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Parigi dopo il terrore

"Non ci fate paura!" (E' una menzogna naturalmente.)

Il giorno dopo l'attentato, Parigi era vuota, come deserta. Quasi nessuno sente il bisogno di uscire in strada contro il terrore. Tutti lo sanno: la nuova certezza è che non siamo più al sicuro.
14 dicembre 2015
Traduzione di Barbara Pozzi
Tradotto da per PeaceLink
Fonte: Martina Meister, Die Welt, "Uns macht ihr keine Angst – Das ist natürlich gelogen", © WeltN24 GmbH 2015 - 15 novembre 2015

Nota sull'articolo dal Welt: "Non ci fate paura!..."

Pubblichiamo il reportage tedesco che segue – scritto dalla corrispondente da Parigi del Welt subito dopo l'attentato del 13 novembre – perché la consideriamo un buon esempio dell'enorme manipolazione dell'opinione pubblica che i mass media in tutto l'Occidente – e quindi non solo a Parigi – hanno condotto dopo quella notte da incubo.

La manipolazione consiste nell'impedire che noi prendiamo coscienza di quello che sta dietro i tragici eventi, riempendoci la mente e il cuore con sentimenti di odio verso i musulmani (nel caso dei giornali della destra come
questo), oppure, come nel caso del presente reportage, con sentimenti di fierezza e di determinazione di resistere.

Va considerato fuorviante questo pur nobile richiamo alla resistenza, con tanto di Marsigliese sul sottofondo, perché esso ha uno scopo manipolatorio preciso e inconfessato: distrarre la nostra attenzione dalle vere responsabilità del governo, che vanno ben al di là delle manchevolezze sul piano della sicurezza.

Perciò l'articolo – proprio perché fa parte di un disegno complessivo di proteggere i responsabili – purtroppo lascia che le cose rimangano come prima e quindi che il ciclo della violenza continui a ripetersi.

Vedi a questo proposito l'editoriale di PeaceLink, scritto ad un mese dagli avvenimenti, “Il silenzio perdura”, 14-12-2015, di Patrick Boylan, visibile qui.
 

Die Menschen in Paris versammeln sich auf den Straßen, um sich gegenseitig beizustehen und Stärke zu beweisen. Sie wollen nicht in Panik und Angst versinken. Niemand will hier den Terror gewinnen lassen.

Qualcosa è cambiato da questo 13 novembre. Per noi qui a Parigi, certo, ma anche per la comunità mondiale. Tre giorni di lutto nazionale non saranno sufficienti per abituarsi a questa nuova vita. Bataclan, il nome della sala da spettacolo dipinta a colori vivaci, d'ora in poi rimarrà sinonimo di un terrorismo che le ha cambiato volto. Questo Venerdì 13 nero è il nostro nuovo "11/9".

 Gli attacchi di gennaio, il massacro dei redattori di "Charlie Hebdo" e la presa degli ostaggi nel supermercato kosher, li abbiamo già sentiti come un taglio netto, come una brutta cesura. Perché questo terrore non era cieco, ma molto mirato. Gli uomini dovrebbero essere "puniti". Alcuni di loro, perché hanno disegnato Maometto; altri perché erano di fede ebraica o che si sono messi sulla strada degli attentatori come poliziotti. La Francia, la società mondiale era sgomenta.

Quella stessa sera, migliaia di persone si sono riunite presso la Place de la République a Parigi per esprimere il proprio dolore e la propria solidarietà. L'11 gennaio, c'è stato il più grande raduno dopo la liberazione di Parigi. Non era una manifestazione, ma una
processione silenziosa e dignitosa. "Je suis Charlie." Tutti erano Charlie. Il mondo intero.

O quasi.

Si trattava dei nostri valori che volevamo difendere e per i quali ci siamo riversati sulle strade. Volevamo mantenere il nostro volto umano di fronte al terrore e dire ai terroristi: noi siamo la maggioranza. Non andrete lontano con l'assurda giustizia fai-da-te del vostro auto-dichiarato Stato del terrore. Non qui da noi. Non con noi. Non nel nostro nome.

