Dieci anni fa le convenzioni di Ginevra morivano a Belgrado. Oggi il diritto Internazionale muore a Pristina

Kossovo: storia di una repubblica fondata sulla guerra

Dai tentativi locali di riconciliazione delle etnie all'"indipendenza" pilotata dall'occupazione militare: i passaggi chiave e i retroscena della "guerra umanitaria" che ha creato dal nulla una repubblica amica della Nato.
24 febbraio 2008
Carlo Gubitosa (Associazione PeaceLink)

La strada difficile della nonviolenza

Copertina del libro ''Resistenza nonviolenta nella ex-Jugoslavia'' "Per una soluzione nonviolenta in Kossovo" era il titolo della campagna di solidarieta' promossa nel 1993 da un nutrito cartello di organizzazioni pacifiste. Era il tempo in cui il conflitto tra serbi e albanesi non era ancora entrato nella fase di escalation, e poteva essere risolto con le "armi" dell'interculturalita', dell'educazione, dello sviluppo umano, anziche' esasperato con le armi. Ma questi strumenti erano troppo evoluti per una diplomazia internazionale ancora oggi ferma a Von Clausewitz e alla teorizzazione della guerra come unica possibile estensione delle politiche nazionali.

E' cosi' che il 10 ottobre 1998 i soliti utopisti arcobaleno si ritrovano soli davanti a Montecitorio per sostenere le ragioni della "campagna Kossovo", rimbalzando sul muro di gomma di quei partiti che si accorgeranno del problema solo nel marzo successivo, quando da Washington qualcuno decidera' che e' ora di scaldare i motori dei bombardieri. L'ingenua illusione dei movimenti non era la ricerca di una soluzione nonviolenta per la riconciliazione in Kossovo: quella era a portata di mano. Bastava pochissimo, ad esempio, per sostenere politicamente e finanziariamente il sistema scolastico parallelo (e molto piu' economico dei bombardamenti) realizzato dagli albanesi del Kossovo come forma di resistenza contro l'istruzione ufficiale, dove gli studenti erano suddivisi delle classi in base alla loro etnia.

La pia illusione dei pacifisti e' stata quella di fare affidamento sulla furbizia dei politici scambiandola per intelligenza, pensando che una destra militarista o una finta sinistra clintoniana e dalemiana potessero arrivare a concepire nella loro ignoranza soluzioni cosi' sofisticate come la risoluzione non armata dei confliltti interetnici.

Come una piaga lasciata incancrenire per dolo o ignoranza, il conflitto etnico in Kossovo diventa scontro armato, e un gruppo di paesi ne approfitta per trasformarlo nel business geopolitico della guerra. Il 15 gennaio 1999 le cronache danno tristemente ragione ai pacifisti che chiedevano con urgenza una soluzione politica per la regione: nel villaggio kossovaro di Rakac di vengono rinvenuti i corpi di 45 vittime albanesi di colpi di arma da fuoco sparati a distanza ravvicinata. Si e' ancora in tempo per tirare il freno a mano e fare marcia indietro: gia' in precedenza gruppi di famiglie albanesi e serbe colpite da lutti come questo avevano celebrato pubblicamente la loro riconciliazione, convinte che spezzare la faida fosse il miglior tributo per onorare la memoria dei loro cari.

Ibrahim Rugova, assieme ai leader religiosi locali e alle migliori forze della societa' civile kossovara, aveva promosso gia' dal 1990 un processo di superamento della "vendetta del sangue", profondamente radicata nella tradizione albanese, favorendo un movimento di riconciliazione che consenti' l'estinzione di 1275 vendette del sangue. Anche la tragedia di Rakac avrebbe potuto essere superata in questo modo, o inventandosi un'altra soluzione con la partecipazione dei due gruppi in conflitto come ha fatto il Sudafrica per uscire dall'Apartheid o l'India per uscire dall'oppressione britannica senza bombardamenti umanitari.

I "pacificatori" cercano la guerra

Anziche' innestarsi in questi meccanismi virtuosi o innescarne di nuovi, all'inizio del 1999 una coalizione di stati viene a porgere un aiuto tutt'altro che disinteressato. E' il "Gruppo di contatto", composto dai rappresentanti diplomatici di Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia, che decidono di imporre a Serbi e Albanesi un negoziato sotto la propria egida, in forma di ultimatum, con una iniziativa autonoma completamente estranea al sistema delle Nazioni Unite.

