Salvare l’Abruzzo dall’Olio nero

Dopo 15 anni di petrolio, la Lucania si ritrova con agricoltura e turismo distrutti, emigrazione, corruzione e tumori in aumento. Per gli abruzzesi è come vedere in anteprima ciò che potrebbe accadere.
12 marzo 2009
Marcello Cristo
Fonte: America Oggi - 08 marzo 2009

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Sin dai tempi della scuola, siamo stati abituati a pensare all’Italia come and un paese ricco di bellezze naturali ma povero di materie prime: le risorse economiche del Belpaese sono tradizionalmente concentrate in superficie piuttosto che nel sottosuolo.

Tuttavia negli ultimi anni, nella zona centrale della penisola, dall’Abruzzo alla Basilicata, sono state scoperte riserve petrolifere che, per quanto non paragonabili ai giacimenti esistenti in altri angoli del globo, hanno suscitato l’interesse (e gli appetiti…) di molte amministrazioni locali e compagnie estrattive, prima tra tutte l’ENI.

Visti i potenziali e sostanziosi interessi economici in ballo, non c’è da stupirsi se anche qui, come dappertutto, siano iniziate subite le polemiche sull’opportunità di sfruttare o meno questi pozzi facendo poi i conti con l’inevitabile impatto ambientale che ne deriverebbe.

Dopo lo "petrolizzazione" della Basilicata già iniziata alcuni anni fa e che ha provocato numerosi danni ecologici, l’epicentro della "battaglia" tra interessi economici ed ambientali si è ora spostata in Abruzzo dove l’Eni, assieme ad altre compagnie italiane e straniere, ha in programma la costruzione di pozzi e raffinerie che mal si adattano alla tradizione turistica, agricola, e vitivinicola della regione.

A dar filo da torcere al gigante Eni tuttavia, ci ha pensato un fisico, professore di matematica applicata alla California State University di Northridge, in California.

Maria Rita D’Orsogna, nata e cresciuta a New York, nel Bronx, da genitori abruzzesi, si è trasferita a Lanciano (CH) all’età di sette anni; a ventitre anni si è laureata in Fisica all’Università di Padova e, dopo aver vissuto per un po’ tra l’Europa e l’America ha accettato nel 2007 il prestigioso incarico accademico a Los Angeles dove risiede attualmente.

La residenza californiana tuttavia non le ha fatto dimenticare l’Italia e l’Abruzzo in particolare, una terra che ama al punto da indurla ad intraprendere un battaglia tutta "americana" per la salvaguardia di un pezzo d’Italia.

Prof. D’Orsogna, come e quando ha cominciato ad interessarti a questa vicenda?

«Me ne parlò un amico nell’Ottobre del 2007, quando iniziò a diffondersi la notizia della creazione di un "Centro Oli" dell’ENI ad Ortona. La disinformazione subdola fu subito evidente: l’espressione "Centro Oli" creò confusione fra la popolazione perché fa pensare ad un frantoio, invece che ad una raffineria. Poi indagando e leggendo documenti delle ditte petrolifere, si capì che si trattava non solo di sfruttare giacimenti petroliferi ad Ortona, ma in tutto l’Abruzzo: una prospettiva che cambierebbe per sempre il volto della regione».

In quali aree si trovano questi giacimenti e che cosa si conosce della loro entità?

«Modesti giacimenti sono ad Ortona, Pineto,Vasto, San Vito Marina, Silvi e Alba. Ci sono permessi estrattivi, in fase di approvazione o già accordati, sulla metà del territorio abruzzese incluso il Parco Nazionale d’Abruzzo e la Majella. A causa della particolare conformazione geografica questi giacimenti sono molto difficili da sfruttare: sono profondi, non molto consistenti. Per di più sono carichi di impurità, come lo zolfo, che rendono il petrolio abruzzese di scarsa qualità, che significa tonnellate di sostanze tossiche emesse nell’aria nel processo di lavorazione».

Quali sono state le reazioni delle varie amministrazioni locali?

«Grazie all’impegno di varie associazioni, le comunità costiere sono informate, specie il Pescarese ed il Chietino. I Teramani si stanno mostrando abbastanza attivi ed agguerriti, presentando risoluzioni e promuovendo conferenze informative. Le loro economie sono molto centrate sul turismo e la prospettiva di una piattaforma petrolifera con fiammella desolforizzante visibile dalla costa non piace a nessuno.

