Luccichii sulla Sunža
Traduzione di Erika Casali
Merkulov arranca fino alla finestra nella camera dei bambini. La gamba faceva molto meno male, ancora un giorno o due e avrebbe potuto camminare. Ma pensa se doveva storcersi la gamba proprio in quel momento! Una settimana prima Merkulov aveva mandato la famiglia lontano da lì, lui però si era trattenuto, bisognava fare qualcosa con i genitori. Il padre, che durante la guerra era arrivato a Berlino a piedi, si rifiutava categoricamente di andarsene. I nostri non si muoveranno, no!? Merkulov cercava di convincerli in tutte le maniere, inutilmente.
“Questa è la mia terra, al cimitero c’è ancora sepolto mio nonno. I bombardamenti fanno paura. I nostri, i loro, non li toccano”.
Vecchio mulo testardo. E la mamma uguale. Del resto, la mamma aveva passato tutta la sua vita assecondando papà.
Qualche giorno prima, Merkulov non se lo ricorda di preciso, la mamma aveva chiamato. Era molto strano sentire nell’intenso silenzio dell’appartamento lo squillo del telefono. Funziona ancora.
Il padre si era arreso. Ovviamente, lui questo non lo avrebbe riconosciuto per niente al mondo. Si erano messi d’accordo che Merkulov sarebbe andato da loro non appena la gamba avesse smesso di fare male. Quanto tempo era passato da quel momento? Più o meno cinque giorni.
Il telefono non funzionava più. Poi gli avevano staccato il gas. La luce la davano sempre più raramente. L’acqua non c’era già da un pezzo.
Merkulov da un’occhiata attraverso le strisce di carta incrociate, incollate sulla finestra. Dietro la Sunža svettava il Palazzo Presidenziale, il Consiglio dei Ministri. L’enorme piazza è vuota, ci sono solo due gruppi di cinque-sei persone, di gente armata. Fanno la guardia. Quando si sente il rumore degli elicotteri, scompaiono immediatamente da qualche parte. Anche se non bombardano da due giorni. In televisione era comparso il presidente con un discorso rabbioso: aveva finto di aver appena saputo dei bombardamenti. Lo aveva saputo, si era sdegnato e l’aveva proibito.
Mente. Tutti loro mentono. Sempre.
Quasi non bombardano però hanno cominciato a sparare da qualche parte da lontano che è ancora peggio. Almeno gli elicotteri si sentivano quando sparavano.
Merkulov si accomoda sulla sedia, mette sul davanzale un bicchiere e una bottiglia di vodka. Di vodka ce n’è ancora tanta, l’avevano distribuita insieme agli stipendi. E invece di soldi non ce n’è quasi più, li aveva dati tutti alla moglie e ai figli. Non è niente, a novembre i genitori erano andati a Stavropol’ per la pensione, bastava per cavarsela.
Merkulov versa la vodka fino a tre quarti di bicchiere e la beve a piccoli sorsi. Si fuma subito la pipa con del tabacco scadente, di sigarette non ne vede già da un bel po’. Dopo un minuto il calore si propaga nelle viscere, mettendo a tacere l’abituale fame. Ancora un po’ e si affievolisce la continua ansia per la famiglia, per i genitori, per se stesso. L’ansia e la sensazione di personale impotenza gli rodevano il cervello, senza fermarsi, come ratti. Non lo lasciavano dormire, lo facevano uscire di testa.
Ma ecco, ora va meglio. Merkulov aspira profondamente e torna a guardare la piazza. Dal Consiglio dei Ministri venivano delle persone: civili, non armati e con delle borse. Attraversano il ponte e si nascondono dietro alla scuola di musica. Lo sguardo si sofferma sull’edificio noto sin dall’infanzia e subito si ricorda:
- Urrà, urrà! Ho trovato un cono me lo rosicchio e continuo a strisciare.
Quanti anni aveva allora? Venti? Venticinque? S’incontravano di rado, per la famiglia. Ma a quello spettacolo il Gatto aveva tirato fiori un permesso per tutti. O era stato Erša? No, sicuro che non era stato lui. Chi altro c’era là?
- Tagliamo una gamba a Meres’ev!- e in coro “Tutte e due”.