Che il mediatore non sia neutrale lo si capisce da subito, leggendo gli "accordi di Rambouillet" messi sul tavolo della trattativa con una condizione molto chiara: "o li accettate o bombardiamo". Un testo inaccettabile per qualunque stato sovrano, che trasforma esplicitamente la Jugoslavia (e non solo il Kossovo) in un protettorato della Nato. Il testo di questi accordi viene siglato il 18 Marzo 1999 dalla delegazione diplomatica britannica, da quella statunitense e dai rappresentanti della popolazione albanese del Kossovo.

In un articolo pubblicato il 28 giugno 1999 sul Daily Telegraph, l'ex segretario di stato degli USA Henry Kissinger ha dichiarato apertamente che "Il testo di Rambouillet, che chiedeva alla Serbia di ammettere truppe NATO in tutta la Jugoslavia era una provocazione, una scusa per iniziare il bombardamento. Rambouillet non è un documento che un Serbo angelico avrebbe potuto accettare. Era un pessimo documento diplomatico che non avrebbe dovuto essere presentato in quella forma".

Per capire quanto sia vera l'affermazione di Kissinger basta leggere il capitolo VII degli accordi di Rambouillet, il più controverso perché relativo al "corpo militare di pace nel Kosovo", dove l'articolo 8 dell'appendice B contiene una clausola vincolante: "Il personale della Nato dovrà godere, con i suoi veicoli, vascelli, aerei e equipaggiamento di libero e incondizionato transito attraverso l'intero territorio della Federazione delle Repubbliche Jugoslave, ivi compreso l'accesso al suo spazio aereo e alle sue acque territoriali. Questo dovrà includere, ma non essere a questo limitato, il diritto di bivacco, di manovra e di utilizzo di ogni area o servizio necessario al sostegno, all'addestramento e alle operazioni".

Ma oltre a conquistare il presidio del territorio, le truppe Nato vogliono anche essere al di sopra della legge, e pertanto l'articolo 7 dell'appendice in questione stabilisce che "Il personale della Nato sarà immune da ogni forma di arresto, inquisizione e detenzione da parte delle autorità della Federazione delle Repubbliche Jugoslave. Personale della Nato erroneamente arrestato o detenuto dovrà essere immediatamente riconsegnato alle autorità Nato".

E' cosi' che dopo il prevedibile rifiuto di questi accordi, che hanno cavalcato un conflitto trasformandolo in "guerra umanitaria" nell'interesse dei paesi Nato, nel marzo 1999 una regione conosciuta solo grazie al grido inascoltato degli attivisti della nonviolenza si trasforma nel cuore della geopolitica globale, e il Kossovo sale agli onori delle cronache grazie ai bombardamenti su Belgrado.

Un nuovo governo per una nuova guerra

"Target", il simbolo usato dai cittadini di Belgrado trasformati in bersagli per le bombe della NATO

Ma com'e' nata la maggioranza politica che ha trascinato l'Italia in guerra? Per bombardare la Repubblica Federale di Jugoslavia si e' reso necessario far cadere il governo italiano e rimpiazzare Prodi con D'Alema, o almeno questo e' quello che hanno sostenuto l'allora ministro della Difesa Carlo Scognamiglio e Francesco Cossiga, il fondatore dell'Udeur, la formazione politica nata in quell'occasione per creare una nuova maggioranza politica in parlamento. Entrambi hanno descritto la crisi del primo governo Prodi nel 1998 come funzionale alla creazione di un governo piu' docile nel rispettare le direttive impartite dagli USA attraverso la Nato.

"Sono testimone all'on. D'Alema di aver mantenuto i propri impegni con scrupolo e determinazione - ha scritto Scognamiglio al Corriere della Sera il 7 giugno 2001 -. Il 24 marzo 1999 si assunse la responsabilità di acconsentire l'inizio delle ostilità (...) L'Italia uscì da questa drammatica vicenda avendo conquistato il rispetto e la considerazione degli Alleati in una misura che mai si era espressa in passato, e avendo offerto un contributo insostituibile all'azione militare. Queste furono le ragioni della formazione del Governo D'Alema e della maggioranza che lo sostenne".

