Morto il PIL, il mondo sarà più felice?
Promemoria per i politici. Smettetela di promettere un aumento del PIL e cominciate a porvi come obbiettivo i benefici sociali che possono essere effettivamente conseguiti, caso contrario preparatevi ad affrontare folle furiose. In un pianeta limitato niente cresce per sempre, persino in una economia come quella degli Stati Uniti.
Non sorprende che tutti, dal Presidente Obama a Michele Bachmann, stiano rassicurando l’elettorato della loro capacità di favorire un ulteriore incremento del PIL. Quando il valore del PIL cresce, si realizzano nuove opportunità di lavoro e si ottengono maggiori guadagni dagli investimenti. Quando il PIL scende si assiste a una sorta di marasma economico.
Tuttavia vi sono segnali che un ulteriore incremento del PIL potrebbe non essere possibile, malgrado i provvedimenti economici attuati. In verità, potrebbe essere giunto il momento in cui il PIL stesso stia sopravvivendo a se stesso al di là della propria utilità.
Il PIL (Prodotto Interno Lordo) è un indice che misura la spesa totale realizzata annualmente in una economia nazionale. Dalla Seconda Guerra Mondiale, i responsabili politici hanno utilizzato il PIL come indicatore principale della salute di una nazione. Durante la seconda metà del XX secolo, in un mondo inondato da fonti energetiche a basso costo, capaci di alimentare una crescente produzione industriale e gli scambi commerciali su strada, l’indice ha continuato a salire e la maggior parte degli economisti ne ha concluso che avrebbe continuato a farlo per sempre.
Alcuni in contro tendenza ( incluso Robert F. Kennedy, nel 1968) suggerirono che fare affidamento sul PIL non era una buona idea. Sebbene l’aumento vertiginoso dell’indicatore provocasse una sorta di euforia finanziaria, poteva celare i mali della società come le crescenti disuguaglianze economiche; inoltre, il PIL non fa distinzione tra sprechi, lusso e soddisfacimento bei bisogni umani primari. In modo perverso, il PIL spesso cresce durante i conflitti bellici o dopo i disastri ambientali a causa dell’aumento della spesa pubblica.
Nonostante le critiche, gli economisti e i responsabili politici restano fedeli al PIL: forse perché seguire un singolo indicatore rende il loro lavoro più semplice.
Ma ora, gli Stati Uniti potrebbero avere raggiunto il limite reale del PIL. L’esplosione della bolla creditizia per consumi da “almeno una volta nella vita”, con il raggiungimento della massima scopertura sia sul prestito al consumo che sulla capacità di spesa, unitamente alla contrazione delle risorse globali (e il conseguente aumento vertiginoso del prezzo del petrolio), hanno arenato il rendimento economico nazionale. Ne viene coinvolta buona parte del resto del mondo e Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia vi si dibattono trovandosi anche più vicini al tracollo. Durante gli ultimi due anni, gli Americani hanno ottenuto una pallida ripresa: alcune centinaia di miliardi di dollari di PIL, tuttavia al costo di mille miliardi di incremento del debito pubblico.
Ora, poiché Washington si immerge sempre più profondamente nel livore di parte, gli sforzi per produrre un’ulteriore crescita attraverso l’aumento del debito sono divenuti politicamente orfani dato che nessun Repubblicano e pochi Democratici li rivendicherebbero come propri. Se la “ripresa”era solo fumo negli occhi, noi ormai non abbiamo più occhi per piangere.
Intrappolati in un paradigma fallito
In altre parole ci attendono tempi duri. Le persone istintivamente sanno cosa fare durante i momenti difficili: consumare meno e risparmiare in misura maggiore. Ma queste reazioni ragionevoli, indovinate un po’, faranno crollare il PIL in maniera persino più consistente. Non c’è modo di sottrarsi a questa contraddizione finché resteremo intrappolati nel nostro attuale paradigma economico. Un aumento del debito e della spesa pubblica possono portare soltanto ad un miglioramento del sintomo, facilitando però la caduta di milioni di famiglie povere e del ceto medio dentro un inferno economico. Siamo giunti ad un momento storico in cui nessuna delle soluzioni che ci sono familiari è adeguata, e ci troviamo costretti a rivedere le nostre premesse di fondo. Premesse come queste:
- · l’idea che possiamo far funzionare una economia sostenibile grazie all’incremento costante del ritmo con il quale estraiamo e consumiamo risorse energetiche non rinnovabili come il petrolio;
- · l’idea che possiamo utilizzare il debito come se fosse moneta corrente; pratica questa fondata sull’assunto di una crescita costante dell’economia e che ci renderà incapaci di ripagare sia il debito che i relativi interessi maturati;
- · l’idea che dovremmo rappresentare il progresso della nostra nazione attraverso l’ammontare della spesa annuale.