Questo sentimento di solidarietà con le vittime non si lascia richiamare questa volta. Chiaro e semplice, perché possiamo e dobbiamo identificarci con loro. Poteva succedere a noi, avremmo potuto essere noi. Dovevano morire perché erano nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Perché volevano passare il tempo in una notte di venerdì come migliaia o milioni di altre persone, divertirsi, sedersi con gli amici o ascoltare musica. Perché sono andati davanti al Bistrò a fumare una sigaretta. Solo perché volevano sentire il metal, come si è espresso qualcuno che ha perso un amico nel Bataclan.

Non possiamo essere meramente “solidali”, perché eravamo noi stessi e le nostre vite i bersagli voluti. Per gli attentatori e bombardieri di Madrid e Londra si trattava della massa. Il loro obiettivo era quello di colpire il maggior numero possibile di persone. Questa volta si combinano entrambi: la casualità della massa con il valore simbolico dell'attacco contro "Charlie Hebdo".
Si tratta del nostro stile di vita. Prima si poteva morire perché ci si era seduti sul treno sbagliato, nella metropolitana sbagliata, sull'aereo sbagliato. Ora bisogna chiedersi se si può continuare ad andare al cinema, a un concerto, al ristorante o allo stadio.

Stranamente i parigini, questa volta, non hanno avvertito il bisogno di riversarsi in massa sulle strade. Il giorno dopo l'attentato, Parigi era vuota, come deserta. I musei, i teatri, molti negozi erano chiusi. C'era la direttiva di non lasciare inutilmente l'appartamento. Tuttavia sono stati deposti fiori sui luoghi del disastro. La gente che si è riunita sabato sera sulla Place de la République, è stata rimandata a casa da poliziotti amichevoli. Si poteva accendere candele, raccogliere messaggi, ma non ci doveva essere nessun assembramento di massa.

"Même pas peur" si può leggere su alcune foglietti o messaggi di condoglianze, come a gennaio. Non ci fate paura. Ma questa è una bugia, naturalmente: se il governo proclama lo stato di emergenza e il divieto di adunanza, allora è perché ha paura. Perché dobbiamo avere paura. Perché non è ancora finita e non finirà così presto. Non importa quanto forte e decisa risuoni la dichiarazione di guerra dalle bocche dei politici ai vertici dello Stato. Ci hanno
dichiarato guerra. Ma essa viene condotta con armi terribilmente impari.

Non ci potrà quindi essere nessuna marcia come l'11 gennaio. Nessuna solidarietà con la polizia e i militari, il cui compito è quello di proteggere i cittadini. La nuova certezza è che non siamo più al sicuro. Parte del nostro nuovo sentimento della vita sarà che il governo non ci potrà proteggere. Siamo in tanti, ma siamo un bersaglio facile. Ci possono colpire e uccidere dovunque vogliono.

Ciò avrà anche conseguenze sul clima politico in Francia.  La prima volta (Charlie Hebdo), Hollande ha avuto fortuna nella sfortuna. Egli poteva crescere nella crisi, improvvisamente ha esercitato le sue funzioni. Ha fatto una bella figura sia a livello politico che umano. Questa volta non ci sarà quest'eccezionale fenomeno concomitante positivo per lui. Anzi. Questa volta deve accettare la domanda perché i servizi segreti non hanno saputo evitare un attacco di diversi gruppi così coordinato.

Gli esperti dicono che non esiste il rischio zero. Ma tutti gli sforzi dopo "
Charlie Hebdo "di rafforzare la cooperazione dei vari servizi, di istituire un punto di raccolta centrale, di mettere a disposizione più soldi, più manodopera, non sono bastati per impedire il massacro di Parigi. In altre parole: nonostante l'annuncio che gli attacchi nel mese di gennaio fossero solo l'inizio, il governo è stato impotente, incapace di proteggere i propri cittadini. È come se, così si è espresso lo scrittore e sociologo Jean-Pierre Le Goff, "il patto fondamentale che lega il cittadino allo Stato," si fosse "improvvisamente spezzato". E’ come se lo Stato ci avesse lasciato un senso di insicurezza esistenziale.