Il 10 giugno dello stesso anno, sempre dalle pagine del "Corriere", Francesco Cossiga sostiene la versione di Scognamiglio con toni ancora piu' espliciti. si esprime cosi' sul quotidiano di via Solferino: "Era ben noto - scrive Cossiga - che il governo Prodi non aveva nel suo complesso ne' la volonta' politica ne' la forza parlamentare per poter prendere decisioni all'altezza del nostro ruolo nella Nato. E questo anche per la presenza, in esso e nella sua base parlamentare, di forti componenti pacifiste comuniste e cattoliche. (...) Non fu facile per il governo D'Alema passare dalla sola messa a disposizione delle basi al trasferimento sotto comando Nato delle nostre forze aeree, che (...) intervennero con missioni di attacco contro obiettivi militari jugoslavi nel Kosovo". E se fu difficile per D'Alema, sarebbe stato impossibile per Prodi, frenato dalle "componenti pacifiste" del suo governo.

A conferma della versione di Scognamiglio e Cossiga va registrato il drastico cambiamento nel registro della politica estera italiana con il passaggio di consegne da Prodi a D'Alema. Con il comunicato 157 del 12 ottobre 1998, il Governo Prodi mette nero su bianco che "nell'attuale situazione costituzionale il contributo delle Forze Armate italiane sarà limitato alle attività di difesa integrata del territorio nazionale. Ogni eventuale ulteriore impiego delle Forze Armate dovrà essere autorizzato dal Parlamento". Una autorizzazione che non e' mai avvenuta dopo l'insediamento di D'Alema, in quanto i bombardamenti sono stati disposti dal Governo senza una votazione parlamentare, e le attivita' militari sono andate ben oltre la "Difesa integrata", un'espressione con cui si indica l'utilizzo da parte degli alleati Nato di basi militari e infrastrutture italiane senza la partecipazione diretta ai bombardamenti.

Se la guerra diventa umanitaria la destra diventa pacifista

L'unico dibattito in parlamento relativo all'azione militare avviene il 19 maggio 1999, quando la Camera dei Deputati italiana si riunisce, ma non per autorizzare o meno l'intervento militare, bensi' per ricevere le "Comunicazioni del Governo sugli sviluppi della crisi nei Balcani", come specificato dall'ordine del Giorno. Durante il dibattito D'Alema si dimostra piu' interessato ai pesci dell'Adriatico che alle vittime civili della Serbia, e a nome del popolo italiano dichiara che "riteniamo particolarmente preoccupante l'episodio del ritrovamento di un certo numero di bombe della Nato sui fondali dell'Adriatico settentrionale, per le possibili conseguenze di tale episodio, ma soprattutto per il fatto che il Governo non e' stato prontamente ed adeguatamente informato in proposito dalle autorita' dell'alleanza".

In quell'occasione la sinistra di governo si rivela talmente guerrafondaia da risvegliare perfino nei partiti della destra piu' estrema e militarista dei rigurgiti di pacifismo, o quantomeno il rifiuto di una guerra che non li vedeva protagonisti. Dai banchi di Alleanza Nazionale Teodoro Buontempo si produce in una arringa contro il Presidente del Consiglio, che rimane nero su bianco sui verbali della seduta: "D'Alema - afferma Buontempo - ha privilegiato alla fine la volonta' di mostrarsi affidabile a livello internazionale; anche dai suoi interventi traspaiono in maniera molto chiara i tanti dubbi che ha avuto, di fronte alla superficialita' criminale con la quale la Nato ha mosso i bombardamenti senza predisporre un piano di emergenza sanitaria, una via di fuga per i profughi. Ancora oggi, Presidente del Consiglio, non so con quale serenita' lei possa guardare le immagini che vengono trasmesse e sapere che in quei campi profughi mancano ancora mezzi di comunicazione (hai voglia a parlare di ricongiungimenti delle famiglie !) e medicinali sufficienti (non c'e' ancora un'assistenza medica degna di questo nome). (...) Non si puo' pensare di dare avvio ad una trattativa di pace mentre si continuano a bombardare alla cieca obiettivi civili e mentre diventano milioni i disperati che non hanno piu' patria, che non sanno piu' da dove arrivi la morte! Non so se un domani sara' possibile giudicare i capi dei Governi dei Paesi della Nato per l'efferatezza e il cinismo con cui questa ha bombardato le popolazioni civili. La tregua serve anche, Presidente del Consiglio, perche' quella parte del popolo serbo che dissente da Milosevic e dalle sue azioni criminali abbia la possibilita' e il tempo necessario, senza i bombardamenti, di parlare con il resto della popolazione. Finche' continueranno i bombardamenti, Milosevic sara' un gigante e il dissenso non potra' emergere".