Subito sente una fitta alla gamba. No, questo è meglio di no. Si ricorda del temperino: due lame, il punteruolo, il cavatappi, l’apribottiglie, un tesoro completo. Merkulov, che allora era semplicemente Slavka, l’aveva vinto in una discussione con Maga. Maga allora, era arrivato e aveva detto che non credeva che nella scuola di musica ci fosse un’iscrizione che diceva: “TEMPLIO DI DIO” e una stella a sei punte. Ora Magomed è dai parenti al villaggio, da qualche parte aveva scritto l’indirizzo. Forse sarebbe stato meglio andare con lui? Dopotutto l’aveva chiamato. No, non si può. I genitori da soli non ce l’avrebbero fatta.
La spiaggia da qui, ora non si vede, gli alberi sono molto cresciuti. Quando era piccolo si vedeva, se uno sapeva dove guardare.
Si è spenta la pipa. Senza alzarsi dalla sedia, Merkulov la svuota battendola sul pavimento e poi la riempie nuovamente di tabacco. Si versa dell’altra vodka, la beve.
Il sole poco a poco se ne va verso il tramonto, tingendo la Sunža di un colore rosso sporco e dalla superficie si riflettevano miliardi di luccichii.
A quel tempo era estate. Il sole splendeva chiaro, sulla Sunža si riflettevano le macchie di petrolio. Erano tutti presenti e non potevano trattenere in nessuna maniera lo stupore per quella cosa inaspettata che avrebbe dovuto succedere.
Com’era capitato tutto in fretta. Tutta la vita era come quelle due ore. Scuola, esercito, matrimonio precoce e sfortunato, divorzio, un lavoro monotono e insensato. Non aveva più amici. Che amici aveva al lavoro? Bah, da berci insieme.
Faceva un freddo incredibile.
Merkulov si siede, vestito come al polo nord, il gas mancava già da più o meno tre giorni e il freddo umido di Groznyj era penetrato in tutti gli angoli dell’appartamento.
Il sole che scompariva, perforava per un momento la nebbia grigia di Groznyj. Il Palazzo del Presidente si accende di luce di sangue, da qualche parte un’esplosione.
Merkulov sobbalza. Vuole dell’acqua. Gli tocca alzarsi e zoppicare fino in cucina. L’acqua c’è ancora, un mezzo secchio. Il secchio gliel’hanno dato i vicini e ieri l’altro è passato Kostja con il figlio e gli hanno portato un secchio d’acqua e il validol . Merkulov aveva seguito a lungo come se ne andavano, circondati da una decina di cani. Insomma, l’acqua c’era, doveva bastare non bisognava consumarla nello scarico.
Merkulov non l’aveva consumata.
In tutto il palazzo erano rimaste più o meno quindici persone. Durante i voli e le sparatorie correvano tutti nei rifugi, alcuni di loro ci rimanevano tutto il tempo. Merkulov non poteva correre, stava in casa, cercava di non far fare alla gamba nessun movimento superfluo e aspettava. Non importava, il gonfiore era quasi scomparso, ancora due o tre giorni e poi basta. Avrebbe potuto andare al Mikrorajon a prendere i genitori. Poi, o attraverso la Vecchia Sunža o attraverso Minutka, vedremo. Purchè fosse il più lontano possibile da lì.
Merkulov mangia uno dei cinque piroški che sono rimasti, raschia la mezza scatoletta di carne e ci beve dietro della vodka. Via, è ora di andare a dormire; un altro giorno è passato.
Merkulov non fa in tempo a sdraiarsi sul divano. Il minaccioso silenzio viene squarciato da un fragore: i mitragliatori si mettono a battere, gli spari dei granatieri strillano, i colpi dei carroarmati sovrastano tutto. La camera s’illumina dal bagliore delle esplosioni, il cielo viene tagliato da linee portatrici di morte. Merkulov si siede sul divano e aspetta. I suoni della lotta suonano sempre più vicini, presto i vetri cominceranno a vibrare, nell’aria c’è odore di bruciato.