Questa situazione la saprà
sfruttare anche Marie Le Pen. Il Fronte Nazionale, che si mostra come l'unica alternativa all'establishment politico, potrebbe conquistare le prime regioni alle elezioni all’inizio di dicembre. Le Pen vuole vendere ai francesi l'illusione che ci può essere una Francia che chiude i suoi confini, che esce dall'Europa e lascia fuori il mondo malvagio. La ferita che la Francia ha subito in questo 13 novembre darà motivo ad ancora più persone di credere in questa visione nostalgica del mondo.

E' bello vedere che sono comparsi i colori della Francia sugli edifici, sui parlamenti, sui teatri d'opera di tutto il mondo. Sono buoni tutti i profili di Facebook blu-bianco-rosso su Facebook della gente in tutto il mondo che ora dice: Noi siamo Parigi. Ma non basta più per dare conforto, perché è così terribile scorrere le foto di coloro di cui si è sentita e si sentirà la mancanza. Chi guarda nei loro occhi, sa che lui stesso è una delle vittime volute.

Sulla Place de la République, qualcuno ha lascito le parole di Victor Hugo: "Osare, offrire la fronte, perseverare, resistere, rimanere fedeli a se stessi, chiudere il destino tra le braccia, sorprendere il disastro con la poca paura che ci fa."

 

 

Qualcosa è cambiato da questo 13 novembre. Per noi qui a Parigi, certo, ma anche per la comunità mondiale. Tre giorni di lutto nazionale non saranno sufficienti per abituarsi a questa nuova vita. Bataclan, il nome della sala da spettacolo dipinta a colori vivaci, d'ora in poi rimarrà sinonimo di un terrorismo che le ha cambiato volto. Questo Venerdì 13 nero è il nostro nuovo "11/9".



Gli attacchi di gennaio, il massacro dei redattori di "Charlie Hebdo" e la presa degli ostaggi nel supermercato kosher, li abbiamo già sentiti come un taglio netto, come una brutta cesura. Perché questo terrore non era cieco, ma molto mirato. Gli uomini dovrebbero essere "puniti". Alcuni di loro, perché hanno disegnato Maometto; altri perché erano di fede ebraica o che si sono messi sulla strada degli attentatori come poliziotti. La Francia, la società mondiale era sgomenta.



Quella stessa sera, migliaia di persone si sono riunite presso la Place de la République a Parigi per esprimere il proprio dolore e la propria solidarietà. L'11 gennaio, c'è stato il più grande raduno dopo la liberazione di Parigi. Non era una manifestazione, ma una processione silenziosa e dignitosa. "Je suis Charlie." Tutti erano Charlie. Il mondo intero. O quasi.

Si trattava dei nostri valori che volevamo difendere e per i quali ci siamo riversati sulle strade. Volevamo mantenere il nostro volto umano di fronte al terrore e dire ai terroristi: noi siamo la maggioranza. Non andrete lontano con l'assurda giustizia fai-da-te del vostro auto-dichiarato Stato del terrore. Non qui da noi. Non con noi. Non nel nostro nome.



Questo sentimento di solidarietà con le vittime non si lascia richiamare questa volta. Chiaro e semplice, perché possiamo e dobbiamo identificarci con loro. Poteva succedere a noi, avremmo potuto essere noi. Dovevano morire perché erano nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Perché volevano passare il tempo in una notte di venerdì come migliaia o milioni di altre persone, divertirsi, sedersi con gli amici o ascoltare musica. Perché sono andati davanti al Bistrò a fumare una sigaretta. Solo perché volevano sentire il metal, come si è espresso qualcuno che ha perso un amico nel Bataclan.

 

Non possiamo essere meramente “solidali”, perché eravamo noi stessi e le nostre vite i bersagli voluti. Per gli attentatori e bombardieri di Madrid e Londra si trattava della massa. Il loro obiettivo era quello di colpire il maggior numero possibile di persone. Questa volta si combinano entrambi: la casualità della massa con il valore simbolico dell'attacco contro "Charlie Hebdo". Si tratta del nostro stile di vita. Prima si poteva morire perché ci si era seduti sul treno sbagliato, nella metropolitana sbagliata, sull'aereo sbagliato. Ora bisogna chiedersi se si può continuare ad andare al cinema, a un concerto, al ristorante o allo stadio.



