Perché e a che scopo le persone scendono in piazza
Il popolo ha occupato le strade. E le pubbliche piazze. La prima, Piazza San Venceslao, a Praga, nel lontano 1989, e a seguire, l’una dopo l’altra le piazze nelle capitali dei paesi del blocco sovietico. Quindi, come è noto, la piazza principale di Kiev. In tutti quei luoghi e in alcuni altri ancora, nuove forme di protesta cominciarono ad essere sperimentate: non più manifestanti in marcia da un punto di raccolta fino ad una precisa destinazione. Piuttosto, una sorta di occupazione permanente, o un assedio capace di protrarsi fino al raggiungimento delle rivendicazioni.
Ciò che è stato messo a punto e collaudato si è recentemente trasformato in una norma. Le persone tendono a insediarsi nelle piazze pubbliche con la chiara intenzione di restarvi per un bel po’: quanto occorre per raggiungere o avere garantito ciò che si desiderava. Portano con sé tende e sacchi a pelo per mostrare la propria determinazione. Alcuni altri invece vanno e vengono, ma con regolarità: ogni giorno o notte, o una volta a settimana. Cosa hanno fatto una volta in piazza? Hanno ascoltato i discorsi, applaudito o fischiato, portato manifesti o bandiere, gridato o cantato. Desideravano che qualcosa cambiasse. In ogni caso, quel “qualcosa” era differente. Nessuno sapeva con certezza se significasse lo stesso per tutti quelli intorno. Per molti, il suo significato non era affatto chiaro. Ma qualunque fosse quel “qualcosa”, hanno assaporato il cambiamento che stava già verificandosi: era già un tale cambiamento, in atto e godibile, restare giorno e notte nella piazza Rothschild o Taharir, circondati da moltitudini evidentemente sintonizzate sulla stessa lunghezza d’onda emotiva. Evocato verbalmente su Facebook e Twitter, in fine sperimentato ora dal vivo. E senza la perdita di quei tratti che l’avevano reso così accattivante nel praticarlo sul web: la capacità di godere il presente senza ipotecare il futuro, diritti senza obbligazioni.
L’inebriante esperienza della fratellanza che avvince; chissà, forse solidarity. Non più da solo, è il significato di quel cambiamento che sta già manifestandosi. Ed è stato necessario un così piccolo sforzo: poco più che digitare una “d” al posto di una “t” nell’oscena parola “solitary”. Solidarietà su ordinazione, tanto durevole quanto la domanda resiste (e non un minuto di più). Solidarietà non tanto nella condivisione di una causa comune, ma solidarietà nell’avere comunque una causa; io e te e tutti quanti noi (un “noi”che sono le persone nella piazza) che ora abbiamo degli obbiettivi e una vita che significa qualcosa.
Alcuni giorni fa, i giovani, durante la veglia di protesta nelle tende montate attorno Wall Street, hanno scritto un invito a Lech Walesa, il leggendario leader dell’altrettanto leggendario movimento polacco Solinarnosc, famoso per avere innescato la demolizione dell’impero sovietico, attraverso la caparbietà degli operai che restarono dentro le fabbriche, le miniere o i cantieri navali, finché le rivendicazioni non furono soddisfatte. In quella lettera, i giovani, raccolti nelle strade e piazze di Manhattan, sottolineano il fatto di essere studenti e membri dei sindacati, oltremodo diversi tra loro sia per storie di vita, che per razza e idee politiche, uniti esclusivamente dal desiderio di «restituire purezza morale all’economia americana»; non esiste un leader, ma solo la convinzione condivisa che il 99% degli americani non può, e non dovrebbe più, tollerare oltre l’avidità e la rapacità dell’1%. Gli autori della lettera dicono che Solidarnosc è stato un esempio di come muri e barriere possano essere demoliti e l’impossibile possa essere trasformato in possibile; un esempio che intendono seguire.