A carponi, Merkulov striscia nella camera dei bambini e, rimproverandosi, dà un’occhiata dalla finestra. Tutta la sponda sinistra è incendiata. Sembra che la battaglia sia su tutto il Corso Ordžonikidze, dalla stazione al Palazzo Presidenziale. Merkulov guarda per qualche minuto questo paesaggio fantastico come affascinato, dimentico del pericolo. La vecchia casa prestigiosa sull’angolo Avgustovskij, divampa e fiorisce di fiori infuocati. Addio “Cappuccetto Rosso”. Dalle parti della stazione splende come se stessero facendo delle saldature elettriche. Delle righe traccianti rigano il cielo di meteoriti a pioggia, rispecchiandosi in chiari bagliori sulla Sunža. Sembrava che un gigantesco serpente infuocato strisciasse sul Corso, sputando morte. Si fa male colpendosi sotto il mento, il pavimento salta, nella stanza grande qualcosa cade. Fuori dalla finestra era diventato chiaro come di giorno.
Come un basso pesante risuona la mina,
Ha colpito la fontana di fuoco…
Merkulov indietreggia dalla finestra, a carponi striscia fino al divano, si siede sbattendo la testa sul cuscino. L’inferno continua, nella camera dei bambini i vetri sono saltati. Allora Merkulov, sempre a carponi trascina la coperta e il cuscino nel corridoio, lontano dalle finestre. Ci mette anche la cassa con la vodka, beve direttamente dalla bottiglia e si raggomitola per terra in posizione fetale.
Trascorre così le prime trenta due ore dell’anno nuovo, sul pavimento del corridoio nella casa a due stanze in Via V. Tereškova, a trecento metri dal Palazzo Presidenziale.
Ogni tanto, Merkulov, sprofondava nell’oblio alcolico e allora tutto andava bene. Il sole splendeva affettuoso, i piedi sprofondavano nella sabbia umida, le macchine fotografiche erano pronte e la torbida superficie del fiume, scintillando di luccichii di petrolio, ti attirava verso l’incognito.
Guardare oltre era impossibile. L’ennesima esplosione ributtava Merkulov nella realtà. E diventava spaventoso.
Molto spaventoso.
La casa sembrava che saltasse di mezzo metro, tremavano le pareti, cadeva l’intonaco. I vetri erano già volati via da un pezzo, nella camera i mobili che aveva amorevolmente fatto con le sue mani si fracassavano. Balenii di fuoco illuminavano il corridoio con tutte le sue tinte di morte, il fracasso gli rompeva i timpani. Lo sconvolto Merkulov che non aveva mai chiesto aiuto a nessuno nella vita, prova a pregare. L’inconscio, servizievole, gli suggerisce quelle parole mai pronunciate:
- Padre nostro che sei nei cieli…
Una raffica di mitragliatrice.
- Sia santificato il tuo nome, così sia la tua volontà…
Un colpo di lanciabombe. Stridore. Esplosione.
- …così in cielo così in terra.
Fracasso di salve dei carroarmati.
- Dacci oggi il nostro pane quotidiano e non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male.
Esplosione, esplosione, vampa infuocata, raffica, si rompono i vetri, trema il pavimento.
Ma insomma, che cos’è? Perché? Che cos’ha fatto di male? No, evidentemente non c’è nessuno che aiuta. Non gliene frega niente a nessuno di un piccolo uomo. Ognuno per sé.
Con un basso pesante risuona la mina,
Ha colpito la fontana di fuoco,
Ma Bob Kennedy si è messo a danzare
Che me ne frega
Di tutti, di voi?
E a voi non ve ne frega niente di me!
Di nuovo, più allettante, luccicava la Sunža dall’infanzia, di nuovo rimbombavano i carriarmati, e a tutto questo non c’era fine.
Quando, fuori dalla finestra cominciava a farsi giorno con la solita alba, Merkulov per la prima volta si riprende dal silenzio. Si siede con fatica, scuote via l’intonaco, sposta tre bottiglie vuote di vodka. Sorreggendosi al muro, si alza. La testa gli rimbombava e gli girava dalla fame, ma queste erano tutte sciocchezze.
C’era silenzio. E la gamba non gli faceva male!
La coscienza spaventata era corsa via, lontano dalla casa. Più veloce! Più veloce! Più veloce prima che LASSU’ ci ripensino.