Poi ci sono sindaci e consiglieri che, in palese conflitto di interessi, minimizzano i problemi cercando di trarne vantaggi personali. Ad esempio, Nicola Fratino, il sindaco di Ortona, gestisce in esclusiva le attività portuali della città e fa parte di un consorzio di aziende locali sorto appositamente per fornire servizi petroliferi all’ENI. Da un lato dunque c’è il potere della sua giunta di dare approvazioni di vario genere (come le modifiche al piano regolatore), dall’altro gli enormi interessi privati suoi e di pochi altri soci. Fratino è l’unico sindaco favorevole alla petrolizzazione dell’Abruzzo.

L’opinione pubblica è preoccupata per gli effetti sulla salute. Proprio in questo periodo i media, nazionali e internazionali, iniziano ad occuparsi delle conseguenze delle estrazioni in Basilicata. Dopo 15 anni di petrolio, la Lucania si ritrova con agricoltura e turismo distrutti, emigrazione, corruzione e tumori in aumento. Per gli abruzzesi è come vedere in anteprima ciò che potrebbe accadere da noi.

Non è che la gente sia necessariamente contraria alle estrazioni petrolifere: il fatto è che petrolio ed agricoltura, raffinerie e riserve naturali, non si sposano. E poiché l’Abruzzo ha già una sua vocazione, sarebbe come estirpare tutto quello che già esiste sul territorio in favore di un tipo di attività totalmente aliena e dai dubbi vantaggi economici.

Il Chietino è la seconda provincia italiana per numero di operatori vitivinicoli, e per quantità di uva prodotta. L’enorme danno ambientale della Basilicata, è anche un danno economico e non a caso le cantine del Montepulciano d’Abruzzo sono fra i più agguerriti oppositori del petrolio in Abruzzo. Nonostante il vuoto informativo istituzionale, secondo un sondaggio realizzato nel dicembre del 2008, il 75% degli Abruzzesi è contrario alla petrolizzazione, il 10% è favorevole, il restante 15% dice di non sapere».

A che punto si trova attualmente lo sviluppo di questa vicenda?

«I primi permessi estrattivi sono stati concessi all’ENI nel 2001 e per anni la burocrazia è andata avanti, rilasciando tutti i permessi in sede regionale e provinciale con superficialità e con pochissima riflessione. Solo quando questa vicenda è diventata di dominio pubblico le cose lentamente hanno iniziato a cambiare.

In seguito a forti pressioni popolari, nel marzo del 2008, venne presentato in consiglio regionale una proposta di legge per una moratoria temporanea sull’attività petrolifera in Abruzzo. La moratoria è valida fino al 2010. Venne approvata contro il volere dell’allora presidente della regione, Ottaviano del Turco (poi arrestato per avere, secondo l’accusa, presumibilmente intascato 6 milioni di euro in tangenti sulla sanità abruzzese) e quasi all’unanimità perché fuori c’erano seimila manifestanti che assediavano il palazzo del consiglio regionale a l’Aquila.

Ora c’è un nuovo consiglio regionale, guidato da Gianni Chiodi che, purtroppo, non ha ancora capito la gravità del problema, ed è piuttosto timido nel pronunciarsi».

Può dirci nulla sul valore e sulla rilevanza economica di queste risorse?

«La valenza economica di queste risorse non è molto chiara, nel senso che l’ENI non ha mai rilasciato cifre ufficiali. Qualsiasi sia la loro rilevanza economica però i benefici per il cittadino abruzzese saranno minimi. In Italia le royalties versate allo stato sono pari al 4% se si estrae in mare, e al 7% per la terraferma. Di questo 7%, se passa la legge proposta dal governo Chiodi, solo il 15% arriverà alla regione, cioé lo 1.05% di tutto il valore del petrolio estratto. Per di più, se l’estrazione dovesse essere al di sotto di una certa quantità, le royalties non ci sono. In Norvegia le royalties sono dell’80%.