Le stesse parole o altre abbastanza simili potrebbero essere scritte dalla folla di giovani e meno giovani del movimento degli indignados del 15 maggio che si è ingrossato, attraverso le piazze di Madrid, fino alle 951 città dei suoi emulatori sparsi in più di 90 paesi. Nessuno di questi movimenti ha un leader, raccolgono sostenitori entusiasti da tutti i ceti sociali, razze, religioni e settori politici, tutti uniti esclusivamente dal loro rifiuto di consentire oltre che le cose vadano avanti come attualmente fanno. Ognuno di loro ha in mente uno specifico ostacolo o un muro da demolire e distruggere. Tali ostacoli probabilmente variano da un paese all’altro, ma l’abbattimento di ognuno di questi è ritenuto essere la strada maestra che conduce ad un modello di società migliore, più ospitale per l’umanità e meno tollerante nei confronti della disumanità; ogni ostacolo, così concepito, è giudicato come quello la cui demolizione porrà fine ad ognuna delle sofferenze che hanno messo insieme coloro che protestano; così come per mettere in moto l’intera catena bisogna tirare un singolo anello. Su quale sarà la forma delle cose che verranno, di conseguenza, ci si dovrebbe interrogare solo una volta che si sia agito e si sia fatta chiarezza sul cantiere per la nuova e migliore società. Come gli inglesi sono soliti dire: « Ci porremo la questione quando sarà il momento».
Il concentrarsi su una singola iniziativa di demolizione lasciando vaga l’immagine del mondo del giorno dopo tale demolizione è il binomio in cui risiede la forza delle persone nelle strade, così come la loro debolezza. Abbiamo già ampia prova che i movimenti dell’indignazione sono in verità pienamente efficaci nell’agire come una squadra di demolitori; tuttavia, la verifica delle loro capacità di progettisti e costruttori è un fatto ancora in sospeso. Alcuni mesi fa, tra palpitazione e ammirazione crescente, tutti abbiamo osservato il mirabile spettacolo della Primavera Araba. Mentre scrivo siamo già in pieno ottobre e stiamo ancora aspettando, finora in vano, l’Estate Araba...
Se Marx ed Engels, due ragazzotti originari della Renania, si fossero accinti oggi a buttare giù il loro manifesto, vecchio di quasi due secoli, certamente avrebbero cominciato dalla considerazione: « uno spettro si aggira per il pianeta; lo spettro dell’indignazione»... Da dove quello spettro si sollevi è una questione aperta e controversa. Si può tuttavia supporre che un denominatore comune delle molteplici sorgenti ed affluenze vada individuato nella umiliante, in quanto capace di sfidare e negare sia autostima che dignità, percezione della nostra ignoranza (nessun sentore di cosa stia per accadere) e impotenza (nessuna possibilità di evitare che accada). I sistemi, antichi e presumibilmente brevettati, di affrontare le sfide dell’esistenza non funzionano più, mentre altri nuovi ed efficaci non si riescono a scorgere o risultano in quantità oltremodo scarse.
I nostri padri potevano litigare su ciò che era necessario fare, ma tutti loro concordavano sul fatto che una volta stabilito il compito l’azione sarebbe stata là, in attesa di compiersi. In altre parole, le organizzazioni politiche si munivano sia di potere (abilità esecutiva del fare) che di politica (abilità di fare in modo che le cose giuste venissero fatte). La nostra epoca, tuttavia, è famosa per la diffusa evidenza che un tale tipo di organizzazioni non esiste più, e che la maggior parte di esse certamente non si ritrova più nei luoghi una volta usuali. Potere e politica vivono e si muovono su piani separati e il loro divorzio si cela dietro l’angolo. Da una parte, il potere che vaga per le distese globali di nessuno, libero dal controllo politico e nella disponibilità di scegliere i propri obbiettivi; dall’altra la politica esaurita/derubata di tutto o quasi tutto il potere, dei muscoli e dei denti. Tutti noi, individui per decreto divino, sembriamo essere abbandonati alle personali risorse individuali, estremamente inadeguati per le imprese grandiose con le quali già ci confrontiamo e per quelle mansioni, anche più sconcertanti, alle quali sospettiamo essere esposti, a meno di trovare il modo di fermarle. Alla base di tutte le crisi, di cui i nostri tempi abbondano, si trova la crisi delle organizzazioni e degli efficaci strumenti d’azione. Nonché il loro derivato: il sentimento cocente di essere stati condannati alla solitudine di fronte ai pericoli condivisi.
Avendo perso la fede in una salvezza proveniente “dall’alto” (parlamenti e strutture governative) e cercando modi alternativi di mettere le cose a posto, le persone si sono riversate in strada in un viaggio di scoperta e/o sperimentazione. Hanno trasformato le piazze delle città in laboratori all’aria aperta, nei quali gli strumenti di azione politica sono progettati o trovati per caso, passati al vaglio, sottoposti al battesimo del fuoco, con la speranza di adeguarli all’enormità della sfida. E per un buon numero di ragioni le strade delle città sono posti ideali per impiantare tali laboratori e per un bel paio di altre ragioni i laboratori, lì collocati, sembrano far nascere ciò che era stato tentato in vano altrove.
