Le conseguenze dell'occupazione
Moshe Dayan è ministro della difesa, in ginocchio pregando al Muro del Pianto appena conquistato, quando si accorge di una bandiera israeliana sulla moschea di Al-Aqsa: è il 1967, e ordina immediato la sua rimozione. Ariel Sharon andrà a passeggiarci davanti annunciato da una fanfara di poliziotti e soldati - è il 2000, e sarà di nuovo Intifada.
Un obiettivo chiaro da sempre. Israele non ha mai pensato, mai, che avrebbe un giorno restituito l'intera terra occupata in cambio della pace. Innesca rapido, deciso gli insediamenti: e soprattutto, scolpisce attento la studiata ambiguità della Risoluzione 242, che nella versione inglese sigilla la Guerra dei Sei Giorni dimenticando un articolo determinativo, così da lasciare vaghi i territori oggetto del futuro ritiro. Ma se l'obiettivo è chiaro - quale invece la strategia? Fermarsi a Ben Gurion, che sfidava gli inglesi in nome di un Mandato chiamato Bibbia, fermarsi generici all'ambizione massimalista di Eretz Israel è impedirsi l'indagine e comprensione di quanto accade. Perché questa, semplicemente, non è mai stata una 'terra senza un popolo': Israele è sempre stato consapevole della presenza dei palestinesi, e della loro forza demografica: e il suo problema è stato dall'inizio, con risposte più o meno radicali, come avere la dote senza la sposa, per sintetizzarla con Yigal Allon - la terra senza i suoi abitanti. E capire la strategia allora, non solo il suo obiettivo, capire come Israele cerca di costruire questo massimo della terra con il minimo degli arabi, è fondamentale. Perché poi per esempio, arriva Sharon un giorno, criminale di Sabra e Chatila convertito improvviso in uomo di pace per il cosiddetto disimpegno da Gaza: e sembra il ritiro, e si applaude - e è invece l'assedio, e la fame e il Piombo Fuso. Fondamentale: perché in questo 'come' altrimenti, inavvertiti, si rimane impigliati. I palestinesi con le loro Oslo - noi con i nostri aiuti umanitari.
Il primo tentativo: la normalizzazione. L'icona dell'occupazione che comincia non è il cemento di un Muro, ma il suo esatto opposto: è immateriale, l'icona d'aria di un confine che svanisce. Perché l'occupazione è in fondo la riunificazione del paese dopo la partizione del 1948: e secondo la più tipica retorica coloniale, non è che generosa modernizzazione di territori arretrati - il deserto ancora, che fiorisce. La priorità è lo sviluppo economico: per un benessere diffuso capace di comprare a rate, giorno a giorno, anche l'aspirazione a libertà e indipendenza. La profonda innovazione dell'agricoltura, la formazione professionale, le prime università: ma soprattutto, l'assorbimento della manodopera locale nel mercato del lavoro israeliano. A salari bassi, certo, e per impieghi non qualificati: ma a condizioni comunque largamente migliori di quelle dei Territori, e una disoccupazione livellata allo zero percentuale. Sono anni di crescita vertiginosa per il Pil: anni di elettricità, frigoriferi televisori, il gas, l'acqua potabile - anni di proteine e medicine, e l'allungarsi delle aspettative di vita. L'obiettivo, esplicito, è un'occupazione invisibile - nessuna bandiera: solo un governatore militare, e poi, e uguale a sempre, il puntello della tradizionale rete delle famiglie allargate, l'autorità degli anziani. Il tentativo è addomesticare i palestinesi: indurli a partecipare allo status quo con il rimodellamento della quotidianità - dell'identità collettiva.