In Basilicata la la popolazione non ha tratto alcun vantaggio e a tutt’oggi le emissioni di agenti tossici non vengono monitorati correttamente, ne tantomeno spiegati alla popolazione.

L’ENI ha dichiarato in più occasioni che la raffineria di Ortona occuperà al massimo trenta operai ai quali andrà ad aggiungersi il personale per la costruzione dell’impianto stesso: un centinaio di muratori e tecnici temporanei. Nessuna agenzia governativa, che io sappia, ha elaborato proiezioni occupazionali, né tantomeno messo a confronto i posti di lavoro guadagnati con quelli persi, dovuti all’inevitabile crollo dell’agricoltura, come è successo in Basilicata. Gli impianti sono ad elevatissima automazione dove serve poca manodopera».

Quale impatto ambientale ci si potrebbe aspettare?

«L’impatto ambientale sarebbe molto grave per la regione Abruzzo. Come testimoniano migliaia di articoli scientifici sulle estrazioni petrolifere fatte cosi vicino ai centri abitati.

Spinta dalle pressioni popolari, la provincia di Chieti ha incaricato l’istituto di ricerca Mario Negri di stilare un rapporto sulle conseguenze della presenza della raffineria nel comprensorio di Ortona. Il rapporto è stato reso noto nel dicembre del 2007 e parla di una tonnellata e mezza di sostanze inquinanti emesse ogni giorno, fra cui provati cancerogeni, che andrebbero a spargersi su un territorio dove vivono circa centomila persone. Occorre anche notare che le leggi ambientali italiane sono molto tolleranti sulle emissioni di sostanze tossiche, per nulla paragonabili a quelle che si fissano negli USA per esempio. Per l’idrogeno solforato i limiti italiani sono di oltre 10,000 volte più alti di quelli del Massachusetts; per la diossina mille volte più alti che in Germania. Per quanto riguarda gli impianti marini, le precauzioni che si prenderebbero altrove, in Abruzzo e in Italia in generale non esistono. Negli USA la scorsa estate ci furono molte discussioni quando Bush propose di permettere l’estrazione del petrolio a 50 miglia dalla costa, 80 chilometri. In Italia non esiste alcun limite, ed oggi ci sono permessi estrattivi accordati a Vasto per esempio, dove i pozzi potrebbero sorgere a due chilometri dalla costa. L’Adriatico è poi un mare chiuso, dai fondali bassi, per cui gli inquinanti tenderanno a restare localizzati e in caso di incidente il danno ambientale sarà particolarmente devastante».

Quali gruppi pubblici e privati italiani hanno risposto alla sua iniziativa
e come?

«Una volta che la problamatica è nota, che i danni alla salute vengono spiegati alla popolazione mostrando le testimonianze dalla Basilicata, le reazioni sono sempre di rabbia e di sgomento. Il coinvolgimento pubblico, delle istituzioni invece è stato finora troppo blando. Ci sono state iniziative locali di sindaci, ma la regione è totalmente assente, sia nel prevenire che nell’informare. L’attuale assessore all’ambiente, Daniela Stati, a quasi due mesi dal suo insediamento deve ancora pronunciare una sola parola sul tema petrolio in Abruzzo».

Questa che sta conducendo è una "battaglia" puramente italiana o è riuscita in qualche modo a suscitare alcun interesse qui negli Stati Uniti?

«L’unico modo in cui vinceremo questa sfida è informando tutte le persone che amano l’Abruzzo, i suoi prodotti e la sua natura. L’Italia è troppo corrotta per sperare che prevalga il buonsenso davanti agli interessi economici di pochi potenti. Sto cercando anche di coinvolgere gli Americani, ma occorrerà pazienza e tenacia. Spererei in una maggiore presa di posizione anche di colossi industriali legati all’Abruzzo e al suo territorio, come la Pasta de Cecco e Del Verde».

Ma qual è il suo obiettivo principale al momento?

«Che venga approvata al più presto una moratoria a lungo termine che vieti le operazioni petrolifere. Nel contempo vorrei che si sviluppasse negli Abruzzesi una maggior coscienza civica, di rispetto e di amore per la loro terra e che si capisse che il benessere economico passa anche per la salvaguardia ambientale e non certo rincorrendo le ultime e sporche goccie di petrolio del pianeta»

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