40° anniversario

Dal Sessantotto alla rivoluzione dei ricchi

Come mai? - Non siamo ricchi, ma pensiamo come i ricchi - La disperazione - La deregulation - Cominismo - Democrazie senza giustizia - Dire la verità al potere - La spinta liberatrice
12 settembre 2008

Dal Sessantotto alla rivoluzione dei ricchi

Su tutto il problema di capire il Sessantotto, in questo quarantennale, mi tormenta un aspetto: come mai la rivoluzione per libertà e giustizia si è risolta nella "rivoluzione dei ricchi", sonoramente e violentemente e bellicosamente vincente (finora)? Qual è la debolezza o colpa del movimentismo?
In termini morali, direi:
- liberismo etico, edonismo (vietato vietare; l'erba voglio; vogliamo tutto, ecc), che poi serve a giustificare il più feroce liberismo economico ammazza-poveri;
- individualismo libertario più che solidarismo;
- godere tutti i vantaggi della modernità borghese senza giudicarne l'anima;
- ambiguità sulla violenza (lo rileva bene il libro di Anna Bravo).
Prendersi queste responsabilità è la premessa per battere domani la contro-rivoluzione della ricchezza come mito di civiltà, cultura della rivalità, privatismo escludente.
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Dopo il Sessantotto è venuta la rivoluzione dei ricchi. Come mai? È forse stato, il Sessantotto, una rivoluzione mancata, ricaduta, che ha fatto spazio alla reazione, come i fascismi dopo il 1917 russo e le sue ripercussioni in Europa?
Peter Bichsel scriveva: «Noi non siamo ricchi, ma pensiamo come i ricchi». Cioè, siamo colonizzati culturalmente. I rivoluzionari del Sessantotto, prevalentemente, già somigliavano ai ricchi: una sana inquietudine li agitava, anche contro il mito della sistemazione dei loro padri, ma erano in buona parte studenti privilegiati, la loro ribellione era soprattutto individualista e edonista. Esperienze nonviolente erano, superficialmente assimilate, all’origine del movimento, che però presto fu disponibile alla violenza, nel linguaggio, nei simboli e nei miti, dunque non dissociato dalla caratteristica principale del sistema: la cultura avversa, sotto le apparenze, inquinava il movimento.
Dopo il conato rivoluzionario è venuta la disperazione, o quella rinunciataria (riflusso) o quella violenta, e dunque la vittoria regalata all’avversario. Il rivoluzionario che non ha la tenacia di resistere e persistere per molti decenni, e anche più, è solo un fuoco di paglia. I sessantottini sono andati contro la violenza ignorando o abbandonando la forza nonviolenta, spirituale, interiore, religiosa, dunque sono andati moralmente sguarniti, deboli, perciò destinati alla sconfitta: i più si sono dispersi, alcuni (tanti dei più bravi) sono stati assimilati (vedi le carriere di vari esponenti dentro il sistema che combattevano).
Poi è venuta in risposta la deregulation (reaganismo, tatcherismo, blairismo, modello adottato anche dai comunisti pentiti italiani). Ha l’apparenza della liberalizzazione (caricatura della libertà) e la sostanza della tirannia. Deregulation, infatti, significa togliere le regole che tutelano i deboli. Ai forti le regole non servono, anzi non le vogliono perché la forza è la loro regola, e altre regole li intralciano. Il lupo, davanti all’agnello, non ha neppure la regola della logica. Liberarsi dalle regole è piacevole, fin quando i forti e potenti si fanno regola di tutto e tutti.
La sinistra si è dimostrata incapace di rifiutare la violenza sovietica senza rifiutare il giusto “comunismo”. Il comunismo giusto e necessario per aprire un futuro al di là della strozzatura mortale che abbiamo davanti (di cui la linea prevalente nel PD sembra ignara) deve significare e volere il primato dei beni comuni (di natura esterna, nell’ambiente, e di natura interna, nell’immateriale) bene indicati da Slavoj Zizek (Internazionale n. 745, 23 maggio 2008, p. 69-70): finalmente un discorso chiaro!
Comunismo, come dice la parola, appena la liberiamo dalle pesanti scorie della falsa realizzazione sovietica, vuol dire primato dei beni comuni; primato di quanto è comune sul privatismo egoista. I movimenti del Sessantotto non avevano visto chiaro questo. C’era bisogno del 1989, grande effetto dei metodi nonviolenti e dell’unità popolare (anche il rapporto tra 1968 e 1989 è da studiare, e lo stiamo facendo). Il Sessantotto vedeva ancora confusamente il comunismo marxista (non il sistema Urss, per la sua illibertà) e mitizzava la Cina maoista (sconosciuta) come mondi desiderabili. Intanto, da allora è cresciuta la barbarie precedente al 1945, a cui le costituzioni nazionali e planetarie del 1948 non sono riuscite a porre completamente riparo, nel diritto e nella cultura (si veda, realistico e positivo, il libro di Giuliano Pontara, L’antibarbarie, Ega 2006).
Il libro di Anna Bravo, A colpi di cuore. Storie del sessantotto (Laterza 2008) è un’analisi seria, un esame morale obiettivo, autocritico, veritiero (anche proprio sulla violenza delle donne); non un rinnegamento ma un ripensamento onestissimo, che permette di apprezzare gli sviluppi e criticare i limiti del Sessantotto.
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Oggi abbiamo democrazie senza giustizia, che non sono vere democrazie (Gandhi). Bisogna meditare bene se alla democrazia basta la forma, le regole del gioco, oppure se il formalismo non sia rischio mortale per la democrazia, tanto quanto lo “stato etico” hegeliano lo è per la libertà di pensiero. Il Sessantotto ha visto bene che nessuna scienza è neutrale, ma implica giudizi di valore che vanno evidenziati e valutati. Così è anche della politica e della democrazia. Le sole “regole del gioco” non sono neutrali.