In data 14 luglio 1789, il re di Francia, Luigi XVI annotò nel suo diario solo una parola: Rien. Una folla di parigini sanculotti aveva inondato quel giorno un tipo di strade che non era abitudine dei misérables visitare, ad ogni modo non en masse e certamente non per bighellonarvi. Quel giorno lo fecero, e le lasciarono solo dopo che ebbero sbaragliato le guardie e preso la Bastiglia.
Ma Luigi XVI come avrebbe dovuto saperlo? Non era ancora una idea da prendere sul serio il pensiero di una massa (quella «plebaglia», come Henry Peter Brougham doveva liquidare altre persone che erano scese in altre strade proprio pochi decenni dopo la caduta della Bastiglia) che facesse tornare indietro la storia o la mandasse avanti, a seconda del punto di osservazione. Doveva ancora passare molta acqua sotto i ponti della Senna, del Reno o del Tamigi prima che l’arrivo e la presenza sulla scena storica del “mob” (un nomignolo coniato da “volgo mobile”, “calca in movimento”) potessero essere notati, riconosciuti, quindi temuti e mai più liquidati nuovamente con poco. Dopo gli avvertimenti e i timori sollevati da personaggi quali Gustave le Bon, Georges Sorel o Ortega y Gasset, gli scrittori di diari non scriverebbero più “rien” nel sentire la folla scorazzare per le strade del centro città; probabilmente vi sostituirebbero un enorme punto interrogativo. Tutti loro: quelli che, con Hillary Clinton, contemplano la visione di un parlamento, eletto democraticamente, sorgere dalle ceneri del furore del popolo, e quelli che nervosamente scrutano la folla che inonda piazza Tahrir alla ricerca di aspiranti fondatori della prossima repubblica islamica, e quelli che sognano di una folla che raddrizzi gli errori dei malfattori e faccia giustizia degli ingiusti.
Joseph Conrad, uomo di mare per scelta, viene ricordato per avere asserito che nulla è così seducente, così deludente o così affascinante come la vita di mare. Mentre pochi anni dopo Elias Canetti dovette scegliere il mare (insieme al fuoco, alla foresta, alla sabbia, ecc.) per una delle più acute e illuminanti metafore usate per definire la massa umana; forse particolarmente appropriata per una tra le diverse tipologie che individuò: la massa di rovesciamento. Cioè, una ri-voluzione istantanea che trasforma da un momento all’altro le cose nei loro opposti: il carcerato nei carcerieri, il carceriere nel carcerato, un gregge in un pastore, un pastore (solitario) in una pecora; e comprime/coagula un mucchio di frammenti in un intero monolitico mentre trasforma la massa in un individuo: un soggetto indivisibile del tipo “Nous ne sommes rien, soyons tout” [Noi non siamo nulla, dunque che si sia tutto, ndt]. Si potrebbe dilatare quell’idea d’inversione per abbracciare l’atto d’inversione stesso. «Nella massa,» scrisse Canetti, «l’individuo percepisce di stare trascendendo i limiti della propria persona». L’individuo non sperimenta una condizione di dissolvimento, ma piuttosto una espansione. Lui, l’insignificante creatura solitaria, ora si reincarna nei molti: l’impressione che la stanza degli specchi prova a riprodurre, seppure con effetto limitato e ridotto.
Massa vuol dire inoltre: momentanea liberazione dalle fobie. «Non c’è nulla che l’uomo tema di più del contatto con uno sconosciuto», dice Canetti. «Vuole sapere cosa gli viene incontro, per potere riconoscerlo o almeno classificarlo. L’uomo tende sempre ad evitare il contatto fisico con tutto quello che gli è estraneo.» Ma in una massa quel timore dell’ignoto, paradossalmente, è annullato dall’essere invertito; la paura di essere toccato si dissolve nell’invasione ripetuta dello spazio intersoggettivo: nel corso di molte trasformazioni che fanno di una unità una moltitudine e viceversa, e in quello spazio che trasforma la sua funzione di separare/isolare in quella di fondere e mescolare.
