La guerra come antitesi del diritto
CISP - Centro Interatenei piemontesi Studi per la Pace
1-2 dicembre 2011
Convegno LE REGOLE DELLA GUERRA
La guerra come antitesi del diritto
Enrico Peyretti, enrico.peyretti@gmail.com
Centro Studi Sereno Regis www.serenoregis.org
Sintesi
La guerra pretende fondarsi sul diritto, come sua tutela, e stabilire il diritto. Il diritto poi tenta di arginare la guerra. La guerra esonda, tracima sul diritto e lo travolge. La direzione necessaria di ricerca è giuridicizzare il conflitto, come ben sappiamo fare in rapporti sociali non totalmente consegnati alla logica di potenza. Il conflitto è naturale, anche funzionale alla vita, ma diventa guerra quando non accetta il divieto di distruttività. Esso è vitale quando è gestito con le forze umane, non con la violenza, che è l'anti-forza. Se la guerra è antitesi del diritto, il diritto è un antidoto alla guerra.
Nel convegno non ho letto tutta questa relazione, di cui ho dato solo una stretta sintesi, ma ho raccontato un episodio di ingiustificabile violenza omicida a cui ho assistito da bambino (9 anni e mezzo), nei giorni dell'aprile 1945 tra guerra e dopoguerra, ed anche la storia di un soldato tedesco, Josef Schiffer (diventato poi mio amico, morto nel gennaio 2011 a 96 anni), che protesse la popolazione italiana durante l'occupazione, testimone di pace e giustizia dentro la guerra. Sono per me esperienze che mi hanno definitivamente segnato, orientando la riflessione sulla guerra. L'uso delle armi, anche per le più comprensibili ragioni (come la guerra di Resistenza al nazifascismo), ha un'alta probabilità di disumanizzare la persona. Ma non è questo un effetto necessario. C'è chi, come Josef Schiffer, sa restare profondamente umano, e difendere l'umanità propria e altrui, dentro il fuoco della guerra e dell'ingiustizia (come la guerra nazista). Se la guerra è l'antitesi del diritto, l'antidoto alla guerra è la coscienza del diritto umano.
Il titolo di questa relazione è tratto da un giudizio di Norberto Bobbio: «La guerra atomica (…) ritorna ad essere, come nella raffigurazione hobbesiana dello stato di natura, l'antitesi del dirittto» (Il problema della guerra e le vie della pace, 4a edizione, Il Mulino 1977, pp. 65-66). Questa antitesi non si verifica solo nella guerra atomica. Vorrei anche rovesciare l'affermazione, dicendo: il diritto come antidoto alla guerra.
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Riesce il diritto a dare regole alla guerra?
Partirei da una fonte familiare: «La guerra oggi non è più uno stato di violenza fuori di ogni legge e diritto, ma un procedimento retto da norme particolari. (…) Il diritto di guerra rende legittimi atti che, commessi in tempo di pace, sarebbero vietati e cadrebbero sotto le sanzioni del codice penale». Scriveva così, nel 1903, il mio nonno materno, Lanfranco Bellegotti, vissuto dal 1856 al 1954, che ho ben conosciuto da ragazzo. Egli insegnò a cavallo dell'800 e del 900 Diritto Internazionale all'Università di Pisa. Nel 1889 aveva tradotto Dell' Origine E Progresso Del Diritto Internazionale, di Giovanni Hosack. Insegnò pure Diritto Internazionale marittimo nell'Accademia navale di Livorno, dove - lo si seppe in famiglia - fu segretamente bocciato all'esame di ammissione il principe ereditario Umberto.
Delle sue pubblicazioni, possiedo questo Principio fondamentale del Diritto Bellico Moderno (Tipografia Valenti, Pisa 1903. Ho citato dalla p. 3). Il libro fa la storia del diritto bellico dall'antichità, all'epoca di mezzo, all'età moderna, e conclude individuando il «principio fondamentale del diritto bellico moderno», emergente nell'evoluzione storica. Tale principio, teorizzato anche da Rousseau, sarebbe l'idea della «immunità delle persone pacifiche e dei loro beni nel corso delle ostilità», perché la guerra è tra stati e non tra le persone dei cittadini (pp. 102-103). Il rapporto di guerra tra stati «non è uno stato di violenza senza freno e senza confini [come era nell'antichità, n.d.r.], ma un duello ordinato, retto dalle regole dell'arte per vincere e dai precetti della morale, dell'umanità, della civiltà per mantenere l'impiego della forza nei limiti della stretta necessità e del rispetto della natura umana, in cui due popoli si impegnano (…) allo scopo di risolvere tra loro una questione di diritto pubblico» (p. 106). Dopo avere ricordato i recenti progressi civili per cui quel principio fu fatto proprio anche dalla Conferenza internazionale per la pace, tenuta all'Aja nel 1899, concludeva il mio nonno professore: le genti «hanno capito che la guerra, se assolutamente necessaria, non può avere altro scopo che la tutela del diritto». «La presente comunità internazionale (...) non soltanto considera la pace come un dovere delle genti, ma aspira a trovare il modo di risolvere i conflitti, che fra loro possono nascere, senza bisogno di affidarne la decisione, nei casi estremi, alla fortuna delle armi, essendo ormai convinzione comune che questa forma di giudizio è incomportabile colla natura razionale dell'uomo, inadatta a garantire il diritto dei deboli, indegna della civiltà presente: ecco l'ideale della nuova unità umana, oltre la quale è dato vedere il miraggio della pace universale» (pp. 111-112).
La teoria esposta in quel libro era che il diritto moderava ormai la guerra e prometteva di condurre ad un sistema di pace. Era il 1903: dopo 11 anni scoppiava la prima guerra mondiale, ma dopo tre anni in Sudafrica Gandhi formulava il principio e il metodo satyagraha.
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Problema: viene prima, nell'avventura umana, la gestione dei naturali conflitti entro la rete dei rapporti vitali, oppure viene prima la rottura, cioè, in caso di conflitto grave, l'alternativa assoluta tra i diritti soggettivi, fino a toccare il diritto alla vita?
Evito di entrare nella questione ardua se la società umana sia passata dallo stato di natura (ammesso che questo sia il bellum omnium contra omnes) allo stato civile, oppure se dalla naturale convivenza degli umani, col sorgere di poteri organizzati, sia nato il fenomeno vero e proprio della guerra (che non è solo il litigio, anche grave, tra due vicini di grotta, ma è una violenza organizzata e istituzionalizzata).