Nello stesso dibattito anche il sanguigno Umberto Bossi dimentica gli inviti alle sollevazioni armate rivolti al "popolo padano", scopre la sua vocazione al pacifismo ed e' tra i primi a denunciare l'impiego di bombe all'Uranio impoverito. Nel suo intervento, Bossi sottolinea che "viviamo in un'epoca pericolosa in tutti i sensi, che non ascolta piu' nemmeno la voce del Papa. E' stata creata ad arte una confusione delle lingue, con notizie false a livello mondiale ed europeo; si e' trattato di un'opera di disinformazione con la creazione di una falsa verita': la guerra giusta. Se l'opinione pubblica e' contraria ad un intervento della Nato, allora si va giu' ancora piu' forte con il lavaggio del cervello; si va avanti con la propaganda, per far perdere di vista altre ragioni, forse quelle vere o, per lo meno, le piu' importanti; ragioni che non sono esattamente quelle umanitarie, bensi' quelle strategiche in un'area - i Balcani - in cui sopravvive l'anomalia comunista della Serbia; si tratta di un vuoto da colmare per la Nato ! (...) Si tratta di una guerra che mostra anche la vera faccia del fronte dei pacifisti della sinistra di guerra: a quanto pare, quel fronte di pacifisti era pieno di guerrafondai; sono andati al governo e lo stanno dimostrando. La guerra e' la morte dei valori della solidarieta', in questa Guernica jugoslava, con la Nato che sgancia bombe arricchite all'uranio debole, che vertiginosamente aumenta e moltiplica i tumori e le leucemie nei residenti: certamente, e' uno spregio alla ragione".

Parlano le bombe

Il palazzo della televisione serba RTS a Belgrado, distrutto dalle bombe il 23 aprile 1999. Al suo interno c'erano sedici persone.

Sia come sia, la politica delle buone intenzioni di Prodi ha ceduto il passo a quella delle cattive pratiche di D'Alema. Il 24 marzo 1999 la parola passa alle bombe, ma non prima di aver evacuato gli osservatori dell'Osce presenti sul territorio. La missione dell'Osce era nata monca e depotenziata in partenza a causa dell'utilizzo di ex-militari, riciclati con scarso successo in attivita' di intervento umanitario. Cio' nonostante l'Osce riesce a realizzare in piu' occasioni delle efficaci iniziative di interposizione tra le parti in conflitto, che avrebbero potuto essere determinanti per una soluzione non armata se ci fosse stata la volonta' politica di evitare i bombardamenti.

In quei giorni anche l'inesorabile macchina della propaganda mediatica si mette in moto con precisione millimetrica. Con un copione che si sarebbe poi ripetuto per l'Afghanistan e l'Iraq, i profeti delle guerre sante trasformano nel nuovo Hitler l'amico del giorno prima. Perfino "L'Unita'" fa rivoltare Gramsci nella tomba scomodando costituzionalisti compiacenti che scalano montagne di specchi per spiegare, con articoli da prima pagina, come mai sia legittimo bombardare uno stato sovrano anche se la Costituzione italiana ripudia la guerra, il trattato della Nato prevede interventi solo in chiave difensiva, e il Consiglio di Sicurezza dell'Onu non ha autorizzato nessuna azione militare. E il 27 marzo '99, a tre giorni dall'inizio dei bombardamenti, sulle colonne del "Messaggero", l'allora ministro degli esteri Lamberto Dini prende le distanze dalle cattive compagnie del passato dichiarando che "la mia unica colpa e' quella di aver coltivato da tempo, e negli anni, un ottimo rapporto personale con il presidente serbo Milosevic".

Si scatena cosi' una serie di offensive aeree che meritano di essere ricordate per la "rottamazione forzata" delle convenzioni di Ginevra: per la prima volta nella storia, l'alleanza atlantica bombarda una struttura civile senza descrivere l'avvenimento come un indesiderato "effetto collaterale", ma al contrario rivendicando un crimine di guerra come una legittima azione militare.

Tutto accade la notte del 23 aprile 1999, quando la Nato bombarda gli studi della RTS, la televisione nazionale serba a Belgrado, stroncando la vita di sedici persone: Tomislav Mitrovic, 61 anni, regista; Ivan Stukalo, 34 anni, programmista; Slavisa Stevanovic, 32 anni, programmista; Ksenija Bankovic, 28 anni, mixer video; Jelica Munitlak, 28 anni, truccatrice; Milovan Jankovic, 59 anni, meccanico; Dragan Tasic, 31 anni, tecnico; Aleksandar Deletic, 31 anni, cameraman; Darko Stoimenovski, 26 anni, tecnico; Nebojsa Stojanovic, 27 anni, tecnico; Slobodan Jontic, 54 anni, montatore; Slavina Stevanovic, 32 anni, programmista; Dejan Markovic, 40 anni, guardia; Milan Joksimovic, 47 anni, guardia; Branislav Jovanovic, 50 anni, programmista; Sinisa Medic, 33 anni, tecnico; Dragorad Dragojevic, 27 anni, guardia.

