Biopirateria
Il neem è un albero originario dell’India. Il suo nome è di derivazione persiana, e in questa lingua significa “albero libero”. Per molte comunità è sacro. Le sue foglie, sono da antichissima tradizione oggetto di ampia, comune e complessa utilizzazione locale perché possiedono, un grande valore farmacologico per l’uomo e sono al contempo un efficace rimedio naturale per le malattie delle piante. Il neem ma come anche la curcuma, il pepe, il riso di cui ne esistono oltre 200.000 mila varietà, il ginger, il melone amaro, ecc…, fanno parte di quelle migliaia di prodotti vegetali conosciuti, utilizzati e scambiati liberamente nel subcontinente indiano da tempo immemorabile, “tra comunità e comunità e tra cultura e cultura” in un continuo confronto che ha dispensato a tutti esperienza, ricchezza intellettuale e materiale.
Oggi però queste risorse naturali sono saccheggiate dal crescente fenomeno della biopirateria, termine che si riferisce all’utilizzo dei sistemi di proprietà intellettuale per legittimare il possesso e il controllo esclusivi di risorse, prodotti e processi biologici utilizzati da secoli nelle culture non industrializzate. Una nuova forma di colonialismo perpetrata ai danni delle popolazioni native e una colossale rapina che le multinazionali euro-americane, con in testa le grandi industrie farmaceutiche, avide di nuove fonti di guadagno, commettono ai danni delle comunità autoctone del Sud del mondo.
Ricercatori, esploratori ma anche missionari e ambasciatori sono impegnati da almeno una quindicina d’anni nell’acquisizione di materiali e segreti propri di popolazioni indigene. Il cosiddetto “oro verde”, insieme di piante, semi, funghi, ma anche animali: come le 750 rane della specie Epipedobates tricolore, rubate negli anni passati in Ecuador dalla Abbot Laboratories di Chicago, che producono la Epibatidina, un analgesico 200 volte più forte della morfina e brevettato negli Stati Uniti. Ogni elemento costitutivo della biodiversità di queste regioni è setacciato e spedito nei laboratori di biotecnologie del ricco Occidente per essere manipolato e quindi commercializzato senza che i veri proprietari, le comunità etniche, possano opporvisi o partecipare all'utile derivante. La “biopirateria” colpisce i continenti più poveri del pianeta dove preservare la biodiversità è una necessità assoluta “ di tenere in vita forme alternative di produzione” ma anche, in una rete più ampia di significati “tenere in vita modi di pensare e modi di vivere” come spiega l’eco-femminista Vandana Shiva, ormai da anni impegnata a denunciare la rapina dei “saperi indigeni”.
Un giro d’affari calcolato in circa 5000 milioni di dollari e che attualmente costituisce il traffico economicamente più rilevante dopo quello delle armi e della droga. Africa, Asia ma soprattutto America Latina per il semplice motivo che questo vastissimo continente ospita la foresta amazzonica, un’area ricchissima di biodiversità con specie biologiche uniche al mondo in gran parte ancora sconosciute agli scienziati, sono le principali vittime della spietata razzia del patrimonio genetico attuato dal massiccio intervento della nuova economia globale delle transnazionali dell’Occidente.
Nell’ultimo grande polmone verde del pianeta i casi di biopirateria sono numerosi. In Ecuador, ad esempio il caso più conosciuto –come si legge sul sito dell’ Associazione popoli minacciati (www.gfbv.it)- è legato al brevetto dell'Ayahuasca (una bevanda ottenuta dalla cottura di una liana e delle foglie di arbusto). Una decina d’anni fa Loren Miller, proprietario di un laboratorio farmaceutico statunitense, l'International Plant Medicine Corporation, ottenne alcune piante di Ayahuasca dagli indigeni Cofán. Di ritorno negli Stati Uniti brevettò la pianta. Nel 1996 il Coordinamento delle Organizzazioni Indigene della Conca Amazzonica (COICA - Coordinadora de las Organizaciones Indígenas de la Cuenca Amazónica, www.coica.org) presentò un ricorso per revocare il brevetto visto che l'Ayahuasca è una pianta sacra usata dai guaritori amazzonici come allucinogeno e che gli indigeni usano da secoli. Nonostante il brevetto sia stato ritirato, nel 2001 Loren Miller lo riottenne nuovamente. “Globalmente – scrive Vandana Shiva- il valore corrente del mercato mondiale delle piante medicinali, utilizzate secondo le indicazioni delle comunità locali e indigene, viene stimato in circa 43 miliardi di dollari, di questi una piccola parte-in alcuni casi -è pagata come tassa di prospezione”. Secondo alcuni studi il valore commerciale dei prodotti farmaceutici elaborati a partire dalle piante tropicali si aggira intorno ai 147 milioni di dollari. Una cifra enorme di cui, solo lo 0,001% delle cosidette royalties, arriva alle comunità locali ! Eppure, come si legge sul settimanale “D” di Repubblica, “il Nord del mondo dipende dal Sud fino al 95% della materia prima genetica dei suoi importanti prodotti”.
La biopirateria è l’ultima grave vergognosa sopraffazione che l’arrogante, scientifica e biotecnologica civiltà del libero mercato, ha imbastito a spese di società soffocate dal sottosviluppo e dal debito pubblico. Due piaghe che dopo secoli di colonialismo tout court, “lo stesso Occidente – scrive Vandana Shina – ha largamente contribuito a mantenere, e persevera in questo incentivandole nella sua indomita volontà di dominio economico e sfruttamento”, opprimendo di fatto centinaia di milioni di persone. E non certo invece come mistificava candidamente Giovanni Sartori, dalla prima pagina del Corriere della Sera asserendo, in occasione del vertice dell’organizzazione mondiale del commercio tenutasi a Cancun in Messico, nel settembre del 2003, che: "I paesi ricchi sono tali per virtù e merito proprio, non perché hanno rapinato i Paesi poveri. Questi ultimi sono poveri perché malgovernati e perché sovrappopolati". Un’ Occidente che l’etnologo Vittorio Lanternari al contrario vede con lucidità “colpevolmente abbandonatosi in modo degradante alla deriva d’una politica volta a incentivare, la crescente apertura della forbice che distanzia il Nord dal Sud, il cosidetto “sviluppo” dal totalmente contrario “sottosviluppo” fatto nuovamente cinico strumento complementare del primo”.
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