Parliamo del fatto che, lungo la storia, l'umanità ha tentato di dare regole alla guerra, ponendo alcune condizioni per la sua giustificazione (render giusto un atto ingiusto), e alcuni limiti al suo esercizio.
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Se il diritto in generale vuol dare regole ai comportamenti, regole che proteggano vite, beni e valori, e se a fine 800, il «principio fondamentale del diritto bellico moderno» consisteva nella «immunità delle persone pacifiche e dei loro beni nel corso delle ostilità», perché la guerra è tra stati e non tra le persone dei cittadini, ci chiediamo: è riuscito questo diritto a regolare la guerra? La guerra ha, o accetta, regole diverse da quella della massima efficienza nell'imporre forza e volontà di ciascuna parte sull'altra?
Alla domanda se il diritto abbia limitato la guerra, nella storia, possiamo rispondere sì e no.
Sì, l'ha limitata. Sono stati dati dei limiti al dolore e alla mortalità della guerra: dallo sterminio biblico e antico (ma oggi le armi di distruzione di massa sono armi di sterminio!) si è passati alla vittoria statale-territoriale-politica, alle regole tra stati che avvicinano – o cercano di avvicinare - la guerra ad una procedura giudiziaria.
Le regole della battaglia sono come la legge mosaica del taglione (che voleva limitare la vendetta rendendola proporzionata, non più grave dell'offesa: occhio per occhio, e non due occhi per un occhio). Regola della battaglia è uccidere e distruggere pensando di averne diritto, ma entro certi limiti...
No, il diritto non ha limitato la guerra. Le guerre statali e imperiali del 900, e le guerre successive, in gran parte sfuggite di mano agli stati sovrani, guerre potenziate dalla enorme crescita della distruttività massiccia – chi si dilata nello spazio e nel tempo – degli armamenti, permettono ancora di dire che le regole hanno limitato la guerra?
Di fatto, storicamente, le regole non sono rispettate: la guerra è incontenibile. Todorov, sulla recente guerra di Libia, ha scritto: «La guerra è un mezzo tanto potente da far dimenticare il proprio obiettivo» (Repubblica 23 marzo 2011). Tanto più la guerra dimentica i limiti legali che le vengano imposti. La guerra eccede per natura.
Infatti, la guerra vuole vincere (che significa legare, sopraffare, se non sterminare). Si lascia regolare-limitare? Bastano gli argini quando a monte si genera un'alluvione? «La guerra può essere vinta soltanto facendosi più crudeli del nemico» , scriveva Gandhi agli inglesi il 7 luglio 1940 (in Harijan, citato in Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, pp. 248-251); o almeno richiede di essere più efficienti nella crudeltà.
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Oggi la più corrente giustificazione della guerra statale o di coalizione è il motivo umanitario, la “responsabilità di difendere” i diritti delle popolazioni, tanto è vero che si chiamano “missioni di pace”. Ci furono già guerre chiamate missioni di civilizzazione. Ognuno giudichi quanto tale motivo sia sincero e non sia maschera di interessi imperial-economici. Comunque, appare ed è presentato come una regola per l'uso delle armi da guerra, e neppure limitativa, quanto, in primo luogo, attiva: si deve intervenire e agire con efficacia.
Se chi fa queste guerre adottasse davvero come motivo e regola il diritto comune da ristabilire, e il diritto umano delle popolazioni e anche del nemico violento (tiranno, aggressore) da neutralizzare, da giudicare regolarmente, e non da uccidere appena preso, allora queste non sarebbero da condurre come guerre, ma come azioni di polizia legale e corretta.
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Differenza essenziale tra forza (polizia) e violenza (guerra)
Soffermiamoci un momento a richiamare la differenza non verbale tra polizia e guerra. Polizia significa ordine della città, nella convivenza, non nell'alternativa “o noi o voi”.
La polizia può e deve usare la forza strettamente necessaria, che non si può confondere con la violenza: la forza può essere anche nonviolenta, ed è un modo di opporsi alla violenza, resistendole, senza imitarla e duplicarla.
Questa distinzione tra forza e violenza è essenziale, non verbale, anche se possono vedersi zone sfumate e miste tra i due poli dell'una e dell'altra. La forza costruisce, la violenza distrugge. La forza ( morale o fisica; forza personale o mediante uno strumento) è una componente essenziale della vita: finita ogni forza è finita la vita. La forza può anche essere usata per fare violenza, ma in sé non è violenza, non viola, non offende, non distrugge. La violenza toglie forza. La forza resiste alla violenza. La violenza non è forza, ma disperazione e debolezza, perché, non sapendo come gestire la differenza, distrugge il differente. La forza vitale ha diritto che non le si faccia violenza. La forza ha un diritto compatibile con altri diritti. La violenza ha solo la legge del fatto, non del diritto, che è criterio superiore al fatto.
Ora, se il motivo della guerra è davvero il diritto comune da ristabilire, e il diritto umano dei popoli e del nemico, allora la sua regola è la costruzione di patti per gestire i conflitti. Allora non usa mezzi di grande distruzione e dominio, non è guerra, ma polizia legale e corretta.
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La paura e la follia
Dallo sterminio antico alle armi di distruzione di massa (durante la guerra fredda fu persino considerato il costo prevedibile di molti milioni di morti), c'è progresso effettivo delle regole, oppure della potenza sregolata? È sperabile l'efficacia del contenimento, quando cresce la portata e le dimensioni dell'effetto che si vorrebbe riuscire a contenere?
Il contenimento del pericolo distruttivo verrà dalle regole? Ciò che è permesso o vietato nei patti, come sarà anche veramente sanzionato, se il patto è concluso tra enti “sovrani”, cioè tali che non riconoscono alcuna autorità superiore? E se le regole sono fatte rispettare da una forza superiore (il “Terzo assente” di Bobbio), si avrà il rispetto delle regole o della forza superiore? Oppure, il contenimento della forza bellica verrà da un auto-contenimento degli attori, cioè da regole morali-culturali, e anche dalla sana paura del pericolo?
