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Saree Makdisi

Palestina borderline

Storie da un'occupazione quotidiana (Isbn Edizioni - 2009)

Nessuna televisione occidentale, nessuna corte internazionale farà mai da megafono a Sam Bahour. Non si è acceso di fosforo bianco, non gli hanno divelto la casa addosso, né è ancora esploso in un autobus. Non è neppure un rifugiato, al contrario - è il fondatore della Paltel, ai vertici nelle telecomunicazioni. Ma ha passaporto statunitense, è tornato con Oslo: e la sua guerra non è una guerra di proiettili e ruspe, ma retrovie di carte bollate e timbri negati. Sua moglie è nata a Ramallah, così le due figlie: sono quindici anni che la domanda di ricongiungimento rimbalza da un ufficio israeliano all'altro, insieme a quelle di una famiglia palestinese su cinque. Curioso esemplare di residente pendolare, Sam Bahour sgomitola di visto in visto, di tre mesi in tre mesi la sua vita in apnea. O anche un mese, una settimana: a discrezione del poliziotto alla frontiera. Esce e rientra, da quindici anni affezionato turista dello stato di Israele.

Copertina Palestine Inside Out

L'edizione originale del libro, inglese, ha una copertina bellissima, una fila al checkpoint, e in primo piano due ragazze sorvegliate dall'ombra armata di un soldato. Ed è forse la migliore icona possibile di un'occupazione in cui la violenza, in realtà, è l'eccezione più che la regola: perché la strategia principale è generare caos, complessità fisica e giuridica e linguistica - istituzionalizzare precarietà e incertezza, in vite cariate dall'imprevedibilità in cui si è ostaggio dello 'spirito del comandante', una intenzionale vaghezza di leggi e ordini e regole che assicura spazio a ogni arbitrarietà. L'obiettivo, semplicemente, è rimasto invariato dalle origini del sionismo: l'insediamento in un paese già abitato da un altro popolo: ma se nel 1948 fu possibile cercare l'espulsione di massa, oggi lo strumento è il cosiddetto quite transfer - scolpire una 'geografia irresolvibile', condizioni tali da costringere i palestinesi uno a uno, impercettibilmente, a gocciolare altrove. Eid Ahmed Yassin non ha l'autorizzazione per raggiungere i suoi campi, intrappolati oltre il Muro: solo Israele possiede mappe e catasti, per cui non sa precisare a cosa adesso corrisponda la terra indicata nei documenti in possesso della sua famiglia da generazioni: tra un anno, in virtù delle norme ottomane, la sua terra 'abbandonata' tornerà proprietà pubblica - cioè israeliana: è così, con orma leggera, che la pace si ribalta continuazione della guerra con altri mezzi.

Ed è così che in Palestina la guerra, spesso, non si vede più: perché è dilagata ovunque - è la banalità dell'occupazione. Le prime volte, un checkpoint incendia indignati: ma rapida, subentra una sorta di aritmetica istintiva del male minore: difendere da uno sputo è regalare il pretesto per una chiusura. Si è contagiati così da una gramigna di tolleranza, via via più larga - perché ogni giorno è giorno di infinite ingiustizie minime: fino a riscoprirsi pazienti in fila a un checkpoint, anestetizzati come davanti a un semaforo rosso. E se il pericolo, scriveva Tiziano Terzani, è che alla guerra ci si abitua, questo libro non è allora per principianti, ma veterani della questione palestinese: per quelli che non si sorprendono più - perché è qui che l'occupazione vince: quando si converte in paesaggio. Saree Makdisi

E perché invece Saree Makdisi, quarantacinque anni, professore di letteratura inglese all'università della California, sa ancora vedere un'ingiustizia in Farid Subuh, che dopo un pomeriggio di compere a Nablus viene fermato senza spiegazioni e con moglie e due figli piccoli che piangono per la fame non può tornare a casa e dorme in auto - sa ancora sentire una ferita in secoli di cultura ebraica spiaggiati in uno stato che chiede il visto anche agli asini. E da nipote di Edward Said, sa farlo con un'architettura che somiglia a uno spartito, mentre il metronomo dei bollettini Onu registra la contabilità settimanale dei pollai devastati, gli olivi sradicati: il 'fuori', sulle restrizioni al movimento e all'accesso, il 'dentro', sulla conseguente frantumazione di famiglie e comunità, la separazione non tanto degli israeliani dai palestinesi quanto dei palestinesi da altri palestinesi, e ma soprattutto l'esito della combinazione tra 'fuori e dentro', e cioè Gaza, laboratorio di quanto accadrà - 'uno strangolamento controllato, nei limiti della accettabilità internazionale', quello che con sinistra eco chiama gazification: complementari all'occupazione, squarci ricorrenti di violenza, con i civili obiettivi ormai intenzionali e non collaterali: una violenza terroristica che non ha l'obiettivo di conquistare, e neppure sterminare, ma appunto indurre alla resa, al trasferimento. E l'impressione allora è che 'sottosopra' in realtà, come Makdisi intitola la ricostruzione della nakbah, sia finita la società israeliana.

Palestina borderline

Eppure un secondo esito, inatteso, di decenni di sionismo sembra essere l'impossibilità geofisica dell'opzione bistatuale, oggi che quasi metà della West Bank è riservata agli insediamenti e alle loro infrastrutture, che insieme al Muro hanno trasformato il potenziale stato palestinese in un insostenibile arcipelago - tante piccole Gaza predisposte ad un identico destino di isolamento e assedio. Contro l'argomento di uno stato unico, laico e democratico, l'accusa è di confidare nel grimaldello demografico per corrodere l'equilibrio a favore arabo: ma la migliore risposta è il ritratto che Makdisi, nato a Washington e cresciuto nella Beirut della guerra civile, pennella di sé nell'introduzione: 'palestinese attaccato da palestinesi, libanese colpito da libanesi, arabo finito sotto il fuoco arabo, americano bombardato con armi americane' - dunque nessun nazionalismo, dice, solo senso di giustizia. Solo senso della realtà, nessun idealismo. Persino Lieberman in fondo ha ribattezzato il suo partito 'Israel Beitenu', Israele è casa nostra. Prima persona plurale. Perché beit - arabo e ebraico hanno la stessa parola per dire casa.

 

 

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