Le convenzioni di Ginevra, con il primo protocollo aggiuntivo del 1977, stabiliscono che ``il diritto delle Parti in conflitto di scegliere metodi e mezzi di guerra non è illimitato'', e all'articolo 48 dello stesso protocollo obbligano le parti in conflitto a ``fare, in ogni momento, distinzione fra la popolazione civile ed i combattenti, nonché fra beni di carattere civile e gli obiettivi militari, e, di conseguenza, dirigere le operazioni soltanto contro obiettivi militari''.

C'e' chi ha ritenuto giusta la morte di queste persone con lo scopo dichiarato di affermare i diritti umani attraverso una "guerra umanitaria", condotta al di fuori di ogni regola e violando il diritto internazionale. Ma questi grandi statisti avranno mai pensato di scusarsi con le famiglie delle persone uccise nella sede della RTS, ringraziandole per il sacrificio dei loro cari sull'altare della pace armata?

Le dichiarazioni del generale Wesley Clark su questo episodio sono state riportate da Robert Fisk su "The Independent", nell'edizione del 7 giugno 2000: "Quando abbiamo attaccato - ha dichiarato Clark - sapevamo che ci sarebbero stati dei modi alternativi di conquistare la televisione serba. Non c'e' un singolo interruttore per spegnere tutto, abbiamo pensato che attaccare sarebbe stata una buona mossa e i leader politici sono stati d'accordo con noi".

Anche il segretario generale della Nato Javier Solana ha sostenuto questa posizione, affermando in una nota ufficiale che le strutture della RTS "vengono usate come ripetitori e trasmettitori per supportare le attivita' delle forze militari e della polizia speciale, e pertanto rappresentano dei legittimi obiettivi militari"

Il 26 gennaio 2004 Clark rievoca l'episodio davanti ai microfoni di "Democracy Now!" il programma della giornalista indipendente Amy Goodman trasmesso sul circuito di radio comunitarie Pacifica Network. Il giornalista Jeremy Scahill chiede se una struttura televisiva puo' essere considerata un legittimo obiettivo militare, e la risposta di Clark non lascia spazio ad equivoci: "no, ma quando diventa un centro di comando e controllo, allora lo e'". Ricordando le altre stragi di civili ad opera delle bombe umanitarie Clark aggiunge che "ogni notte, prima di ordinare i bombardamenti, ho pregato affinche' non uccidessimo delle persone innocenti. Sfortunatamente quando sei in guerra succedono delle cose terribili, anche se non vuoi che accadano".

12 aprile 1999: le bombe umanitarie colpiscono un treno civile
L'attacco a RTS e' solo una tra le tante violazioni dei diritti umani realizzate durante la "guerra umanitaria", molte delle quali sono rimaste sconosciute e impunite. La lista degli obiettivi civili colpiti durante l'operazione "Allied Force" comprende una zona residenziale di Aleksinac (5 aprile), un treno pieno di passeggeri distrutto a Grdelica (12 aprile), un convoglio di profughi Albanesi bombardato nei pressi di Ðakovica con un attacco aereo durato due ore, la citta' di Surdulica colpita dai bombardieri il 27 e il 30 aprile, un autobus civile fatto saltare in aria il primo maggio vicino al ponte di Lužane, il mercato di Niš colpito il 7 maggio da bombe a grappolo lanciate sul mercato cittadino e sull'ospedale nello stesso giorno in cui le bombe umanitarie raggiungevano l'ambasciata cinese a Belgrado, le dozzine di civili uccisi dalle bombe il 14 maggio nel villaggio di Koriša, l'ospedale di Belgrado ridotto in macerie il 19 maggio, un ponte distrutto a Varvarin il 30 maggio assieme alla gente che lo attraversava, gli appartamenti di Novi Pazar bombardati il 31 maggio, e molti altri ancora di cui non abbiamo notizia.

