Lettera aperta a Herman Van Rompuy, Presidente del Consiglio dell’Unione Europea
Egregio Presidente,
Caro Herman,
Ritengo si tratti di un’iniziativa opportuna, ma non tempestiva. Nel frattempo, infatti, il Trattato di Lisbona è entrato in vigore da più di due mesi.
Il minimo che si possa dire è che l’Unione non sta bene. Le occasioni mancate e i fallimenti si accumulano. Pensiamo solamente al risultato drammatico di Copenhagen, dove l’accordo è stato concluso senza l’Unione Europea, alla mancanza di coordinamento degli aiuti ad Haiti, o alla spirale discendente nella quale l’Eurozona è precipitata in seguito alle difficoltà fronteggiate dalla Grecia. Così come è significativo che il Presidente degli Stati Uniti Obama non ritenga necessario partecipare al prossimo summit UE-USA a Madrid.
Entrambi sappiamo che questi fallimenti non sono accidentali. È sufficiente prendere una volta l’aereo per Pechino o Shanghai per convincersi che sta nascendo un mondo multipolare, nel quale il ruolo dell’Europa è in declino. Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 e la crisi finanziaria del settembre 2008, è nato un nuovo ordine mondiale, che ha spazzato via le (ormai sorpassate) illusioni nazionali di gran parte degli Stati membri europei. Nel 2010 la crescita nella zona euro raggiungerà appena lo 0,9% del PIL, mentre quella cinese toccherà il 10%, l’indiana il 7%, la brasiliana il 4,8% e la statunitense il 4,4%. Infine, nel 2050 il G7 non sarà più composto solamente da Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Germania, Italia, Giappone e Canada, bensì anche da Cina, India, Brasile, Russia, Messico, Indonesia e Stati Uniti.
La strategia che l’Europa ha sviluppato nel 2000 ha quanto meno deluso ogni aspettativa. La cosiddetta Strategia di Lisbona doveva trasformare l’economia dell’Unione “nell’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”. Quest’obiettivo non si è realizzato. Ad esempio, non abbiamo per nulla recuperato il ritardo in materia di investimenti in Ricerca e Sviluppo. L’UE resta bloccata a un modesto 1,77%, laddove il Giappone investe il 3,39% del PIL e gli Stati Uniti il 2,66%.
La ragione di questo fallimento è facile da individuare. Da anni ormai, gli esperti insistono che il metodo utilizzato dalla Strategia di Lisbona è troppo restrittivo. Partendo dal metodo aperto di coordinamento, è pressoché impossibile esercitare una pressione sugli Stati Membri. Esso riduce il ruolo dell’Unione da motore dell’economia ad una sorta di ufficio studi che compara i risultati delle economie nazionali degli Stati membri e sulla base di questi formula raccomandazioni non vincolanti. Questo ruolo, peraltro, è già interamente espletato dall’OCSE. Ancora più rilevante è il fatto che la Strategia di Lisbona continua a ispirarsi alle strategie economiche nazionali. Sono gli Stati membri a condurre il gioco, non le istituzioni europee. In altri termini, l’economia europea non viene considerata come un insieme che deve sormontare serie difficoltà in competizione con le economie di Cina, Stati Uniti e India, ma come una collezione di amministrazioni nazionali, ben distinte le une dalle altre, ciascuna delle quali deve prima di tutto mettere ordine nei propri affari interni e pretende di decidere su come sia meglio procedere. Nell’odierna economia globalizzata, questa situazione è assurda e insostenibile. Persino un semplice coordinamento delle strategie nazionali sarebbe un passo necessario, per quanto non sufficiente, nella buona direzione. Ecco qualche esempio per il quale un coordinamento sarebbe per lo meno necessario: la pulizia dei bilanci delle banche per rilanciare il credito o l’attuazione delle riforme necessarie al mercato del lavoro o al sistema pensionistico. In breve, solo un unico governo socio-economico dell’Unione può invertire la rotta e riposizionare l’economia europea sul cammino della competitività e della crescita.
Tutto ciò vale ancora di più per la zona euro, dove i pesi aderenti sono inestricabilmente legati da una valuta comune. Gli sviluppi del caso Grecia, la minaccia di contagio degli altri paesi della zona euro e l’indebolimento della moneta stessa sono buoni esempi. Invece di formare immediatamente un fronte comune con la Grecia, e di rafforzare quindi l’euro, i dirigenti europei hanno inviato segnali indicanti che la questione deve essere risolta dalla Grecia e che lei sola deve prendere le misure necessarie. Nessuno può negare che in Grecia servano rimedi radicali, ma che essi non siano applicati dalla BCE o dalla Commissione europea e che non siano supportati da un aiuto europeo per coprire il debito stesso (per esempio tramite l’emissione di eurobonds), significa che si abbandona la Grecia ai mercati internazionali dei capitali, vale a dire agli speculatori e agli investitori; senza rendersi conto che ciò minaccia egualmente gli altri paesi e in prospettiva la stessa esistenza dell’euro. È vero che gli “spread” (la differenza tra i tassi d’interesse sui titoli di Stato di un paese e quelli della Germania) sono inevitabili. Di più, essi possono rappresentare incoraggiamento, uno stimolo per i paesi che non prendono le misure necessarie, obbligandoli a riformarsi. Ma gli spread in aumento potrebbero assumere vita propria, ossia divenire il bersaglio di speculatori e investitori in cerca di facili profitti. In tale scenario, la differenza tra i tassi d’interesse dei paesi della zona euro minaccia la moneta stessa.