E' stata la stessa pericolosità estrema degli armamenti, col generare sana istintiva paura nei popoli, e in qualche responsabile di decisioni (Gorbaciov più di tutti), a farsi regola di limitazione, fino al non uso e alla riduzione, di quei mezzi di guerra totale. Un limite venuto dall'interno stesso della guerra, per l'eccesso del suo pericolo indiscriminato, più che per una regola data dalla ragione e dalla volontà.
Ma la regola dettata dalla paura quanto ci rassicura? Quanto garantisce da un atto di follia, o dalla volontà di dominio a qualunque costo?
La paura può spingere alla follia. La follia può essere frenata dalla paura. Chi prevarrà in questo tiro alla fune? E la volontà di potenza, la più folle e fredda forma di follia, si lascerà frenare dalla paura?
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La guerra difende il diritto alla vita?
Se davvero difende la vita, la guerra è consona al diritto, è uno strumento del diritto, e non la sua antitesi. Cioè, se il “diritto bellico internazionale” non riesce a limitare davvero i “disastri della guerra”, riesce almeno la guerra a difendere (nell'immediato, se non dopo) il diritto alla vita?
Se vale, almeno nell'immediato, la regola del gioco della guerra, “mors tua vita mea”, allora la guerra non sarebbe antitesi, ma affermazione del mio diritto soggettivo alla vita?
Non lo escludiamo in assoluto, ma vogliamo vedere tutto. Se la tua morte è la mia vita, può avvenire altrettanto che la mia morte sia la tua vita. Così, la morte tua in difesa della mia vita, è anche potenzialmente la morte mia, se tu ne hai bisogno per difendere la vita tua. Difesa armata e repentaglio sono inseparabili.
Vita e morte sono esiti ugualmente possibili nella prova della guerra. La quale, allora, è diritto di vita o diritto di morte? È regola per la libertà della vita, o regola che consente la libertà della morte data, del dare la morte? Nella guerra si è autorizzati ad uccidere per vivere, ma si può, secondo le stesse regole, essere legalmente uccisi mentre si vuole vivere uccidendo. Dipende da chi uccide per primo, da chi uccide di più. Dipende dalla velocità e potenza di una morte sull'altra.
In realtà, non si confrontano due svolgimenti di vita, due realtà viventi, due forze di vita, ma due fattori e attori di morte. La figura tipica del soldato è un uomo trasformato in arma, non un vivente che esplica vita, ma un autore di morte che produce morte, con tutti i mezzi e gli artifici dell'ingegno omicida. Si ferma solo se l'altro uccide di più, oppure se si sottomette alla minaccia di morte. Con lo strumento arma puoi soltanto uccidere, o sottomettere con la minaccia. La vita salvata di chi esce incolume e vincitore è un sottoprodotto della morte. La vittoria bellica puzza di morte. Certo, la guerra è fatta di molte cose, pressioni, trattative, manovre, ma in definitiva è gestione della morte.
E se l'obiettivo dichiarato, nelle guerre attuali a scopo umanitario, è la distruzione non di vite umane, ma di obiettivi militari, cioè il “disarmo” imposto a chi è giudicato aggressore colpevole, peraltro si ammette abitualmente che i civili accidentalmente uccisi sono un “effetto collaterale”, vittime innocenti non volute ma previste e ammesse come inevitabili.
Nella seconda guerra mondiale, nei bombardamenti a distesa sulle città, anche di notte, compiuti dalla parte “giusta”, i civili erano l'obiettivo diretto, strumento per togliere base e consenso ai governi della parte “ingiusta”. Se c'era maggiore giustizia da una parte, e maggiore ingiustizia nell'altra parte di quel conflitto, quanta giustizia o ingiustizia era nei mezzi usati dalla parte giusta? Il fine giusto giustificava davvero quei mezzi? La giustizia era condannata all'ingiustizia?
Si può ancora dire oggi che nessuno seppe né poté immaginare altri modi meno ingiusti di contrastare e disarcionare nazismo e fascismo? La guerra nazista davvero costrinse inevitabilmente alla guerra le democrazie? Quanta parte ebbe il ritardo e l'imprevidenza e la insufficienza delle democrazie nel condannarle all'uso della guerra? Farsi imporre la guerra perché non si sa resistere in altro modo, è già una sconfitta.
In realtà la guerra è una ordalia, un giudizio di dio, dove questo dio al quale si affida la decisione di chi abbia diritto e chi abbia torto, è soltanto la potenza e l'efficienza dell'apparato distruttivo e omicida. La guerra, anche quando risulta davvero l'ultima risorsa per la ragione, per il diritto a vivere con dignità, è una rozza superstizione, una teologia tutta barbara. È la dimissione dell'umano, consegnato ad un idolo casuale e capriccioso. Infatti è stato detto che sarebbe più ragionevole tirare a sorte. Cosa c'entra il diritto, la ragione, con la guerra? Niente.
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Mors tua è anche mors mea, non è veramente vita mea. Non vince il diritto a vivere, se non per una breve apparenza.
Se la tua vita minaccia di morte la mia vita, cioè il mio diritto a vivere, allora, nella corta logica di guerra, la soluzione sarà toglierti la vita, annullare il tuo diritto a vivere minacciando. Il presupposto ideologico è che tu abbia perduto il diritto a vivere, perché lo hai posto in alternativa incompatibile al mio uguale diritto.
Ma sarà davvero una soluzione basata sul mio diritto inviolabile, che tu hai minacciato, e basata sulla perdita del tuo diritto, perché si è fatto offensivo del mio uguale diritto? Oppure, invece di una soluzione di diritto, sarà una decisione del caso, della forza, della ricchezza, della velocità, della spregiudicatezza morale?
Sarà proprio così, perché la guerra è decisa non dal diritto, ma dalla forza materiale e dalla anomia morale. C'è guerra dove non c'è più diritto comune, cioè compresenza e convivenza dei diritti individuali. Nell'affermare un diritto individuale contro l'altro, sulla base della forza, la guerra è antitesi e negazione del diritto comune, della regola universale, cioè della regola che, per essere semplicemente regola, deve valere ugualmente per tutte le parti, e non a favore del più forte.
Si legge nei Detti del profeta dell'Islam: Ho sentito dire all'inviato di Dio: «Quando due si affrontano armati di spada, l'ucciso e l'uccisore andranno all'inferno»
Al-Ahnaf, figlio di Qays, domanda stupito: «Questo per l'uccisore, o inviato di Dio. Ma perché anche per l'ucciso?». L'inviato di Dio: «Perché bramava uccidere il suo compagno». (al-Buhari, Detti e fatti del profeta dell'Islam, Utet 2009, p. 89).