Una silenziosa "contropulizia etnica"

Il piu' macroscopico "effetto collaterale" dei bombardamenti del 1999 e' la conseguente persecuzione delle minoranze di Serbi e Rom, con l'esodo di decine di migliaia di profughi in un clima di paura, incertezza e violenza che non ha risparmiato nemmeno gli albanesi che si sono opposti alle azioni dell'UCK. Questo clima di conflitto latente che dura ormai da un decennio e' segnato da una violenza sistematica e mai interrotta, di fronte alla quale i "pacificatori" del Kossovo hanno chiuso colpevolmente gli occhi.

"Il fallimento della protezione: la violenza contro le minoranze in Kossovo" e' il titolo di un rapporto del luglio 2004 redatto da Human Righs Watch, nel quale e' descritto il "fallimento catastrofico" dell'UNMIK e della KFOR nel proteggere le minoranze etniche del Kossovo durante l'esplosione di violenza che ha infiammato la regione il 17 e 18 marzo dello stesso anno.

Nel documento in questione sono descritti gli attacchi diffusi di quei giorni alle comunita' kossovare di Serbi, Rom e Ashkali (Rom di lingua albanese), la punta dell'iceberg di una violenza mai interrotta, che conferma la scarsa efficacia delle soluzioni di "spartizione etnica" per la soluzione dei conflitti di un territorio.

"Per la Nato e le Nazioni Unite - ha dichiarato Rachel Denber a nome di Human Rights Watch - questo e' stato il test di sicurezza piu' severo in Kossovo dal 1999, quando le minoranze sono state espulse dalle loro case mentre la comunita' internazionale stava a guardare. Questo test e' fallito. In troppi casi i peacekeepers della Nato si sono barricati nelle loro basi restando a guardare mentre le case dei serbi bruciavano".

I fatti documentati parlano da soli: il 17 marzo 2004 almeno 33 luoghi del Kossovo sono stati colpiti da una serie di ribellioni violente che si e' protratta per le 48 ore successive. Almeno 550 case e 26 monasteri e chiese ortodosse sono stati dati alle fiamme, e circa 4100 persone appartenenti alle "minoranze sgradite" sono stati costretti ad abbandonare le loro case.

Nel villaggio di Svinjare, ad esempio, sono state bruciate tutte e sole le 137 case appartenenti ai serbi, e a Vucitrn e' stata fatta piazza pulita distruggendo le 69 abitazioni di famiglie Ashkali. Nelle stesse ore a Kosovo Polje 100 abotazioni di Serbi e Rom sono state date alle fiamme assieme all'ufficio postale, alla scuola serba e all'ospedale.

Nel marzo 2004 perfino le piu' esigue presenze di Serbi sul territorio diventano bersaglio di violenza: a Djakovica cinque donne anziane, le ultime di etnia serba di tutto il villaggio, sono state costrette ad abbandonare la citta' dopo essersi rifugiate nella locale chiesa ortodossa.

Tutto questo e' accaduto nell'arco di due giornate che si sono rivelate la punta dell'Iceberg di una violenza che non fa notizia, che si ripete uguale a se stessa dal 1999 e che i sostenitori delle guerre umanitarie si ostinano a chiamare pace.

Lo status del Kossovo

Dopo i bombardamenti del '99, in Kossovo si stabiliscono come autorita' provvisorie le Nazioni Unite, che esercitano funzioni amministrative attraverso l'UNMIK, affiancate dalle forze militari della KFOR che agiscono sotto il comando Nato.

Ufficialmente, secondo il diritto internazionale e l'ONU, per il Kossovo e' tuttora in vigore la Risoluzione numero 1244 del 1999, realizzata sulla spinta di un "piano di pace" presentato il 6 maggio dai ministri degli esteri del G8. Nella risoluzione dell'Onu gli stati membri riconoscono "la sovranita' e l'integrita' territoriale della Repubblica Federale di Jugoslavia", e si stabilisce una "presenza di sicurezza internazionale", a cui si affida la responsabilita' di "facilitare un processo politico mirato a determinare lo status futuro del Kossovo", riconosciuto come provincia autonoma, ma comunque all'interno di uno stato membro delle Nazioni Unite.