Merkulov si siede intenzionalmente con lentezza, prende fuori dallo zaino una benda pulita, cambia la fasciatura tesa. Va in cucina. Apre l’ultima scatoletta di carne. Ne mangia metà, chiude la scatoletta e la infila nello zaino. Mangia uno dei quattro pirožki e inghiottisce una pastiglia di analgesico. La manda giù con della vodka. La testa si schiarisce e le mani smettono di tremare.
Ha molta voglia di andare alla finestra per dare un’occhiata, ma il mobile rovesciato lo intralcia. Merkulov si mette lo zaino, prende il bastone e si muove verso l’uscita. La porta, tutta storta, non si vuole aprire e Merkulov si spaventa. Dopo la seconda spinta la porta si apre di malavoglia, c’era un odore ben distinto di bruciato. Si sente un rumore vagamente conosciuto e spaventoso. Tenendosi al corrimano, Merkulov scende. Il portone d’entrata è chiuso, di fianco è seduto il gatto del secondo piano. Vedendo una persona si mette a miagolare perentorio. Merkulov apre la porta, il gatto si precipita fuori a rotta di collo. Lo strano suono si fa più forte.
Fuori nevicava. Della neve nera turbinava nell’aria, cadeva per terra, sul viso e non si scioglieva.
Merkulov, senza nessuna cautela, attraversa il cortile e subito si blocca senza poter credere ai propri occhi. Al posto della casa con il rifugio fumavano delle rovine. Tutta la strada era in fiamme, la nera neve di cenere volava. Lo strano suono risulta essere il rombo degli incendi, alla fabbrica i forni suonavano così. Senza riuscire a trattenersi, Merkulov, guarda indietro. Al quarto piano, per la prima volta dopo lunghi anni, la finestra di casa era spalancata sul vuoto. Il primo portone bruciava, un fumo denso s’innalzava dal sottotetto.
Merkulov si pulisce gli occhi, si gira e va, tentando di guardare solo sotto i piedi. L’asfalto sporco con i resti di neve era disseminato di schegge luccicanti e di rami. E gli occhi si coprivano di fiocchi neri.
All’angolo con l’Anisimovskaja, Merkulov si fermò e guardò a destra. Tra il fumo si vedeva della gente che usciva da un sotterraneo. Intorno si affollavano i cani.
Forse doveva raggiungerli? Non era ancora troppo tardi, erano sui trenta metri. Insieme è più facile.
Le gambe si muovevano da sole nella direzione della salvezza.
Cosa sta facendo? No, non è lui, è il cervello, il subconscio…L’evoluzione…milioni di anni…È meglio che loro lo sappiano. I genitori…loro in fondo sono la famiglia…Come faranno da soli, al Mikrorajon forse neanche si arriva? Chi lo sa quanto durerà questa quiete? Il figlio ha solo tredici anni…
Con dei timidi raggi luminosi, la Sunža risplende dall’infanzia. Merkulov si ferma.
L’onda s’infrange attutendo il rumore degli incendi.
La macchina comincia a dondolare sull’onda, cercando di liberarsi da sotto al corpo leggero di un ragazzino.
Merkulov stava in piedi, ascoltando con attenzione il battito del cuore. Guarda per l’ultima volta avanti, le figure sono quasi scomparse nel fumo, si gira e ricomincia a camminare nella direzione precedente. Ora ognuno pensa solo per sé, persino gli amici. Ognuno ha la propria strada e che Dio ve la mandi buona!
La terra scricchiola come una noce vuota,
Come una scheggia scricchiola la corazza,
A Bob viene di nuovo da ridere,
Che me ne frega
Di tutti, di voi?
E a voi non ve ne frega niente di me!
La prima volta che il cuore manda una fitta è vicino a “Oceano”, dopo prosegue con il validol sotto la lingua. Qui c’era più quiete. C’era meno distruzione, solo il tetto della Scuola della Cultura e delle Arti era caduto.
Però dopo mezzo isolato, Merkulov si ferma di nuovo, di fronte, fino allo spaccio centrale per i militari Voentorg c’erano continue rovine. Delle persone frugavano tra i mattoni, sulla strada erano cresciuti mucchi di coperte, di pentole, di valige.