Che si tratti di Haiti, della Grecia o del drammatico esito di Copenhagen, la ragione del fallimento è sempre la stessa: gli Stati membri continuano a mantenere le redini e l’Europa non ha né il potere, né i mezzi necessari per proporre un approccio unico, e ancor meno per imporlo. La tragedia che ha colpito Haiti ha generato risposte molto generose da parte degli Stati. Questa è una cosa positiva, ma una “UE-Fast”, vale a dire una forza d’intervento umanitario europeo comune, sarebbe stata molto più rapida e più efficace. L’idea di un coordinamento europeo delle forze di protezione civile degli Stati membri non è una novità. È stata già suggerita durante il Vertice europeo dell’aprile del 2003, quando Jacques Chirac, Gerhard Schröder, Jean-Claude Juncker e io stesso abbiamo proposto la creazione di un “EU-Fast” (European Union First Aid and Support Team). Nel 2006, la posizione è stata ripresa e rielaborata da Michel Barnier in un rapporto richiesto dalla Commissione Europea. Ma nel 2003 come nel 2006, c’erano Stati membri che non volevano un “EU-Fast” o un “Europe Aid”, come veniva denominato dal rapporto Barnier. Ufficialmente, si opponevano all’utilizzo di risorse militari a fini civili. In realtà, mantenendo gli aiuti nelle proprie mani, accarezzavano l’illusione di conservare l’influenza e il prestigio sui paesi beneficiari e nelle istituzioni internazionali specializzate.
Copenhagen avrebbe potuto conoscere un altro esito se l’Europa fosse stata rappresentata da una sola persona, invece di otto (i danesi organizzatori del vertice , il rappresentante della Commissione europea, Frederik Reinfelt per la Presidenza svedese, José Luis Zapatero per la Presidenza entrante spagnola, Catherine Ashton, Gordon Brown, Nicolas Sarkozy e Angela Merkel). L’Organizzazione Mondiale del Commercio è un buon esempio al quale potersi ispirare. L’Europa è ascoltata in seno all’OMC perché rappresentata da un unico portavoce, la sola persona che può prendere decisioni in nome dei 27 Stati membri. È necessario che questo metodo diventi il modus operandi anche nei negoziati sul clima, come nel resto dei fori internazionali (per esempio nel FMI). Tuttavia l’Europa deve cominciare a mostrarsi realista e smettere di confondere i propri desideri con la realtà. Nella nuova realtà multipolare, l’Europa non è più in grado di imporre le proprie volontà agli altri, nemmeno quando è affiancata dagli Stati Uniti. L’Occidente non ha più l’egemonia globale. Per mettere freno al riscaldamento climatico della terra è necessario - almeno - un accordo a tre tra l’Unione europea, gli Stati Uniti e la Cina. Ciò è sicuramente meglio che cercare un consenso tra i 192 membri delle Nazioni Unite, come purtroppo ha insegnato l’insuccesso di Copenhagen.
In conclusione, egregio Presidente, se il prossimo 11 febbraio i Capi di Stato e di Governo vogliono veramente comprendere le ragioni dei recenti fallimenti dell’Unione Europea, dovranno trarre una sola conclusione: l’Europa ha bisogno di più unità e di più integrazione, altrimenti l’Unione cesserà di avere un ruolo nello scacchiere mondiale. Guardare al Trattato di Lisbona, sperando che il vento cambi, è insufficiente. Gli avvenimenti degli ultimi mesi e delle ultime settimane ne hanno dato prova. Il Trattato di Lisbona assicura un aumento considerevole del potere del Parlamento europeo, quale emanazione della volontà dei cittadini. Il Parlamento farà buon uso di questo suo nuovo potere, ancor più se, dopo l’11 febbraio, i Capi di Stato e di governo europei non vorranno o non saranno in grado di trarre le conclusioni che si impongono. Naturalmente, spero profondamente, così come Lei d’altronde, di assistere alla situazione opposta.
Cordiali saluti,
Guy Verhofstadt
Presidente del Gruppo ALDE - Parlamento europeo
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