Lo status attuale del Kossovo, molto diverso da quello stabilito in sede Onu, e' stato determinato da giochi di potere ben lontani dall'interesse della popolazione: il 17 febbraio 2008 il primo ministro Hashim Thaçi, con l'appoggio dei paesi che hanno bombardato Belgrado e depennato l'UCK dalla lista delle organizzazioni criminali internazionali, ha proclamato una dichiarazione di indipendenza che ha trasformato il Kossovo in una repubblica monoetnica fondata sulla guerra e illegittima dal punto di vista del diritto internazionale, una "mezza repubblica" che sara' a lungo oggetto di tensioni tra i paesi interessati a darle un riconoscimento ufficiale e quelli che per interessi opposti rifiuteranno fino all'ultimo di riconoscere il suo distacco dalla Repubblica Federale di Jugoslavia. Mentre scrivo queste righe, la Russia ha gia' innalzato il livello della tensione su questa vicenda, gettando ombre inquietanti sul futuro dei balcani gia' cosi' martoriati dalle guerre.

Per chi ha creduto nel processo di riconciliazione avviato da Ibrahim Rugova e continua a credere nell'esistenza di strumenti politici piu' efficaci delle bombe, la grande occasione mancata dal Kossovo e' stata quella di essere una regione multietnica e prospera, capace di costruire uno sviluppo basato sulla convivenza per scrollarsi di dosso l'eredita' di violenza che i signori della guerra, da Slobodan Milosevic ad Hashim Thaçi, hanno gettato sulle spalle dei piu' deboli con uno spietato cinismo simile a quello dei loro "colleghi" Ratko Mladic, Radovan Karazdic, Franjo Tudjman e Alija Izetbegovic. Al di la' di ogni divisione etnica e religiosa, questi personaggi sono accomunati dalla lucida follia che li ha spinti a costruire la propria carriera camminando sui cadaveri, spingendo la propria gente sull'orlo del baratro grazie alla propaganda dell'odio etnico per poi farla precipitare nell'abisso della guerra.

Bande armate che si buttano in politica

Questa guerra spacciata come umanitaria non ha pacificato affatto il Kossovo, ma ha semplicemente sostituito la violenza e le violazioni dei diritti umani del governo serbo di Slobodan Milosevic con quelle per noi piu' accettabili rivolte contro la minoranza serba negli anni successivi all'operazione militare "Allied Force", ad opera forze politiche e militari di etnia albanese che nel frattempo avevano ricevuto la benedizione della comunita' internazionale, e che oggi davanti al frettoloso riconoscimento della Repubblica del Kossovo, si sentono ancora piu' legittimate nel loro operato.

La "Lega Democratica del Kossovo" (LDK), che si presenta alla comunita' internazionale come un partito pulito e popolare, non e' altro che la faccia pulita dell'UCK, la formazione armata che ha trascinato in guerra la popolazione del Kossovo spingendo verso una irrimediabile escalation il conflitto che alcuni avevano cercato di risolvere con le armi della nonviolenza, della riconciliazione e della convivenza pacifica tra le due etnie presenti sul territorio. Pochi ricordano che fino a pochi mesi dai bombardamenti l'UCK era segnalato nei rapporti del Geopolitical Drug Watch, l'osservatorio europeo sulle droghe, e della DEA (Drug Enforcement Administration), l'organizzazione americana per la lotta al narcotraffico, dove si denunciavano le connessioni di questa banda armata con la criminalita' organizzata, il traffico della droga e i mercanti di armi.

Ma il passato e' alle spalle, e ora Hashim Thaçi siede ai tavoli del potere con la stessa legittimazione della comunita' internazionale ricevuta a suo tempo da Slobodan Milosevic, almeno fino a quando qualcuno non decidera' che per motivi inconfessabili anche lui andra' trasformato nel cattivo di turno facendo spazio ad un nuovo "ordine" che nasce dal caos militare.

Questa operazione, non va dimenticato, e' stata realizzata grazie ad un governo sostenuto anche da ministri, sottosegretari e segretari di partito attualmente impegnati in prima fila all'interno della sinistra radicale e "arcobaleno", che ha preferito archiviare come un "incidente di percorso" quella che e' stata una pagina oscura nella storia del paese. Oggi lo stesso Diliberto del Pdci, lo stesso Pecoraro Scanio dei Verdi e lo stesso Mussi dei DS che hanno appoggiato i crimini di guerra della NATO, ci chiedono il loro voto nel nome della pace. Ma possiamo davvero fidarci?