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C'è un paradosso della guerra: come massima opposizione, è un massimo legame. La guerra, come legge della forza e della morte, eletta a signora della vita, lega inseparabilmente il minaccioso e il minacciato, l'offensore e l'offeso, li confonde tra loro, trasforma l'uno nell'altro, non distingue più diritto e torto, non li separa bene, non afferma il diritto sul torto, come invece dichiara nella sua pretesa di giustificarsi. Anche quando davvero la ragione è prevalente da una parte e il torto prevalente dall'altra, il loro confrontarsi nella guerra è l'abbraccio mortale con cui il torto avvelena la ragione.
Nella guerra, la morte dell'uno non è affatto detto che significhi la vita dell'altro, perché questa vita, basandosi sulla morte altrui, si è messa in un gioco di morte, ha accettato una regola di morte. Il vincitore vive dipendendo dalla morte altrui. Egli dipende da una forza casuale e precaria, non da un diritto sostanziale. Nello schema semplificato di uno contro uno, anche il forte dorme: in quel momento è debole, ha bisogno di altri, di una guardia, e dipende dalla sua fedeltà e dalla sua forza. La forza del forte non lo assicura.
L'unica sicurezza è il diritto di ciascuno a vivere, riconosciuto dall'altro. La sicurezza di ognuno è nell'altro. Rapita dal terreno comune e impugnata da una parte, come forza propria, la sicurezza si autodistrugge. Il diritto sottratto alla condivisione uguale, diventa succube della legge del caso.
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L'unità inestricabile dei nemici
Il duello mortale è insieme omicidio e suicidio. Solo il caso, l'istante, la superiorità materiale deciderà per ciascuno se è omicidio o suicidio. Somiglia molto all'attentato sui-omicida del kamikaze, dove la propria morte è l'arma per uccidere l'altro o gli altri. È arma invincibile, ma mentre vince si distrugge: il sui-omicida fa a se stesso ciò che gli vorrebbe fare il nemico. Mentre uccide il nemico è alleato del nemico, si fa nemico di se stesso. Come l'ape muore nel pungere. Pieno trionfo della morte contro la vita, della funzione sull'agente. La vittoria del vincitore è la vittoria del nemico.
Così il soldato, anche se uccide e vive, ha messo in gioco la propria morte per dare la morte all'altro. Scopriamo, al fondo della guerra, l'unità inestricabile delle vite, proprio perché la guerra pretende di essere la negazione di questa unità, e crede di affermare la vita qui, in me, negandola lì, in te, che sei accusato di volerla negare in me. Unità inestricabile delle vite, perché ognuna delle due vite nello scontro totale, è reciprocamente causa di morte e/o di vita per l'altra.
La guerra, nata dall'incapacità di vivere insieme, dimostra per paradosso l'indissolubilità delle vite. Col negare la con-vivenza, la guerra obbliga a con-vivere e con-morire.
Ernesto Balducci, nel 1981, scriveva sulle “tre verità di Hiroshima”. La prima verità: «Il genere umano ha un destino unico di vita e di morte» (La pace, realismo di un'utopia. Testi e documenti, Ediz. Principato, 1985, p. 4). È ormai anche una verità ecologica e economica. Col negare il diritto, col separare e opporre i diritti, la guerra dimostra “a contrario” che i diritti di ognuno, e di ogni parte dell'umanità, stanno solo insieme ai diritti altrui.
Come scrive Sergio Givone, a proposito di un impressionante omicidio razzista:
«La nostra vita è tutt’uno con la vita degli altri, in quanto è necessariamente in rapporto con essa. Fuori di questo rapporto, che cosa resta? Certo la vita degli altri può darci fastidio, esserci d’intralcio, a volte risultare insopportabile. Ma ciò non toglie che solo rapportandomi con il mio prossimo (e mio prossimo è chiunque io incontro sulla mia strada) mi sia dato di vivere (...). Piaccia o non piaccia la vita degli altri è la condizione perché ci sia anche la mia vita. (Il Messaggero, 14 dicembre 2011).
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Vince in guerra il fattore morale?
Obiezione: in guerra conta molto, per vincere, il coraggio morale, fondato su una giusta ragione. Si può obiettare così all'affermazione che la guerra dia ragione solo alla forza materiale. Il coraggio di esporsi, di soffrire e morire, dato dalla coscienza del proprio diritto, e soprattutto dalla coscienza del dovere di difendere le vite affidate a me, è una forza morale umana nobile, che può superare anche la forza soverchiante delle armi e della spregiudicatezza altrui.
La forza morale della ragione e della verità può superare nel confronto materiale quella forza materiale: Davide può prevalere su Golia. Ma non è l'aver ragione che assicura la vittoria militare. Il vincitore nella prova mortale non vince perché ha un maggiore e più giusto diritto. Mille altre volte un giusto Davide soccombe sotto i colpi di Golia, se lo affronta coi suoi mezzi. Non basta l'innocenza, nella prova tra due spade. Ma, nell'innocente ucciso da Golia, la ragione, il diritto, brillano di luce propria, non dello scintillare della spada. Il diritto è contraddetto dalla guerra, sua antitesi, ma non è cancellato. Chi sopravvive alla guerra è il diritto ignorato e offeso. La guerra dà torto alla ragione dell'innocente, ma la ragione dell'innocente sopravvive alla falsa ragione della guerra.
Né, d'altra parte, il diritto dell'innocente sarebbe affermato dalle armi: per caso, le armi lo difenderebbero, ma il diritto è indipendente dalle armi.
Chi vince, vince perché – con diritto o senza diritto – colpisce e uccide e distrugge più duramente dell'avversario. Anche l'eroe più coraggioso, che combatte per la causa giusta, può venire sconfitto, ucciso, e la sua causa può essere perduta (almeno sul momento). La guerra dà ragione alla morte, non dà la morte alle forze mortali.
La guerra usa la morte, non la ragione, come proclamò Salvador Allende - «Hanno la forza ma non la ragione» - nell'atto di accogliere liberamente la morte su di sé, senza riconoscere ai fuori-legge il diritto di ucciderlo e di prendere il potere.