Bisogna certamente accettare la regola della maggioranza (insieme al pieno rispetto delle minoranze), altrimenti ciascuno ritiene che la propria visione, per lui vera, gli dia più diritto degli altri a governare. Eppure, non è detto che chi ha più voti abbia più ragione e che sappia fare il meglio per il bene comune. Proprio non è detto. Allora, insieme alle forme che garantiscono dalla sopraffazione, è necessario il più ampio, libero, illuminato confronto sui valori umani, senza i quali la democrazia è vuota. È necessaria al respiro civile di un popolo la presenza di alti testimoni di moralità e generosità, che solo l’educazione profonda fa fiorire. Si terrà conto della «insocievole socievolezza» (Kant) che è della natura umana, ma se ne curerà la dimensione alta, positiva, con pazienza pari alla tenacia.
Un popolo non è democratico perché può votare, ma solo se si educa a rispettare e promuovere effettivamente la dignità umana in tutti: vedi e rivedi l’art. 3 della nostra Costituzione. Questa dignità è vissuta e affermata se l’ambiente morale non è ripiegato sulla realizzazione di sé di ogni individuo, rivale degli altri, ma solo se è orientato al generoso servizio di ciascuno a tutti, col privilegio degli ultimi, dei poveri, sofferenti, scartati.
Alla democrazia è necessaria quella religiosità universale, che sostanzia e trascende tutte le culture e le religioni umane: che il vero e il giusto è più dell’utile; che ciò che è comune a tutti precede il particolare; che l’altro ha valore pieno davanti all’io. Si deve rispettare la forma legale, ma si deve condannare l’ideologia che è prevalsa con la rivoluzione dei ricchi: il privatismo, l’utilitarismo egoista, il culto della ricchezza che distrugge la persona e le relazioni, la difesa del privilegio con la guerra, la separazione del mondo in sommersi e salvati.
Gandhi diceva: «La democrazia e la violenza non possono coesistere. Gli stati che oggi sono formalmente democratici, o sono destinati a divenire apertamente totalitari, oppure, se vogliono divenire veramente democratici, devono avere il coraggio di divenire nonviolenti» (12 novembre 1938). «La democrazia, finché è sostenuta dalla violenza, non può fare l’interesse dei deboli o proteggerli. La mia concezione della democrazia è che sotto di essa il più debole deve avere le stesse possibilità del più forte. Questo può avvenire soltanto attraverso la nonviolenza (…). La democrazia occidentale, nelle sue attuali caratteristiche, è una forma diluita di nazismo o di fascismo. Al più è un paravento per mascherare le tendenze naziste e fasciste dell’imperialismo. (…) Le vostre guerre non riusciranno mai a salvaguardare la democrazia» (18 maggio 1940).
Più e prima che di prendere il potere, un’idea politica deve essere capace di “dire la verità al potere” (Gandhi), perché la politica ha bisogno di verità, più ancora che di abilità e competenza. Nessuna paura: non si tratta di imporre una particolare verità filosofica o religiosa su altre visioni. Si tratta di quella verità che il nostro tempo ha riconosciuto nei diritti umani, nella dignità uguale dell’ultimo degli esseri umani come del primo. Ma questa verità non è garantita se non è intimamente vissuta, nonostante cadute e limiti, nell’esperienza e nella cultura popolare. Altrimenti ricompare la barbarie della violenza spicciola, metodica, del razzismo, del bullismo, delle mafie, della necrofilia fascista e nazista. In quella verità, la giustizia è più della legalità. Questa è necessaria ma non è sufficiente, perché la sopraffazione del violento diventa “legale” ove è sanzionata dalla maggioranza, come quando fascismo e nazismo ebbero il consenso popolare passivo. Oggi accade quando si accetta che il conflitto di interessi (cioè il cumulo dei poteri nella stessa persona), ingiusto e illegale, sia legalizzato dal voto popolare.
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La politica è sempre anche una questione antropologica, ontologica: quale forma di umanità esprime e promuove? Perciò l’indignazione, il giudizio di valore, sono indispensabili alla politica. Questo è un merito del Sessantotto, che però doveva proseguire con la forza nonviolenta e col rigore personale coerente. Perciò, lungi da azioni violente, è oggi necessario giudicare senza debolezze né sconti le forze meno umanistiche, le mentalità lontane ed estranee alla cultura costituzionale della nostra storia repubblicana, che rappresentano una forma di umanità davvero non pregevole, e sono quelle a cui le ultime elezioni hanno dato il potere politico in Italia.
La spinta liberatrice del Sessantotto va ritrovata, e deve diventare un’opposizione culturale e etica ai poteri di fatto che si sono fatti legalizzare manipolando da decenni le menti dei cittadini, e quindi le democrazie. I marginali per condizione di vita o per idee sono stati spinti fuori e si sono persi nell’irrilevanza o nella violenza. La sinistra “estrema”, rappresentata nel governo precedente, ha spesso favoleggiato il sogno della perfezione senza gradualità, ha pensato tacitamente il tragico «tanto peggio tanto meglio» e così ha favorito la vittoria dei peggiori.
Ricominciare da capo, nulla di meno. Trovare il bandolo, che forse è l’umanesimo, la spiritualità, quel punto centrale di incontro di tutti i valori umani, senza cui fallisce la politica e si perde la storia.
Enrico Peyretti, 26 maggio 2008 (rivisto 12 settembre 2008)

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