L’ultimo punto è importante perché delinea ciò che noi, in quanto società, scegliamo per misurare gli effetti che volgiamo ottenere e ai quali diamo valore. Se ciò che ci sta a cuore maggiormente è l’incremento della spesa e dei consumi, allora ci stiamo predisponendo a due grandi fallimenti: nel trovare soluzioni ai problemi reali dell’umanità che nulla hanno a che fare con il consumismo, e che potrebbero essere addirittura peggiorati da un certo tipo di consumi; nel raggiungere un obbiettivo (la costante crescita del PIL e del consumo) che non può essere realizzato. Ripeto, nulla cresce per sempre in un pianeta dalle risorse limitate.
Indicatori ed obbiettivi ci aiutano a predisporre il nostro programma operativo e ci dicono cosa stiamo facendo per attuarlo. Con il PIL, pianifichiamo un programma viziato che si fonda su dati di fatto ingannevoli.
Dopo il PIL ... la felicità?
Le proposte per un indicatore economico su base più ampia risalgono almeno al 1972, quando gli economisti William Nordhaus e James Tobin suggerirono il MEW, Measure of Economic Welfar, [Misura del Benessere Economico, ndt] , che nel 1989 Herman Daly, John Cobb e Clifford Cobb perfezionarono nell’ISEW, Index of Sustainable Economic Welfare, [Indice del Benessere Economico Sostenibile, ndt]. Lo scopo di questi altri indicatori era quello di dedurre dal PIL le spese militari e i costi del degrado ambientale, per aggiungervi le prestazioni non remunerate del lavoro domestico.
Nel 1995, il gruppo di esperti del Redefining Progress fece progredire ulteriormente sia il MEW che l’ISEW individuando il Genuine Progress Indicator (GPI) [Indicatore del Progresso Reale, ndt], che consente degli aggiustamenti non soltanto per quello che concerne il danno ambientale e lo sfruttamento delle risorse, ma anche per la distribuzione del reddito, il volontariato, il crimine, i cambiamenti nell’uso del tempo libero e la durata della vita sia dei beni di consumo durevoli che delle infrastrutture pubbliche. Il GPI conquistò un maggiore consenso rispetto sia al MEW che all’ISEW, ed è attualmente utilizzato dalla comunità scientifica e globalmente da molti organismi governativi (per esempio, lo stato del Maryland sta usando il GPI per la pianificazione e la valutazione).
Ma il 1972, anno in cui fu proposto il MEW, rappresenta anche l’anno in cui il piccolo regno himalayano del Bhutan diede avvio alla costruzione di una economia basata su quello che il sovrano Jigme Singye Wangchuck chiamò “Gross National Happiness” [Felicità Interna Lorda, ndt]. Nel tentativo di preservare i valori del buddismo tradizionale all’interno di un mondo sempre più globalizzato, questo piccolo paese cominciò a sviluppare uno strumento di misurazione atto a stimare il senso di benessere generale della popolazione.
Fino in tempi recenti il concetto di felicità era stato evitato dai sociologi, che erano privi di efficaci sistemi per la sua misurazione; tuttavia, gli “economisti della felicità”, ispiratisi alle sperimentazioni del Bhutan, hanno trovato dei criteri per connettere le ricerche soggettive ai dati oggettivi della durata della vita, del reddito e dell’educazione, rendendo l’indice della felicità nazionale una opzione utilizzabile.
Anche se l’economia del Bhutan è ancora basata su un’agricoltura di sussistenza e ha un PIL relativamente basso, la popolazione di questo paese risulta essere tra le venti più felici del mondo. Ciò contrasta con quanto accade negli Stati Uniti, in cui si stima un tasso di felicità per unità di PIL molto più basso. Nel suo libro The Politics of Happiness, Derek Bok, ex rettore della Harvard University, ha delineato la storia della relazione in America tra la crescita economica e la felicità. Durante i trascorsi 35 anni, il reddito pro capite è cresciuto quasi del 60%, l’ampiezza media delle case di nuova costruzione è aumentata del 50%, il numero di autoveicoli si è espanso fino alla cifra di 120 milioni e la proporzione delle famiglie che possiedono un computer è cresciuta da zero fino all’80%. Tuttavia la percentuale di americani che percepiscono se stessi come “molto felici” o “abbastanza felici” è rimasta praticamente costante, dopo avere avuto un picco negli anni ’50. Il tapis roulant economico sta costantemente accelerando a causa della crescita del PIL e noi dobbiamo darci da fare sempre più faticosamente per stargli dietro, questo tuttavia non ci rende più felici.
Le idee a sostegno della Felicità Interna Lorda (FIL) si stanno diffondendo. La Harvard Medical School ha realizzato una serie di studi sulla felicità, mentre il Primo Ministro inglese David Cameron ha annunciato l’intenzione da parte dell’Inghilterra di cominciare a seguire l’andamento del benessere attraverso il FIL. L’organizzazione Sustainable Seattle ha lanciato una Iniziativa della Felicità , attraverso la quale intende condurre una ricerca su scala cittadina per la misurazione del benessere. La Tailandia ha istituito un indice sulla felicità e calcola mensilmente il valore del FIL. La New Economics Foundation inglese pubblica un “Indice della Felicità del Pianeta,” che dimostra come sia possibile per una nazione avere un alto indice di benessere associato ad un basso impatto ambientale. E un nuovo film documentario, intitolato “The Economics of Happiness” [L’economia della felicità, ndt], sostiene che i migliori valori di FIL vengono raggiunti quando economia, politica e cultura sono sviluppate su base locale. Qualunque indice si metta a punto per sostituire il PIL, la misurazione risulterà più complessa di quella attuale basata su una sola dimensione. Ma la semplicità non sempre è un vantaggio, e gli ulteriori sforzi potrebbero essere meglio indirizzati nella valutazione di fattori quali il benessere psicologico collettivo, la qualità del governo e l’integrità ambientale.