Il generale Kutuzov ha le ragioni del diritto del suo popolo, ma vince su Napoleone solo perché si sottrae alla logica frenetica e impaziente della guerra, si apparta ai margini del campo, si allea con il tempo e con le circostanze (il generale Inverno), che sono mezzo uguale e imparziale, dato a tutti.
La sola regola che limita i “disastri della guerra” è l'uscita dalla guerra, l'alternativa alla violenza nel vivere i conflitti, senza eluderli.
Se la tua vita minaccia la mia, o viceversa, se la mia vita minaccia la tua, e noi adottiamo-accettiamo la regola per cui l'eliminazione della vita minacciosa sarebbe l'eliminazione della minaccia, e dunque difenderebbe la vita che ha diritto di vivere, allora la decisione del diritto è affidata a quella forza tra le due che è più mortale dell'altra, è affidata alla vittoria della morte. La morte detta il diritto. Ma è un diritto che toglie la vita.
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La guerra contraddice il diritto alla difesa
La decisione in guerra non è del diritto, ma della forza materiale.
Mors tua è anche mors mea. Dunque, davvero la guerra contraddice il diritto di tutti. C'è una contraddizione interna alla guerra, nei riguardi del diritto: o è per sopraffare, e allora è illegittima; oppure è per difendere, ma allora distrugge il diritto alla difesa eccedendo in offesa.
È possibile una difesa armata che non diventi offesa? È giusta prudenza la serratura alla porta, o anche i cocci di vetro sul muro del giardino, ma non un trabocchetto sulla soglia, o il cavo ad alta tensione per fermare alla frontiera i migranti. Non è l'arma stessa, se è letale, che ha natura di offesa? È comprensibile – anche per Gandhi - che la polizia sia dotata di “armi leggere” (espressione curiosa, un po' ipocrita, che richiede molte distinzioni), ma quanto eccezionale autocontrollo è richiesto agli agenti che se le trovano in mano!
Come dice Johan Galtung, vorremmo decidere politicamente il disarmo, proponendo la “difesa democratica”, cioè la difesa popolare nonviolenta, di cui l'ideologia violenta e gli interessi armisti continuano ad occultare la storia reale. Ma per decidere il disarmo non abbiamo i numeri, allora insistiamo per il transarmo, cioè il passaggio da un armamento offensivo ad un armamento di pura difesa (non solo nominale), che sia «strutturalmente incapace di aggressione» (come dicevano i pacifisti tedeschi negli anni '80, contro lo spiegamento dei missili) , e quindi dia sicurezza a questa parte senza creare insicurezza nell'altra parte, fonte di ossessivo inseguimento al superiore armamento.
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Ma esiste con le armi la pura difesa? Tolstoj propone come massima la regola evangelica «non resistere al malvagio (o al male)» (Matteo 5,39), che non è certo offrirsi come vittime (se intendiamo bene, nel contesto palestinese al tempo di Gesù, gli esempi successivi, dell'offrire l'altra guancia, dare anche il mantello, fare un miglio in più, che sarebbero vere tecniche di difesa nonviolenta e di denuncia: vedi Walter Wink, Rigenerare i poteri, discernimento e resistenza in un mondo di dominio, EMI, Bologna 2003), ma significa non entrare nel suo gioco, non opporre male al male, guerra a guerra, e invece – come svilupperà l'allievo di Tolstoj, Gandhi – scoprire e opporre alla violenza altre forze, non ad essa omogenee, inventare altre regole di difesa e di affermazione del diritto.
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Come ristabilire il diritto senza la guerra?
Per uscire dalla vittoria della morte – ammesso e premesso che la nostra scelta di fondo sia per la vita più che per la morte; più per la vita di tutti che per la morte di alcuni come condizione per la vita di alcuni – la soluzione del conflitto tra i diritti a vivere, sta nel resistere e nell'usare forze alternative alla guerra:
a) nel “resistere”, cioè tener fermo senza cedere e senza attaccare: resistere alla minaccia e alla violenza senza entrare nel loro gioco, nel quale ragione, diritto, verità sono sconfitte in partenza, vendute alle ragioni della forza materiale; per Tommaso d’Aquino c'è più forza nel resistere fermi nel pericolo che nell'aggredire: «Principalior actus fortitudinis est substinere, idest immobiliter sistere in periculis, quam aggredi» (Summa Theologica, IIa, IIae, q. 123, art. 6).
b) nell'affidare il confronto conflittuale a forze diverse e alternative a quelle distruttive che la guerra usa; cioè, affidarsi alle armi della forza umana: capacità di soffrire per la giustizia, di stare uniti nell'essenziale; capacità di comunicare le ragioni della giustizia; capacità di risvegliare l'umanità comune nell'avversario, il quale, facendosi nemico, ha sepolto ma non ha perduto quella umanità comune. Una società priva di queste capacità è indifesa davanti al tiranno come davanti al nemico.
La prima di queste forze umane, che sono superiori alle forze armate perché possono essere di tutti, e possono rendersi invulnerabili più di Achille, è la coscienza: quando non collabora alla violenza e disobbedisce al comando umanamente ingiusto, essa è l'ostacolo massimo alla prepotenza, perché questa ha bisogno di collaborazione. La disobbedienza civile estesa rende troppo costoso il dominio ingiusto. Non è solo appello alla morale del tiranno, ma pressione sulla sua convenienza.
Infatti, il potere dipende dall'obbedienza. Ogni potere degli uni sugli altri consiste in definitiva nell'essere obbedito (Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta, 3 volumi, vol 1, cap. 1, Ega, Torino 1986 e anni seguenti). Disobbedire al potere, molti insieme (ma anche cominciando da uno solo), e con costanza, e pagandone lealmente il prezzo, distrugge il potere senza dover colpire gli uomini del potere nella vita e nei loro diritti umani. La coscienza libera, consapevole e coraggiosa, condiziona il potere senza usare violenza.
Una analoga profonda teoria pratica sulla resistenza al potere ingiusto è quella di Vaclav Havel, Il potere dei senza potere (Garzanti, Milano 1991; l'originale in samizdat risale al 1978). Ne dava un'ampia sintesi Giovanni Salio in Il potere della nonviolenza (Ediz. Gruppo Abele, Torino 1995, pp. 16-23). Per Havel il potere dei senza potere si fonda sulla «vita nella verità», che ha valore di vera forza politica, opposta alla «vita nella menzogna» imposta e pretesa da ogni potere totalitario. I movimenti così ispirati «non puntano alla trasformazione politica violenta, e non perché considerino questa soluzione troppo radicale, ma, al contrario, perché è poco radicale» (p. 70). Questa forma di azione politico-morale consiste nel «seminare pazientemente il grano, annaffiare assiduamente la terra che lo ricopre e concedere alle piante i loro tempi» (p. 42).
