tonnellate annue, di cui 90 milioni provenienti dagli Stati Uniti (venduti o donati a oltre 100 paesi). Molte nazioni e circa un miliardo di persone potrebbero trovarsi gravemente minacciati dalla morsa del mercato. Il raccolto globale di cereali del 2003 è stato inferiore ai consumi di ben 93 milioni di tonnellate (nel 2001 di 16 milioni), facendo calare gli stock di riserva al livello più basso degli ultimi 30 anni.
Ma torniamo alla Cina, che destina un quarto della sua produzione cerealicola al bestiame: il doppio rispetto al 1980. Se il trend relativo alla carne continuerà e se la crescita demografica di 8 milioni l’anno richiederà più cereali come fonte diretta di cibo, la Cina potrebbe dover dipendere dalle importazioni per un decimo dei suoi consumi (o forse due decimi), diventando il principale importatore del mondo. L’India è un altro paese che non importa né esporta cereali in quantità significative, ma entro il 2020 potrebbe trovarsi ad affrontare una scarsità di granaglie pari a un quarto dei consumi previsti. Questo la farebbe diventare il secondo importatore mondiale: in pratica, Cina e India necessiterebbero di quasi il triplo dei cereali oggi esportati dagli USA.
A prescindere dagli aspetti economici delle importazioni, il consumo di carne va analizzato anche sotto il profilo sociale. Grandi quantitativi di cereali per il bestiame si traducono in una diminuzione di cereali per le popolazioni povere. Un vegetariano consuma 200 kg di cereali l’anno, mentre una persona sottonutrita ne consuma almeno 40 in meno. Soltanto un decimo degli 85 milioni di tonnellate di cereali che la Cina ha destinato al bestiame nel 2000 è servito a migliorare l’alimentazione dei suoi 120 milioni di sottonutriti (quasi il 20% della popolazione). Nelle Filippine è sottonutrita una persona su cinque, ma nel 2000 quattro milioni di tonnellate di cereali hanno preso la via dell’allevamento del bestiame: per risolvere le necessità alimentari di base dei 17 milioni di malnutriti del paese ne sarebbe bastato un decimo.
Altri grandi importatori di cereali e consumatori di carne sono il Brasile (17 milioni di sottonutriti: 1 persona su 10), la Colombia (5,6, milioni di sottonutriti: 1 persona su 8), e il Venezuela (quasi 5 milioni di sottonutriti: 1 persona su 5).
In particolare va osservato il ruolo internazionale degli USA, che esportano il 25% dei cereali prodotti e contribuiscono a un terzo di tutte le esportazioni. Buona parte di questi cereali va agli allevamenti e non alle persone che soffrono la fame. Il Governo statunitense ha incoraggiato per molto tempo, attraverso i programmi di aiuto internazionale, l’espansione dei mercati dei mangimi cerealicoli, proprio perché questi assorbissero le sue esportazioni.

Nel mondo, su cinque bambini affamati, quattro vivono in paesi caratterizzati da surplus di alimenti, parte del quale è costituito da cereali destinati all’allevamento.
Che cosa si deve prevedere per il futuro? Entro il 2020 (e rispetto al 1997) il mondo in via di sviluppo - le cui popolazioni oggi risiedono per tre quarti in 17 paesi di nuovo consumo - aumenterà prevedibilmente del 50% la domanda di cereali complessiva, del 39% la domanda di cereali per l’alimentazione umana, dell’85% quella per l’allevamento, e del 92% la domanda di carne. Ciò corrisponderà a un incremento di circa l’86% della domanda globale di cereali e carne.

Note: Tratto da: I nuovi consumatori
Paesi emergenti tra consumo e sostenibilità
Norman Myers, Jennifer Kent
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