Questo è ciò che dobbiamo fare
Milton Friedman una volta scrisse: «Soltanto una crisi, reale o percepita, produce un vero cambiamento.» In assenza di una crisi, i politici e gli economisti si aggrapperanno al PIL anche se imperfetto e nonostante esistano alternative migliori. È familiare, è semplice ed è radicato in tutte le istituzioni economiche esistenti.
Ma la crisi è in atto. Nel precedente ventennio, la crescita del PIL negli Stati Uniti è stata prevalentemente assorbita dall’industria finanziaria. Oggi, la disoccupazione è stabilmente alta, mentre il patrimonio netto delle famiglie sta crollando. Una ulteriore crescita sembra ottenibile unicamente attraverso un enorme deficit statale e un aumento del debito pubblico. La spesa pubblica è stata la sola cosa capace di supportare l’economia, ma i governi europei e quello americano hanno subito una crisi di fiducia sia da parte dei mercati finanziari che da parte degli elettori. Siamo ad un vicolo cieco dell’economia. Sembriamo avviarci verso il disastro politico e sociale a causa delle aspettative infrante e della rabbia popolare in fermento. Pensate a mille Piazze Tahir. Il solo modo per cercare di risolvere questa situazione sarà quello di cambiare gli obbiettivi e le regole del gioco nazionale.
Ecco cosa potrebbe accadere. A seguito delle ampie deflagrazioni di contestazione pubblica nei confronti delle misure di austerità volte a ridurre il deficit statale, i leader mondiali diramano la dichiarazione che il PIL verrà eliminato gradualmente. A questo riguardo esiste grande consenso politico: nel 2008 il Presidente francese Nicholas Sarkozy ha convocato “The Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress,” [La Commissione per la Misura della Performance Economica e del Progresso Sociale, ndt], presieduta dall’economista americano Joseph Stiglitz, che ha enumerato i limiti del PIL. I leader possono fare riferimento alle conclusioni della Commissione e spiegare alle persone che lo scopo del nuovo indicatore economico sarà quello di perseguire e ottenere benefici sociali e ambientali più estesi senza l’espansione del debito pubblico.
Un suggerimento diretto al Presidente Obama: Convochi subito ogni categoria di economisti per mettere a punto quell’indicatore alternativo. Potrebbero cominciare valutando il lavoro fatto fin qui per poi apportare le modifiche necessarie. C’è bisogno di uno standard metrico concordato che sia operativo per quando la crisi colpirà, e la crisi è già dietro l’angolo.
Dopo l’annuncio dovrebbe seguire il lavoro di riallineamento degli incentivi, delle norme, delle tasse e della spesa per migliorare il grado di felicità e la sostenibilità. Ciò comporterà, tra l’altro, la modifica delle regole finanziarie al fine di arrestare l’arricchimento preferenziale delle banche e degli speculatori (che incrementa il PIL ma spesso finisce per aumentare proprio la sperequazione economica senza condurre ad alcun beneficio generale). Una strategia da adottare a questo scopo potrebbe essere quella di applicare una tassa contenuta su tutte le transazioni puramente finanziarie, usando i relativi proventi per ridurre le imposte sul reddito.
Sappiamo da numerosi studi che le persone sono più felici quando percepiscono di avere il controllo delle proprie vite, quando hanno l’opportunità di contribuire a modellare le norme che devono rispettare e quando ritengono tali norme giuste. Questo significa che i responsabili politici devono trovare modi per farsi da parte e consentire che la sostituzione del PIL sia condotta da persone che agiscono all’interno delle comunità locali e dove le loro voci possono essere ascoltate.
Senza dubbio occorrerà un periodo di sperimentazione. Perciò è importante dare avvio ad una riforma economica che sostituisca il nostro indicatore economico primario: esaminando i dati si valuterà quali politiche ci rendono più felici e quali invece no. Nel complesso, affinché questa transizione economica possa essere compiuta occorreranno probabilmente due o tre decenni. Inizialmente potrebbe essere difficile, ma la società dovrà predisporsi all’adozione di nuove prospettive: l’aumento della soddisfazione umana, della salute e del benessere, riducendo contemporaneamente l’impatto dell’uomo sull’ambiente.
Se la nostra attuale crisi viene incalzata dai limiti sia del debito che delle risorse naturali allora ci si potrebbe chiedere se esistono limiti anche nel progresso della sfera sociale e culturale. Alla fine, anche i limiti della felicità umana potrebbero essere raggiunti?
Forse. Ma sarebbe un problema interessante da doversi porre.
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