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La nonviolenza non funziona dove non c'è.
Se si regge il conflitto (giusto nel fine e nei mezzi) e lo si gestisce coi mezzi umani che non distruggono l'umano, si può vedere affermata la propria causa, ed è un successo. Oppure si può perdere, ma sarà garantito il fine superiore in ogni conflitto, che è il mantenimento e la tutela dell'umano, per tutto quanto dipende da noi.
Se l'umano si è mantenuto e affermato, pur perdendo l'obiettivo particolare di quel determinato conflitto, l'obiettivo maggiore in ogni vicenda è ottenuto, è affermato. Come scrive Michael N. Nagler: «La nonviolenza a volte funziona, non sempre, ma è sempre efficace. La violenza a volte funziona, non sempre (è sicuro che uno dei due armati perde, e anche il più forte non lo è per sempre) ma non è mai efficace» (Per un futuro nonviolento, Ponte alle grazie, Milano, 2005, p. 131-132).
Nagler fa un esempio tra altri: nel lager di Auschwitz, sistema finalizzato a disumanizzare, l'umanità dei deportati fu sorprendentemente salvata quando padre Kolbe offrì la propria vita per salvare quella di un padre di famiglia. Un testimone oculare riferisce: «Fu uno choc enorme per tutto il campo (…). Quindi non è vero, ci dicemmo, che l'umanità è persa e calpestata (…). Migliaia di prigionieri si convinsero che il mondo reale continuava ad esistere e che le torture che subivamo non sarebbero bastate a distruggerlo (…) La morte di padre Kolbe rappresentava la salvezza di migliaia di persone» (Patricia Treece, A Man for Others, San Francisco, Harper and Row, 1982, p. 178). L'efficacia è intesa da Nagler come quella fecondità profonda e duratura che trasmette nel futuro elementi di umanità libera e giusta.
La nonviolenza sicuramente non funziona dove è pura astensione dal fare violenza; dove non è attiva e autentica, ma è la posizione del debole o del vile; dove non è mai sperimentata e preparata: questo è il caso delle politiche degli stati, che ostinatamente non la sperimentano, non vogliono neppure conoscerla davvero, decidendo a priori (e regalando grandi utili ai grossi armaioli) che solo la violenza funziona.
Come scrive il filosofo Muller: «Ora, bisogna ben riconoscerlo, quelli che affermano la necessità della violenza, generalmente non hanno mai provato la nonviolenza. Una cosa è dire: bisogna ricorrere alla violenza il meno possibile; altra cosa è dire: bisogna ricorrere alla nonviolenza il più possibile. Se l’uomo non si prepara a mettere in atto i mezzi dell’azione nonviolenta ogni volta che è possibile, allora la violenza sarà ogni volta necessaria. Non si può fare davvero risparmio di violenza se non facendo risolutamente la scelta della nonviolenza. Il risparmio di violenza non è possibile che nella dinamica della nonviolenza». (Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus, Pisa University Press, 2004, p. 296).
Un'ampia bibliografia storica di lotte nonviolente – ciò che è fatto è possibile - si trova in rete sotto il titolo Difesa senza guerra
Uno studioso e docente specializzato segnala di recente: su 323 rivoluzioni del secolo XX, quelle nonviolente sono state un centinaio e hanno avuto successo al 53%; quelle violente, invece, al 26%. Nel periodo 1975-2002, sono state 47 le rivoluzioni nonviolente o per lo più non violente; su 18 condotte da forze nonviolente e coese, 17 hanno vinto e una sola ha avuto un successo parziale. (Da Antonino Drago, Le rivoluzioni nonviolente dell'ultimo secolo, Ediz. Nuova Cultura 2010. La fonte della prima percentuale è lo studio su International security, Stephen e Chenoweth Why civil resistance work, 2008 che si trova anche su google. La fonte della seconda è lo studio di A. Karatnycky e P. Ackerman How Freedom is won, Freedom House 2005).
È possibile, viste anche le esperienze più recenti, che stia crollando nei fatti il mito della violenza rivoluzionaria risolutiva. La violenza, militare e strutturale, rimarrebbe prerogativa dei poteri oppressivi.
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La legge italiana 8 luglio 1998 n. 230, “Nuove norme in materia di obiezione di coscienza”, art. 8, lettera e), dispone che l'Ufficio nazionale per il servizio civile ha il compito di «predisporre, d'intesa con il Dipartimento della protezione civile, forme di ricerca e di sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta». Questo impegno non è mai stato veramente attuato. Con la sospensione della leva, con l'esercito professionale volontario, e, di conseguenza, la scomparsa della diretta obiezione di coscienza personale, il servizio civile è diventato volontario, ed è assai poco sostenuto dalla politica.
Ma resta valido il principio stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 164/1985, la quale interpreta l'art. 52 della Costituzione chiarendo che la difesa della Patria può esplicarsi attraverso una difesa armata o attraverso una difesa non armata, svolta mediante «prestazioni personali di portata equivalente, riconducibili anch'esse all'idea di difesa della Patria», con un servizio civile alternativo a quello militare per motivi di coscienza (cfr Rodolfo Venditti, L'obiezione di coscienza al servizio militare, terza edizione, Milano, Giuffré 1999, pp. 87-88) .
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La scelta dei mezzi nonviolenti è un atto di fede nella qualità umana che non è solo violenta, né solo nonviolenta, ma è sempre ricuperabile ai modi non distruttivi; è una scommessa più alta del sospetto, della condanna, della stretta visione della necessità. Robert Musil: «Se esiste il senso della realtà, ci deve essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità». Come ogni atto di fede, di affidamento, comporta un rischio. Ma è rischio maggiore tentare di condurre il conflitto sul piano umano, delle forze e risorse umane, oppure abbandonarlo al confronto fra capacità mortali di mezzi e volontà omicide?