Contraddizioni e reazioni: la prima Intifada. Perché poi, in parallelo, ogni minima attività politica è invece repressa. E mentre nel tempo emergono gli effetti di quello che Sara Roy ha definito il 'de-sviluppo' dell'economia palestinese: e si scopre così che l'obiettivo non è stato affatto rafforzarla, ma integrarla, incastrarla quasi in quella israeliana con ruoli strutturalmente subordinati, minando nel lungo periodo la sostenibilità di uno stato autonomo e sovrano. L'introduzione della lira israeliana, e la chiusura di tutte le banche e istituzioni finanziarie arabe congela lo sviluppo industriale, mentre il sistema delle licenze e autorizzazioni consente a Israele di orientare ogni attività in funzione delle proprie esigenze: agricoltura inclusa: perché nuove tecnologie e tecniche impennano la produttività, ma è Israele a decidere cosa coltivare e commercializzare, mentre le sue derrate dilagano nel mercato palestinese - inevitabilmente più convenienti: perché è Israele a controllare ogni goccia d'acqua, ovunque, e il suo prezzo. Così come le frontiere: isolando i Territori dai paesi vicini, e vincolandoli a ferrea dipendenza per l'energia e tutti i beni alimentari primari, farina riso, zucchero. E infine, le tasse: riscosse da Israele, e spesso reinvestite illegali in Israele invece che nei Territori e nelle loro infrastrutture. Non è crescita economica dunque, è solo aumento del consumo privato: consentito dalle rimesse di chi lavora in Israele o nei paesi del Golfo - il sismografo del Pil è fuorviante: registra ricchezza generata altrove, non l'efficienza dell'economia. La reazione palestinese sarà inevitabile: e ma innescata essenzialmente, questa è la tesi di Gordon, dalle contraddizioni stesse della strategia della normalizzazione. Perché non è solo questione di economia e de-sviluppo. Sono le università, per esempio, a forgiare la miccia dell'Intifada, in forma di migliaia di laureati frustrati, condannati ai cantieri israeliani o alla disoccupazione: mentre la conversione dei contadini in manodopera pendolare, oltre la Linea Verde, svuota intanto le campagne, e stravolge quelle gerarchie sociali che Israele aveva accuratamente tutelato per dominare con il vecchio divide et impera - la nuova generazione ora mantiene la vecchia, e reclama potere. E ma soprattutto, gli insediamenti: il confronto tra un villaggio e un grappolo di coloni a cento metri, con i suoi prati e piscine, è inequivoco: ed è la certezza che il divario tra ricchi e poveri sia non distinzione di merito, ma discriminazione di nazionalità. E è esattamente quello che la normalizzazione voleva evitare: tutti sottoposti alla stessa occupazione, i palestinesi non possono che consolidare un'identità unitaria di oppressi, specifica rispetto a quella araba - e contrapposta a quella israeliana.
La violenza, opposto del potere. Le statistiche sulle vittime sono indicative. Una media annuale di 32, che dilaga a 106 con la prima Intifada, 674 con la seconda Intifada e poi di incursione in incursione, e nell'indifferenza internazionale, di operazione in operazione fino a Piombo Fuso: un numero che aumenta, e tuttavia rimane minimo, per un'occupazione: e che segnala a Gordon l'idea di fondo: e cioè che si ha una correlazione inversa tra la mera violenza, usata per scardinare la resistenza, e forme di controllo che invece mirano, appunto, alla normalizzazione, incanalando i palestinesi in attività coincidenti con gli interessi israeliani. L'aumento delle vittime è dunque sintomo di un fallimento di strategia: per dirla con Foucault, è un'evoluzione dal potere disciplinare al potere sovrano. Mentre gli strumenti di controllo, infatti, e cioè i meccanismi di coercizione ma anche le istituzioni, e i sistemi giuridici gli apparati burocratici, e le pratiche sociali, i più vari ostacoli fisici che modellano e plasmano nuovi comportamenti, nuovi modelli di condotta - mentre questi strumenti di controllo sono tutti presenti e attivi dall'inizio, a modificarsi nel tempo è il loro bilanciamento, la filosofia a guida del loro utilizzo: o per riprendere Foucault, appunto: le tecnologie del potere. Il potere sovrano è potere esercitato dall'alto: è il potere legislativo, esecutivo, giudiziario: è il monopolio della forza e la capacità di imporre coattivamente la propria volontà. Il potere disciplinare opera invece dal basso: incide sulle interazioni quotidiane, per ottenere, non visto, indurre omogeneità di pensiero e azione: è un potere diffuso, molecolare - su tutti: la scuola. Tipico del colonialismo, nei primi anni prevale: e sembra sufficiente. Israele per esempio può permettersi confini aperti, senza alcun Muro: una sicurezza che gli è garantita non solo dall'illusione di crescita economica, ma anche, più sottile, da un'integrazione dei lavoratori palestinesi che è solo parziale - sono loro vietati i sindacati: e privi di protezione, non devono offrire il minimo pretesto a un licenziamento: in fabbrica e fuori. Con la prima Intifada, invece, mentre i soldati nei Territori si moltiplicano, agli operai è richiesto un tesserino magnetico: rilasciato non dal ministero del lavoro, ma da quello della difesa: ed è il segno dice Gordon, dell'indebolirsi di Israele - se è vero che il potere, qualsiasi potere, è tanto più forte quanto più signoreggia invisibile: potere e violenza non sono affatto sinonimi, spiega Hannah Arendt: sono l'opposto. L'Intifada è l'intuizione di costringere Israele a passare dal dominio burocratico occulto a un dominio militare esplicito: trasformare l'occupazione da impresa redditizia in costosa strategia - in termini politici, economici, morali.
