Incubo di una notte di mezza estate
Roma. È ferragosto. C’è chi riposa sotto l’ombrellone, chi sulle vette delle montagne, chi, come gli oltre seicento rifugiati politici africani, dentro i capannoni della stazione Tiburtina di Roma. Alcuni per la verità lavorano, come quei cinquanta, per lo più sudanesi, partiti per il sud a raccogliere pomodori.
È bastato finire l’ultima fetta di cocomero ferragostano che il Comune di Roma organizza una riunione. Con i rappresentanti delle organizzazioni di volontariato che operano tra questi rifugiati. Alle otto di sera la municipalità veltroniana decide: da stanotte sgombero dell’Hotel Africa. Non vi preoccupate ci sono posti per tutti, altrove. In un paese di lentezze storiche, il blitz del Comune ha il sapore dell’efficienza assoluta: i giornalisti, i fotografi delle grandi testate sono tutti lì, alle dieci di sera, come Deng, sudanese mediatore culturale per Medici senza frontiere. Tutti avvertiti all’ultimo minuto. Non tutti, perché i diretti interessati non sapevano nulla e si son visti un’irruzione alla Starsky & Hutch casereccia.
Liste con nomi che venivano cancellati perché non presenti in quel momento, non importa se erano a lavorare nel casertano per mettere insieme il pranzo con la cena in attesa di un attestato del loro status. Ogni nazionalità con un cartellino dal diverso colore e gli eritrei del grande capannone partono per nuove mete senza cucine a disposizione. Pensare che nel reportage del giornale Amani tra poco in pubblicazione, l’Hotel Africa rifocillava il suo universo di clienti con ristorantini e spacci. Ora si dovranno accontentare di un catering del Comune che forse non sa neppure come si cucina lo zighinì.
Alla porta del nuovo alloggio nessuno può entrare, solo gli eritrei cartellinati che cominciano a ripensare con nostalgia al misero Hotel Africa. Alcuni di loro raggiungono il capannone piccolo dei sudanesi. Loro, i sudanesi, non si sono voluti spostare, anzi. Quelli come Moctar, che avevano un appartamentino ordinato al terzo piano nel capannone grande, solo a distanza di 24 ore hanno potuto prendere i loro letti e le loro cose per raggiungere i loro connazionali in quello piccolo. «Neppure in prigione ci sono stanze così», hanno commentato i sudanesi vedendo la nuova situazione “alberghiera” decisa dal Comune: stanze con due letti a castello a tre piani, orari di uscita e di entrata obbligati e, per gente come John che a Tiburtina ha investito i suoi risparmi aprendo un bar con tanto di generatore, parabolica e ristorantino, l’avvenire si fa nero più dell’Africa. Tra i 150 sudanesi, uno è il ristoratore del capannone grande che si è immediatamente spostato sul piccolo. Una concorrenza imprevista a suon di latte di gasolio per alimentare quel generatore per la tivù che dà notizie di Al Jazira.
Il Comune insiste nell’incubo della notte di mezza estate, ma si rende conto che non può sgomberare per mandare un numero imprecisato di persone in un posto ai confini della dignità. D’altra parte il tam tam dell’Africa va più veloce della luce e all’udire di nuove case, la Tiburtina si riempie di nuovi arrivi. Impossibile avere un censimento esatto con gli aventi diritto. Alla fine, tutto tace, o meglio si rimanda di dieci giorni. In meno di due settimane il Comune di Roma si impegna a trovare una sistemazione più decorosa ai sudanesi e a quegli eritrei praticamente accampati all’Hotel Africa.
Aspetteremo 10 giorni. Aspetteremo che l’efficienza della municipalità capitolina all’insegna della civiltà, come hanno gridato in tutte le prime pagine i quotidiani di mezza estate, riesca a trovare una soluzione che possa almeno affermare:
I care for Africa.
L'articolo su peacereporter:
http://www.peacereporter.net/it/canali/storie/0000europa/italia/040824tibutrino
L'articolo di Veltroni su L'Unità:
http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=IDEE&TOPIC_TIPO=&TOPIC_ID=36983
Amani
www.amaniforafrica.org
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