Conflitto non è sinonimo di guerra: fanno parte della vita e della sua crescita i conflitti costruttivi. È guerra il conflitto che diventa distruttivo. La regola del conflitto, che lo preserva dal degenerare in guerra, è l'arte di vivere, nella pluralità dei modi di vivere: un'arte da esercitare con tutti i suoi rischi di incertezze, errori, smarrimenti, e con tutte le sue possibilità di correzione, ripresa, ricerca.
Non la tua morte è la mia vita, ma la vita di ognuno è necessaria alla vita dell'altro. Il diritto essenziale alla vita è comune e uguale in tutti, pur variando nelle forme particolari, secondo le diverse condizioni e bisogni personali.
Sappiamo di non essere capaci di realizzare nell'immediato e sempre una linea nonviolenta di gestione dei conflitti. Ma cominciamo almeno – prima regola logica – a disonorare la guerra, a vedere l'oscenità delle armi, perciò a proibirci come un tabù, in difesa della vita umanamente degna, ogni festa delle armi, stolta come quella ancora celebrata in Italia il 4 novembre anniversario di una vittoria, che generò anche militarismo e dittatura. E passiamo a non fondare l'eco-nomia – regola per vivere nella casa – sulla produzione di armi, capaci solo di far morire, e far profittare alcuni sulla morte di altri, ciò che smembra la casa umana.
E procediamo subito a vedere le radici della insensata violenza bellica nelle violenze strutturali – disparità economiche gigantesche, sfruttamento del lavoro e dei corpi stessi umani, discriminazioni giuridiche, sociali e psicologiche, imprese finanziarie terribilmente speculative, pagate dai popoli - e nelle violenze insediate nelle culture che giustificano con falsi principi il diritto totale degli uni sugli altri. Senza risalire a queste radici profonde, non si sterilizza la malapianta della guerra.
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Dobbiamo riconoscere che può esserci bisogno di tempo e gradualità, ma altrettanto di urgenza e di stimolo chiaro e forte per la regolazione della guerra. E tuttavia questo processo, negli spiriti e nelle convenzioni sociali, deve andare verso la sua semplice eliminazione. Si regola l'omicidio col non uccidere. Il punto da sradicare, per questa evoluzione umanizzante, è l'ideologia della fatale naturalità della guerra, uso della morte organizzato e istituzionalizzato.
Una tale visione disperata e fatalistica sulla nostra umanità fa precipitare il confronto tra le nostre differenze, anche preziose, nella impotenza a reggerle e nella folle spinta alla eliminazione delle differenze con l'eliminare il differente.
L'uso organizzato e istituzionalizzato della morte sa di essere una vergogna umana, e ricopre le proprie pudenda con foglie di fico strappate dall'albero dei frutti più buoni: la difesa della vita, l'affermazione del diritto. Col giustificarci, confessiamo di aver bisogno di giustizia, sappiamo di non essere giusti. Il vizio rende omaggio alla virtù, rivestendosi di virtù.
La guerra confessa la sua negazione del diritto alla vita, quando piega il diritto positivo a vestire di giustizia il proprio preteso diritto di uccidere. Si tratta di un diritto preteso e non di uno stato di necessità. Soltanto l'uccidere chi sta in quel momento per uccidere altri, se non c'è assolutamente altro mezzo per fermarlo, può essere atto giustificato, e può essere persino un dovere (anche secondo Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, p. 69-71. Si veda anche un inedito di Giuliano Pontara, che uscirà nel 2012, sulle concessioni di Gandhi ai casi di necessità della violenza).
Invece, nel caso della guerra, l'omicidio è previsto da lontano, preparato freddamente, istituzionalizzato, normalizzato, persino onorato e idealizzato, tanto da rendere necessaria l'occasione per far funzionare tutto questo meccanismo scientifico-culturale-economico-militare: una molla caricata, che deve scattare per tornare a riposo. Vediamo sempre più che l'istituzione della guerra è incompatibile con la società umana.
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La guerra come fonte di diritto
Ma la guerra sarebbe non antitesi, bensì fonte di diritto. Essa cambia le cose, fonda un diritto. Sì, ma quale diritto? Il diritto del vincitore, quello posto-imposto, non concordato liberamente tra soggetti pari, o quasi pari nei diritti e nella forza. La pace-frutto-di-guerra, lo stato di cose deciso dalla guerra è un patto leonino.
La guerra (di per sé, salvo l'influenza di altri fattori) produce la “pace d'impero”, che è la peggiore forma di pace, secondo Aron e Bobbio (Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino 1997, pp.136-138), la più lontana dalla pace di soddisfazione, e anche dalla pace giusta e dalla pace di equilibrio.
Impero, dominio, sono semplicemente altri nomi della guerra, dell'offesa, in forma statica, stabilita, legittimata, anche a danno dei diritti innati dei soggetti viventi, persone e popoli.
Il diritto stabilito dalla guerra ha base nella regola della vittoria, non del patto, non della ragione, non del riconoscimento. La regola della vittoria, il diritto del vincitore, è cieco, come il terremoto e il cataclisma. Appartiene non al mondo umano in via di umanizzazione, ma al mondo delle forze fisiche inanimate, governate dalla necessità fisica. Così sarebbe un male innocente. Invece, volontà umane dissociate dall'umanità, usando quelle forze cieche che sono le armi omicide, dando occhi e mira a quegli strumenti innocentemente mortali, si sono fatte serve della morte contro la vita.
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Quanti codici di leggi sono nati così, dalla vittoria materiale sul diritto umano! E se avesse vinto Hitler? Secondo una lettura paradossale, ma non assurda, in qualche modo ha vinto Hitler. Ho raccolto questa opinione in sei autori che meritano ascolto, e almeno altri tre potrei ora aggiungerne (nel libro Dov'è la vittoria? Piccola antologia a aperta sulla miseria e la fallacia del vincere, Gabrielli editori, Verona 2005, pp. 67-70). Il progetto hitleriano di dominio sterminista e imperiale è stato interrotto dalla guerra delle democrazie, per nostra fortuna, ma l'apparato di armi di distruzione di massa è stato ereditato, ingiustamente usato su due città abitate, (che non erano obiettivi militari, ma si prestavano per le buone condizioni meteorologiche), ed è stato ultrasviluppato ingiustamente dai paesi che giustamente lo hanno impedito a Hitler.