Il secondo tentativo: la pace egemonica. Gli accordi di Oslo consegnano però il potere a un'élite rispolverata a lucido da un esilio di anni: un'élite che non ha partecipato alla rivolta, e si impegna al contrario a neutralizzarla. Oslo non è il coronamento, ma il tradimento dell'Intifada: perché restituisce normalità all'occupazione - e con una legittimazione ora ancora più potente: una apparenza di autogoverno. Israele capisce cioè che è necessaria una nuova e diversa strategia: e appalta la responsabilità per la gestione quotidiana dei Territori a un'inedita Autorità Palestinese - non è la fine, ma la continuazione dell'occupazione con altri mezzi: una specie di occupazione telecomandata: la polizia palestinese, spiega Rabin, potrà adesso controllare la popolazione senza l'intralcio di diritti umani, e tribunali e madri di sinistra. Innestata su un'economia strutturalmente alla paralisi, l'Autorità Palestinese può adottare solo norme secondarie, compatibili cioè con la legislazione in vigore, largamente a favore di Israele - che mantiene tra l'altro potere di veto su ogni decisione. In più, le maggiori risorse sono destinate alla sicurezza: dieci poliziotti ogni mille abitanti, contro una media nel mondo di tre: e il cui compito, soprattutto, è garantire l'ordine pubblico ma anche sradicare un indefinito terrorismo - nozione che va a sovrapporsi al dissenso interno. Ed è Oslo allora, il suo adempimento e non il suo fallimento, la ragione e premessa della crisi di oggi. Perché il suo solo risultato sarà il crollo dell'economia: quando nel nome dei due stati, si ripristina il confine, e si rispediscono gli operai palestinesi oltre la Linea Verde: e nei Territori non rimane che l'impiego pubblico, unica opportunità di lavoro, e seme di una gramigna clientelare foraggiata dagli aiuti internazionali accorsi a sostegno della pace - mentre mattone a mattone, imperturbabili, gli insediamenti dilagano.
Dalla colonizzazione alla separazione. In particolare, Oslo reinventa lo spazio e il movimento attraverso il mosaico di aree A, B, C: e ai palestinesi non riserva che una limitata autonomia sul 40 percento di quel 22 percento della Palestina Mandataria che è rappresentato dai Territori - un 40 percento disperso in 131 frammenti. L'obiettivo di Israele è vincere non con lo scontro, ma la paralisi: è il passaggio dal principio della colonizzazione alla filosofia della separazione, oggi compendiata dal Muro: e cioè da un sistema che amministrava la vita dei palestinesi a un sistema che non è invece più interessato al loro destino, ma solo le loro risorse, terra e acqua - un sistema che esplicito, non intende assumersi alcuna responsabilità per la popolazione civile, prontamente sostituito da una comunità internazionale secondo cui la questione palestinese è ormai umanitaria invece che politica. Con la nostra complicità Israele ha abbattuto i costi dell'occupazione - senza rinunciare a un centimetro di terra. Non cerca più di controllare i palestinesi assicurando ordine e benessere, ma al contrario: producendo insicurezza endemica. E non solo il potere disciplinare è scalzato via dal potere sovrano: ma lo stesso potere sovrano è cambiato, perché dalla Seconda Intifada la prassi non è più l'applicazione, è la sospensione della legge - il governo attraverso la paura. In Israele l'applicazione della legge, è vero, si è spesso ribaltata in esiti kafkiani: la violazione del diritto è stata nient'altro che rigoroso rispetto delle norme: perché l'intero sistema giudiziario, fino alla Corte Suprema, è stato arruolato a trincea della legalità e moralità dell'occupazione - la legge è stata usata per consentire impunite la tortura, le demolizioni di case, le confische di terra. Eppure, è il segno di quanto fosse importante per Israele propagandarsi 'governo illuminato', stato di diritto - mentre oggi siamo davanti a uno stato di eccezione permanente: e i palestinesi come terroristi a cui non si riconosce alcuna umanità, nemici contro cui tutto è lecito, fino all'annientamento. Non la normalizzazione, ma la separazione: quello che Alan Dershowitz propone per talebani e fondamentalisti vari, l'incapacitazione: rinchiuderli in gabbia come allo zoo, come a Guantanamo - come a Gaza.
Eppure. Lo studio di Gordon mostra in definitiva come l'occupazione modella e influenza la resistenza, che a sua volta, circolarmente, modella e influenza l'occupazione. Ed è qui il suo valore. Nel dire che l'evoluzione dell'occupazione è in larga parte conseguenza di dinamiche generate dall'occupazione stessa: e cioè che la strategia israeliana, come ogni altra strategia, ha i suoi elementi imprevedibili, i suoi contraccolpi: non è infallibile, perfetta come appare. Non è imbattibile, e al contrario - sempre più violenta perché sempre più fragile. La principale contraddizione è rappresentata proprio dagli insediamenti: sembrano puntellare il dominio del territorio, e invece rendono giorno a giorno più inevitabile quello stato unico in cui Israele perderebbe la sua maggioranza ebraica. Ma tra gli elementi imprevedibili, soprattutto, anche ognuno di noi. Perché Generale, scriveva Bertolt Brecht, il suo carroarmato è una macchina potente / spiana un bosco e travolge cento uomini / ma ha un difetto / ha bisogno di un guidatore / Generale, l'uomo è molto utile / può volare e assassinare / ma ha un difetto / può pensare. In nome del Talmud: quando intorno a te niente è umano, sii umano.
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