L’esperienza formativa che condusse Canetti a quella lettura psicologica della folla si fa risalire al 1922, in occasione di una dimostrazione di massa alla quale partecipò, contro l’assassinio dell’ebreo tedesco Walter Rathenau, industriale e statista. Nella massa scoprì «una totale alterazione della coscienza» che è contemporaneamente «drastica ed enigmatica.» Come ha suggerito Roger Kimball (in Becoming Elias Canetti, the New Criterion, Settembre 1986), il modo attraverso cui descrisse il suo primo incontro con una massa umana fu quasi simile al tipo di esperienza che viene riferita da certa letteratura mistica. Fu una intossicazione; si era perso, dimentico di se stesso, si percepiva straordinariamente distante e tuttavia appagato; qualunque cosa provasse, non poteva provarla per se stesso; fu l’esperienza più altruistica che avesse mai conosciuto; e poiché l’egoismo era mostrato, dibattuto e minacciato da tutti i lati, si necessitava di questa esperienza di generosità fragorosa come il prorompere della tromba nel giorno del Giudizio Universale. Come era potuto accadere tutto ciò? Di che cosa si trattava?
Adesso possiamo indovinare come mai le manifestazioni di massa risultino seducenti e ammalianti come il mare. Nella massa, come nel mare, e a differenza del suolo edificato, intersecato da recinzioni e interamente mappato, tutto o quasi tutto potrebbe accadere, persino se niente o quasi niente possa essere fatto con certezza. Le alleanze si formano con la stessa velocità e facilità con cui cadono a pezzi e si dissolvono. Le prospettive combaciano con la stessa immediatezza attraverso la quale si separano. Differenze e contrari sono soltanto sospesi per riemergere in seguito senza mezzi termini. Qui, infatti, l’impossibile si trasforma nel possibile! O almeno sembra trasformarsi di volta in volta.
Le persone nelle strade sono presagio di cambiamento. Ma annunciano anche la transizione? Dove per transizione intendo qualcosa in più di un semplice cambiamento: un passaggio da un qui ad un altrove. Tuttavia, per le persone nelle strade e piazze risulta definito soltanto il “qui” dal quale desiderano fuggire, mentre l’ “altrove” verso il quale tendono, nel migliore dei casi, è ancora avvolto nella nebbia. Le persone scendono in piazza nella speranza di trovare una società alternativa; sebbene finora abbiano trovato solo i mezzi per sbarazzarsi di quella attuale o meglio, di sbarazzarsi di una delle sue forme sulla quale hanno momentaneamente concentrato la loro diffusa indignazione, il risentimento, la contrarietà, il rancore e la rabbia. In qualità di squadre di demolizione, le persone che sono scese in piazza sono irreprensibili o quasi. Tuttavia, le mancanze emergono una volta che il terreno sia stato spianato e si deve proseguire ponendo le fondamenta per erigere nuove costruzioni. E le mancanze derivano la loro importanza dalle stesse cose a cui le squadre di demolizione devono la propria arcana efficienza: la molteplicità, la riprovazione e persino l’incompatibilità degli interessi lasciati in sospeso per il tempo della demolizione stessa, interessi tuttavia che torneranno alla ribalta nel momento in cui il lavoro sarà concluso; e le emozioni, note per essere tanto semplici da essere suscitate quanto inclini a spegnersi e sparire, si spegneranno e spariranno conclusa l’impresa di riconciliare l’inconciliabile attraverso la loro sincronizzazione; e lo faranno molto, ma molto più velocemente di quanto non occorrerà per progettare e costruire una società alternativa nella quale l’unica ragione che le persone avranno di scendere in strada sarà legata alla gioia di gustare la solidarietà e l’amicizia. Oppure, come Richard Sennett ha recentemente spiegato, occorre dare forma con urgenza ad un modello di umanesimo che conduca ad una cooperazione informale e flessibile. Informale, nella misura in cui le regole di cooperazione, non essendo stabilite in precedenza, emergono nel corso della cooperazione. Flessibile, in quanto non ci si accosta alla cooperazione con il presupposto di sapere in anticipo ciò che sia vero e giusto, essendo ognuno riconciliato e quindi distante dal giocare tanto il ruolo dell’allievo quanto quello del maestro. E cooperazione, intesa come quella interazione mirata al mutuo beneficio dei partecipanti piuttosto che alle loro divisioni in vincitori e vinti.
Questo progetto sembra misterioso, sorprendente, nebuloso, utopico, impossibile, è vero? Bene, contrariamente all’aspettativa ispirata e promossa elettronicamente, ci vuole tempo, molto tempo, per rendere l’impossibile possibile, inoltre ci vuole molto pensiero, dibattito, pazienza e resistenza. Tutte qualità che finora si trovano in quantità piuttosto ridotte, e che con ogni probabilità resteranno tali fino a quando saremo a corto di configurazioni sociali più sensibili alla loro produzione, rispetto a quelle attualmente comuni.