Diritto internazionale? Al bisogno, e in modica quantita'

Una delle immagini pubblicate su PeaceLink durante la protesta contro i bombardamenti della Nato sulla Jugoslavia. Nella foto e' raffigurato il treno passeggeri distrutto a Grdelica il 12 aprile 1999

Nel nostro paese personaggi come Prodi e D'alema si presentano nei dibattiti pubblici come i paladini del diritto internazionale, e dichiarano con toni altisonanti che l'Onu e' l'unica istituzione in grado di autorizzare interventi militari al di fuori del territorio nazionale. Nella stanza dei bottoni, pero', le risoluzioni dell'Onu diventano carta straccia, pronte ad essere ignorate in nome di giochi politici piu' grandi. Li abbiamo visti sfilare alle marce per la pace, sventolare bandiere arcobaleno, ammiccare ai movimenti e ai voti che rappresentano, promettere con furbizia il ritiro delle truppe dall'Iraq in campagna elettorale glissando sulle intenzioni relative all'Afghanistan, giurare e spergiurare che la costituzione e il diritto internazionale sarebbero stati le pietre miliari della loro politica estera.

E ora eccoli la' che si aggrappano con i denti alle poltrone fino all'ultimo secondo utile, stracciano in fretta e furia la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu sul Kossovo, e riconoscono una repubblica illegittima creata con la forza per rispondere a ordini e interessi che probabilmente non potremo mai comprendere fino in fondo. O almeno ci piace pensare che sia cosi', perche' se questo fosse davvero un loro sforzo onesto e disinteressato per spingere il mondo verso la pace e la stabilita', e non una manovra di poteri superiori a loro, allora si dovrebbe smettere di pensare alla meschinita' perche' si tratterebbe di una follia ancora piu' distruttiva.

Una follia molto simile a quella di un altro omino con i baffetti, che ha trascinato tutto il mondo verso l'orrore dell'Olocausto dopo aver guidato il partito socialista nazionale dei lavoratori, cosi' come Massimo D'Alema ha trascinato l'Italia in guerra dopo aver guidato la Federazione dei Giovani Comunisti Italiani durante le marce contro la guerra in Vietnam.

Questo ministro degli esteri in scadenza, con la complicita' del premier uscente, ha infilato nel "disbrigo degli affari correnti" di fine legislatura una clamorosa beffa del diritto internazionale, riconoscendo come stato sovrano una regione di uno Stato membro delle Nazioni Unite. Se questi sono gli affari correnti, non voglio sapere quali possono essere le misure eccezionali di cui queste persone sono capaci. Teniamoci stretti.

Note: Le opinioni espresse in questo articolo sono espresse a titolo personale e non coincidono necessariamente con la posizione ufficiale dell'Associazione Peacelink.

Il materiale di documentazione relativo alla "Campagna Kossovo per la Nonviolenza e la Riconciliazione" e' disponibile in rete all'indirizzo

http://www.peacelink.it/kossovo/index.html

Allegati

  • Gli accordi di Rambouillet


    Fonte: Dipartimento di stato USA - http://www.state.gov/www/regions/eur/ksvo_rambouillet_text.html
    132 Kb - Formato pdf
    Testo integrale (in lingua inglese) degli accordi di Rambouillet, firmati il 18 Marzo 1999 dalla delegazione diplomatica britannica, da quella statunitense e dai rappresentanti della popolazione albanese del Kossovo.
  • Risoluzione Onu sul Kossovo

    Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite
    Fonte: http://daccessdds.un.org/doc/UNDOC/GEN/N99/172/89/PDF/N9917289.pdf
    23 Kb - Formato pdf
    Risoluzione 1244 adottata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite il 10 giugno 1999
  • Rapporto di Human Rights Watch sulle violenze contro i Serbi e i Rom del Kossovo

    Human Rights Watch
    Fonte: http://www.hrw.org/reports/2004/kosovo0704/
    317 Kb - Formato pdf
    Failure to Protect: Anti-Minority Violence in Kosovo, March 2004. On March 17 and 18, 2004, violent rioting by ethnic Albanians took place throughout Kosovo, spurred by sensational and ultimately inaccurate reports that Serbs had been responsible for the drowning of three young Albanian children. For nearly forty-eight hours, the security structures in Kosovo—the NATO-led Kosovo Force (KFOR), the international U.N. (UNMIK) police, and the locally recruited Kosovo Police Service (KPS)—almost completely lost control, as at least thirty-three major riots broke out across Kosovo, involving an estimated 51,000 participants.
  • Grdelica, 12 aprile 1999: Secondo Missile

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    Il secondo "missile intelligente" colpisce nuovamente un treno pieno di passeggeri a Grdelica
  • Grdelica, 12 aprile 1999: Primo Missile

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    Un "missile intelligente" distrugge un treno pieno di passeggeri a Grdelica

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