Poi la coscienza umana, resistente e rinascente dai suoi propri errori, è stata capace di abbozzare quel diritto cosmopolitico, e quella tavola dei diritti umani, che è stato un momento alto di risveglio dopo la vergogna che la guerra è per tutti, chi la promuove e chi vi è costretto. In quel diritto di pace e dignità, che è istituito nell'Onu, tuttavia, era ed è ancora insediato il diritto di guerra, che attribuisce ai vincitori della guerra una parte privilegiata, fino al veto, nelle decisioni che riguardano tutti i popoli dell'unica umanità. Inoltre, siamo stati capaci solo in piccola misura di porre nella realtà effettiva dei rapporti tra le persone e tra i popoli i principi del 1948. È nostro compito e dovere, debito verso la storia umana e i posteri, come studiosi, come affidatari, in questo tempo, del mondo che appartiene ai posteri, come operatori nella società, è nostro compito e onore tenere sempre vivo il pensiero e la tensione a sviluppare nei fatti il diritto di pace. Il diritto dichiarato non è ancora realizzato, ma non è poca cosa averlo dichiarato: è l'idea che guida il fatto; è il proposito che impegna l'azione. Dal dire al fare c'è di mezzo il mare: ma senza il dire non puoi neanche partire. Non irridiamo l'attuale impotenza dell'Onu, del diritto cosmopolitico di pace: non averlo scritto davanti agli occhi sarebbe peggio.
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Invece, la legge che ricalca la volontà del vincitore della guerra chiama diritto ciò che è storto, chiama giusto ciò che è ingiusto.
Se si vuole che la legge limite della guerra sia efficace, deve valere per tutti, altrimenti è vera guerra condotta con le armi giuridiche; altrimenti non è legge che impegna tutti nella coscienza civile della convivenza; altrimenti, per il meccanismo di inseguimento verso l'alto nel rapporto maggiore-minore (si vedano gli studi di Pat Patfoort, per esempio Difendersi senza aggredire. La potenza della nonviolenza, Ega, Torino 2006), non fa altro che spingere chi è meno fornito di capacità minacciosa a rendersi più minaccioso.
Ora, gli stati nucleari impediscono ad altri stati di dotarsi di armi nucleari, senza denuclearizzarsi essi stessi: c'è al mondo una cosa più di questa contraria al diritto? La “casta” nucleare, o comincia a dimettersi rapidamente dalla condizione di pericolo pubblico numero uno, oppure, col suo stesso essere, incita altri a farsi ancora più pericolosi. La paura e la follia corrono insieme, incitate dall'arroganza. L'arroganza, tracotanza, ubris, sono nomi di tutto ciò che nega in radice il diritto.
Gli Stati Uniti d'America sottraggono i loro cittadini al TPI (Tribunale Penale Internazionale), mentre impongono ai non-statunitensi il Patriot Act (come osserva Luigi Bonanate, Unidicisettembre, Bruno Mondadori, Milano 2011, p. 142). La loro politica governativa e i loro soldati compiono violazioni come Guantanamo, crimini come Abu Ghraib, rapimenti e uccisioni senza la minima garanzia processuale, e sono sottratti al giudizio dell'umanità.
Ho citato solo, en passant, lo stato visto ancora come modello di valori umani e politici, e di sviluppo, per tacere di tanti altri comportamenti dei poteri politici ed economici nel mondo, compreso il nostro paese, che spreca in pericolose spese militari, che non fa politica attiva di pace, che partecipa a guerre chiamate pace, che manipola l'interpretazione del suo art. 11 costituzionale, del quale potrebbe vantarsi nel mondo, e così offende il diritto con la fede ostinata nei mezzi della guerra.
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La volontà di potenza, l'idea della prevaricazione del mio diritto-forza sul diritto-dignità dell'altro, è presa di potere sulla libera volontà e sulla vita dell'altro.
La volontà di potenza non di regole si attornia, ma si dota di strumenti sempre più potenti. Siamo arrivati alla potenza nucleare, accumulata in migliaia di ordigni depositati, pronti all'uso. Solo calcolo e paura, e forse un estremo fragile ritegno, tengono chiusi per ora quei depositi. Ma gli effetti fisici, morali, politici, gli effetti sulla concezione dell'esistenza e della vita umana, si sono dispiegati in abbondanza.
Così, vediamo ora che la competizione economica, essa stessa una forma di guerra senza regole tra le volontà di potenza, esaurisce la natura, cioè il corpo vivo comune a tutte le specie viventi, distrugge anche le possibilità di scambio e cooperazione utile e vantaggiosa dei beni vitali e migliorativi della vita, tra le diverse parti dell'unico popolo umano planetario.
Lo scambio economico, da strumento per la vita, si è fatto campo di battaglia contro le vite, succhiate, sfruttate, calpestate, dimenticate, ridotte a strumento dello strumento. La macchina, potenziata oltre limiti gestibili, è impazzita e travolge imbizzarrita chi credeva di poterla condurre ai propri fini.
Non ci sarà diritto di pace finché ci sarà logica e strumentazione di guerra: le armi; gli eserciti permanenti e pervasivi, che Kant vedeva pericolosi per la loro sola esistenza. La guerra, infatti, si arroga un diritto assoluto, teocratico, di vita e di morte. È il diritto padronale di un dio nemico, idea superata e negata dal più puro spirito religioso, nelle più elevate tradizioni spirituali. Per ragioni diverse e concomitanti, devono rifiutare questa pretesa della guerra, le persone religiose come le persone non religiose: le prime perché Dio non è così, le seconde perché nessuna pretesa può farsi così assoluta.
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Non ci sarà liberazione da quell'aggiunta di dolore che è la guerra, e ogni altra violenza, ai dolori già insiti nella vita, fino a quando l'orientamento della cultura della società non sarà rivolto al ripudio della volontà di potenza, della gara a prevaricare.
La volontà di potenza ripudia la vita libera e giusta di tutti, fino a quando la vita di tutti non ripudia la volontà di potenza, il cui segno più mastodontico, e l'effetto più pesante, è la guerra, e l'ideologia della sua fatalità insuperabile.
Il diritto – diciamo pure con orgoglio italiano, l'irriducibile art. 11 della nostra Costituzione – è l'antitesi della guerra, perché la guerra, nei suoi fondamenti ideologici e strutturali, è l'antitesi del diritto.
Enrico Peyretti
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