Merkulov si volta verso la riva, lasciandosi alle spalle l’albergo “Chaika”. Una casa praticamente intera con una farmacia erano state risparmiate. Sul ponte gli tocca fermarsi di nuovo, gli balenavano punti neri davanti agli occhi e respirare era difficile.
Reggendosi alla rete di recinzione, Merkulov si toglie lo zaino. Il cuore è ammalato già da alcuni anni, c’era qualcosa che non andava con il ventricolo sinistro e con il fascio di His. Il dottore della fabbrica per cominciare, gli aveva ripetutamente consigliato di smettere di fumare e di escludere l’alcol completamente. Merkulov fumava solo nelle grandi occasioni e bè, l’alcol…Prima bisogna arrivarci.
Dopo aver preso fuori dallo zaino la bottiglia di vodka, Merkulov dà alcuni sorsi e si mette ad aspettare. In lontananza, oltre i ponti, a sinistra e a destra, mulinava il fumo. Giù, instancabile, scorreva la Sunža. Scorreva così anche molti, molti anni prima, solo che brillava il sole, non c’era fumo e la città era giovane e allegra. E scorrerà esattamente così anche quando lui, Merkulov, qui non ci sarà più. Scorrerà anche quando non ci sarà più la città.
Il dolore si è nascosto, i puntini neri li vedeva più raramente, non si poteva più aspettare. Avanti, Merkulov, prosegue in uno strano stato, nella testa tutto si confondeva.
Il cinema “Kosmos” è una sfera di vetro dai bordi fusi al posto del baracchino della birra. Il tiro a segno e l’insegna dell’Andreevskij, ormai scomparsa da molto tempo, con la casa di cura per alcolisti. La piscina “Sadko” e quello che una volta era il sogno infantile che stava al suo posto, il tendone del circo su un terreno abbandonato arroventato dal sole. Gli alberi feriti del giardino pubblico e i lillà fioriti, cresciuti al posto di una leonessa che non esiste più già da trent’anni.
Sul ponte Boronovskij, Merkulov si ferma un’altra volta, non aveva le forze di andare avanti. Di nuovo gli tocca sostare, appoggiarsi alla balaustra. Sul ponte non c’era più nessuno. Il silenzio era diventato tale che si poteva sentire, come se la Sunža stesse raccontando qualcosa, sottovoce. A quel tempo, sul ponte si era raccolta della gente, tutti sorridevano, salutavano con le mani. E loro ridevano in risposta.
Un ago incandescente gli trafigge il cuore, tutto si fa scuro davanti agli occhi. Merkulov si lascia cadere pesantemente sull’asfalto sporco, senza fare in tempo a togliersi lo zaino.
Ma la pallottola-stupida gli entra in mezzo agli occhi
alla fine del giorno
Ha fatto in tempo a dire
anche questa volta:
Che me ne frega
di tutti, di voi,
E a voi non ve ne frega niente di me.
***
Dopo i festeggiamenti dell’ultimo dell’anno si è svegliato un paese immenso, enorme, affamato e indifferente. Lontano, al sud, attaccati alle montagne, si è acquietata una città sbalordita. Nel terzo Mikrorajon in un monolocale poco spazioso, senza ormai più nessuna speranza, due vecchietti sbigottiti scrutavano dalla finestra.
A tre isolati dal ponte Boronovskij, un uomo non rasato da molto tempo e molto carico, camminava appoggiandosi a un bastone. Dietro la scapola sinistra bruciava il fuoco, negli occhi saltavano dei punti rosso scuri, da qualche parte era rimasto, gettato, lo zaino insollevabile. L’uomo non vedeva né gli edifici distrutti, né i frammenti di alberi, né il cielo basso strozzato dal fumo. Di fronte al suo sguardo balenava la Sunža con luccichii di petrolio e il sole splendeva affettuoso. E, nella macchina fotografica, cinque ragazzi di Groznyj nuotavano e gridavano e ridevano, senza riuscire a trattenere la meraviglia.
Perdonate ai soldati l’ultimo peccato,
e non conservate nella memoria
non mettete su di noi dei picchetti dolorosi.
Che me ne frega
di tutti, di voi?
E a voi non ve ne frega niente di me.
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