Palestina borderline
Nessuna televisione occidentale, nessuna corte internazionale farà mai da megafono a Sam Bahour. Non si è acceso di fosforo bianco, non gli hanno divelto la casa addosso, né è ancora esploso in un autobus. Non è neppure un rifugiato, al contrario - è il fondatore della Paltel, ai vertici nelle telecomunicazioni. Ma ha passaporto statunitense, è tornato con Oslo: e la sua guerra non è una guerra di proiettili e ruspe, ma retrovie di carte bollate e timbri negati. Sua moglie è nata a Ramallah, così le due figlie: sono quindici anni che la domanda di ricongiungimento rimbalza da un ufficio israeliano all'altro, insieme a quelle di una famiglia palestinese su cinque. Curioso esemplare di residente pendolare, Sam Bahour sgomitola di visto in visto, di tre mesi in tre mesi la sua vita in apnea. O anche un mese, una settimana: a discrezione del poliziotto alla frontiera. Esce e rientra, da quindici anni affezionato turista dello stato di Israele.
Ed è così che in Palestina la guerra, spesso, non si vede più: perché è dilagata ovunque - è la banalità dell'occupazione. Le prime volte, un checkpoint incendia indignati: ma rapida, subentra una sorta di aritmetica istintiva del male minore: difendere da uno sputo è regalare il pretesto per una chiusura. Si è contagiati così da una gramigna di tolleranza, via via più larga - perché ogni giorno è giorno di infinite ingiustizie minime: fino a riscoprirsi pazienti in fila a un checkpoint, anestetizzati come davanti a un semaforo rosso. E se il pericolo, scriveva Tiziano Terzani, è che alla guerra ci si abitua, questo libro non è allora per principianti, ma veterani della questione palestinese: per quelli che non si sorprendono più - perché è qui che l'occupazione vince: quando si converte in paesaggio.
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