La Nato bombarda un'ospedale afgano a Kunduz? Déjà vu.
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Errore? Rischio calcolato? Atto deliberato?
Il governo afghano ha “giustificato” il bombardamento da parte della Nato di un ospedale di Médecins sans frontières a Kunduz in questo modo: “Lì si nascondevano dieci talebani”. E’ una confessione di crimine.
Infatti, le convenzioni internazionali vietano di colpire strutture civili (ospedali, acquedotti, centrali elettriche, quartieri residenziali…), anche quando vi si annidino i nemici armati di chi colpisce.
Quello a Kunduz è, dunque, un crimine di guerra.
Dal canto loro, la Nato e gli Stati uniti – che aprono un’inchiesta ma non si scusano – dichiarano: “Potrebbe essere stato danneggiato un ospedale in un’operazione contro talebani che minacciavano le truppe della coalizione”. Ma siccome nel bistrattato diritto internazionale la protezione dei civili assume carattere assoluto, anche in questo caso si tratta dell'ammissione di un crimine di guerra: perché nemmeno insediamenti militari si potrebbero colpire, se nelle vicinanze o al loro interno sono presenti civili.
Altre due osservazioni:
1) è certo che nessuno, fra i colpevoli ai diversi livelli della catena di comando ed esecuzione, pagherà per la strage con il carcere: decine di casi lo comprovano. Al massimo ci sarà un risarcimento danni, di un ammontare offensivamente basso per le vittime di nazionalità afghana: decine di casi lo comprovano;
2) la giustificazione data è che i talebani (frutto avvelenato Made in USA, in ogni caso) minacciavano le truppe Nato. Dunque la Nato protegge solo se stessa?
Sì, la Nato protegge solo se stessa. E protegge i suoi occasionali alleati armati sul campo. Come durante l’operazione Unified Protector che nel 2011 ha liquefatto l’ex Jamahiriya libica. La Nato assediò dal cielo la città di Sirte colpendo anche un ospedale. A che scopo? Non certo per proteggere i civili, anche se questo era il surreale compito affidato dall’Onu all’Alleanza atlantica. Infatti, i civili a Sirte erano pro-Gheddafi e quindi non erano minacciati dalle truppe libiche residue che a Sirte avevano cercato rifugio. Sirte fu attaccata dalla Nato invece – e per quasi due mesi – per proteggere, non i civili della città, ma l’avanzata dei miliziani a terra che li assediavano. Andrebbe ricordato, peraltro, che nel 1999 e quindi sotto Gheddafi, la città di Sirte fu luogo di nascita dell’Unione africana e con essa la speranza di auto-emancipazione per il continente. Ora è in mano a Daesh (l'ISIS). Un progresso?
Durante una delle conferenze stampa Nato in contemporanea a Napoli e a Bruxelles, nel mese di ottobre 2011, chi scrive chiese al colonnello canadese Roland Lavoye : “Da Sirte hanno denunciato che la Nato, bombardando vicino a un ospedale, lo abbia colpito facendo dei feriti”. Risposta di Lavoye: “Ah, ma Lei lo sa chi c’era vicino all’ospedale? Le truppe di Gheddafi!”
Anche a prendere per buona questa versione, si tratta di un’ennesima autodenuncia di crimine: perché le convenzioni di Ginevra, in ogni caso, impediscono di prendere il rischio di colpire civili per non causare i famosi “effetti collaterali”. Se, appunto, bombardando da diecimila metri c’è questo rischio, è meglio desistere. Ma in Libia non hanno mai desistito, e nemmeno altrove.
Nel 2001, in Afghanistan, gli aerei Usa colpirono la sede della Croce rossa internazionale a Kabul. Per sbaglio? Per assunzione di rischio? Ma nessuno nemmeno si scusò.
Nel 1999 durante l’operazione Nato contro la Serbia-Montenegro furono colpite le fabbriche chimiche di Pancevo, con il rischio di una strage nella città . Nessuno pagò.
Invece nel 1991, nel corso dell'Operazione Tempesta del deserto a Baghdad, gli aerei della coalizione internazionale (occidentale e araba), capitanata dagli Usa, colpirono infrastrutture civili – ma non per errore e non per un rischio calcolato.
In quel caso fu deliberato. L’Iraq doveva essere riportato all’era preindustriale, come dichiarò l’allora segretario di stato americano, James Baker. La punizione doveva essere selvaggia, per chi aveva osato sfidare gli interessi petroliferi dell’Occidente e quelli dei loro alleati nel medio-oriente, il cui stile di vita, basato sul petrolio, non era (e non è) negoziabile.
A molti lettori può sorprendere questa ricostruzione di avvenimenti del nostro passato recente, tutti così simili al bombardamento NATO di un ospedale afghano a Kunduz avvenuto il 3 ottobre scorso. “Ma quando mai la NATO avrebbe attaccato in passato infrastrutture civili e segnatamente ospedali, in totale disprezzo della Convenzione di Ginevra?,” questi lettori si saranno chiesti. “E inoltre, se questa ricostruzione è vera, perché non eravamo stati informati di tutti questi fatti all'epoca?”
L'autrice di questa ricostruzione sa, per esperienza diretta, la risposta alla seconda domanda. Ha potuto osservare, durante le conferenze stampa a Napoli nell'ottobre 2011, come i giornalisti italiani – di tutte le testate – rimanevano muti a registrare fedelmente qualunque dichiarazione fornita dal colonnello di turno o erano semplicemente assenti, accontentandosi delle affermazioni riportate nei documenti forniti dalla NATO prima della conferenza.
Già nel 2010, peraltro, Carlo Gubitosa, della redazione di PeaceLink, aveva denunciato questa decadenza del giornalismo italiano in un celebre editoriale: oggi come oggi, egli scrisse, un giornalista, per sopravvivere, deve “soffocare per sempre l'istinto selvaggio e incontrollabile di fare domande e di cercare risposte.”
Perciò la vera novità in quest'ultimo orrore avvenuto a Kunduz il 3 ottobre è che finalmente se ne parla, subito e abbondantemente. Washington non ha imposto il bavaglio. Un cambio di tattica o il pre-annuncio di una svolta: dopo 14 anni, il ritiro vero – e non più fittizio – dall'Afghanistan?
– PB
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