Stranamente i parigini, questa volta, non hanno avvertito il bisogno di riversarsi in massa sulle strade. Il giorno dopo l'attentato, Parigi era vuota, come deserta. I musei, i teatri, molti negozi erano chiusi. C'era la direttiva di non lasciare inutilmente l'appartamento. Tuttavia sono stati deposti fiori sui luoghi del disastro. La gente che si è riunita sabato sera sulla Place de la République, è stata rimandata a casa da poliziotti amichevoli. Si poteva accendere candele, raccogliere messaggi, ma non ci doveva essere nessun assembramento di massa.



"Même pas peur" si può leggere su alcune foglietti o messaggi di condoglianze, come a gennaio. Non ci fate paura. Ma questa è una bugia, naturalmente: se il governo proclama lo stato di emergenza e il divieto di adunanza, allora è perché ha paura. Perché dobbiamo avere paura. Perché non è ancora finita e non finirà così presto. Non importa quanto forte e decisa risuoni la dichiarazione di guerra dalle bocche dei politici ai vertici dello Stato. Ci hanno dichiarato guerra. Ma essa viene condotta con armi terribilmente impari.

Non ci potrà quindi essere nessuna marcia come l'11 gennaio. Nessuna solidarietà con la polizia e i militari, il cui compito è quello di proteggere i cittadini. La nuova certezza è che non siamo più al sicuro. Parte del nostro nuovo sentimento della vita sarà che il governo non ci potrà proteggere. Siamo in tanti, ma siamo un bersaglio facile. Ci possono colpire e uccidere dovunque vogliono.

 

Ciò avrà anche conseguenze sul clima politico in Francia. Per la prima volta Hollande ha avuto fortuna nella sfortuna. Egli poteva crescere nella crisi, improvvisamente ha esercitato le sue funzioni. Ha fatto una bella figura sia a livello politico che umano. Questa volta non ci sarà quest'eccezionale fenomeno concomitante positivo per lui. Anzi. Questa volta deve accettare la domanda perché i servizi segreti non hanno saputo evitare un attacco di diversi gruppi così coordinato.

Gli esperti dicono che non esiste alcun rischio zero. Ma tutti gli sforzi dopo "Charlie Hebdo "di rafforzare la cooperazione dei vari servizi, di istituire un punto di raccolta centrale, di mettere a disposizione più soldi, più manodopera, non sono bastati per impedire il massacro di Parigi. In altre parole: nonostante l'annuncio che gli attacchi nel mese di gennaio fossero solo l'inizio, il governo è stato impotente, incapace di proteggere i propri cittadini. È come se, così si è espresso lo scrittore e sociologo Jean-Pierre Le Goff, "il patto fondamentale che lega il cittadino allo Stato," si fosse "improvvisamente spezzato". E’ come se lo Stato ci avesse lasciato un senso di insicurezza esistenziale.

Questa situazione la saprà sfruttare anche Marie Le Pen. Il Fronte Nazionale, che si mostra come l'unica alternativa all'establishment politico, potrebbe conquistare le prime regioni alle elezioni all’inizio di dicembre. Le Pen vuole vendere ai francesi l'illusione che ci può essere una Francia che chiude i suoi confini, che esce dall'Europa e lascia fuori il mondo malvagio. La ferita che la Francia ha subito in questo 13 novembre darà motivo ad ancora più persone di credere in questa visione nostalgica del mondo.



E' bello vedere che sono comparsi i colori della Francia sugli edifici, sui parlamenti, sui teatri d'opera di tutto il mondo. Sono buoni tutti i profili di Facebook blu-bianco-rosso su Facebook della gente in tutto il mondo che ora dice: Noi siamo Parigi. Ma non basta più per dare conforto, perché è così terribile scorrere le foto di coloro di cui si è sentita e si sentirà la mancanza. Chi guarda nei loro occhi, sa che lui stesso è una delle vittime volute.



Sulla Place de la République una persona ha lascito le parole di Victor Hugo: "Osare, offrire la fronte, perseverare, resistere, rimanere fedeli a se stessi, chiudere il destino tra le braccia, sorprendere il disastro con la poca paura che ci fa ."

Note: Originale: http://www.welt.de/politik/ausland/article148878826/Uns-macht-ihr-keine-Angst-Das-ist-natuerlich
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