Mangiare cavalli è un crimine legalizzato
Lo spunto di cronaca degli 80 cavalli dopati con il Viagra nell’ippodromo semiclandestino di Napoli ci offre ben più di una considerazione sul rapporto tra uomo e cavallo. Se qualcuno dovesse pensare che le corse clandestine, il doping e i macelli nei garage sono un fenomeno che riguarda pochi criminali, sbaglierebbe di grosso. Sì certo, riempire di Viagra un cavallo, spremerlo come un limone e quando polmoni e cuore non ce la fanno più, inviarlo in un lurido “basso” a finire la vita appeso al gancio, è roba da criminali. Ma c’è un altro tipo di criminalità che si fatica a definire tale solo perché la legge non la vieta. Come è possibile allenare un cavallo, stargli vicino la notte prima della corsa, abbracciarlo quando vince per poi accompagnarlo in macello solo perché si è fratturato un piccolo osso che non gli permetterà più di piazzarsi? Con quale coraggio lo si guarda negli occhi e gli si allunga l’ultima pacca spingendolo davanti alla pistola, mentre lui scalpita e indietreggia perché sente il puzzo della morte? Coraggio? Ho scritto coraggio? Vigliaccheria, codardia, anzi di più.
Violenza brutale, insensibilità disumana.
Di più ancora. Un ossimoro, chiamato criminalità concessa dalla legge. “Tutti i cavalli indirizzati verso l’attività agonistica”, mi dice al telefono la cara amica Maria Lucia Galli, amante del cavallo e grande esperta di ippologia “hanno diritto, una volta finita la carriera, a un onorato riposo e possibilmente non quello eterno. Si tratta di una forma di rispetto nei confronti di un animale con il quale saremo eternamente in debito”. Ormai i cavalli da galoppo a cinque anni escono dalle corse, mentre pochi anni di più restano in attività agonistica quelli da trotto. Poiché i cavalli hanno un’altra ventina d’anni da vivere, dove collocare quelli che non hanno la fortuna di chiamarsi Varenne? Come dare un posto di ricovero a chi ha lavorato duramente per anni e magari è stato imbottito con i tanti elisir di Dulcamara che il mondo dei “cavallari” serve freddi, ghiacciati chinati, sciroppati, zuccherati, salati con o senza la fettina di limone sul bicchiere? Ci sono varie possibilità, ma dovrebbe essere vietato inviarli al macello. Esiste anche un problema relativo alla salute pubblica. Cavalli dopati con ogni sorta di intruglio non possono saltare l’ultimo ostacolo, per poi finire nei piatti di chi mette la riconoscenza assieme alla carta igienica. Il cavallo ha permesso all’uomo di spostarsi, di fuggire, ha concesso ai popoli di coprire distanze infinite per incontrarsi e per portare il potere della conoscenza. Senza il cavallo l’uomo non sarebbe l’uomo. Nessuno può impedire a chi, questa riconoscenza non sente, di ingozzarsi del pesto di cavallo. Per anni medici ignoranti hanno consigliato il cavallo crudo che fa buon sangue e la gente crepava contraendo trichinellosi e salmonellosi. È ora che quando nasce un cavallo si sappia (non abbiamo ancora in Italia un’anagrafe equina, signori ministri della Salute e dell’Agricoltura). È ora che ogni cavallo porti un microchip che ne renda noto a tutti il destino: d’affezione o, ahimè, da carne. I cavalli dell’ippica non devono finire nei macelli ufficiali o peggio clandestini. Si prelevi una percentuale sulle vincite negli ippodromi, si operi la conversione dei giovani purosangue, quando possibile, i cavalli da sella, si agevoli chi ha un cavallo a sostenerne le spese di cremazione, si incentivi l’utilizzo dei cavalli anziani nelle fattorie didattiche, a contatto con i bambini, si stimoli la pet therapy. Lo Stato e gli enti pubblici e privati si diano da fare per colui che gli Indiani d’America chiamavano “Grande Cane”.
All’Università del Kansas c’è un cavallo imbalsamato: Comanche. Era del capitano Keogh, uno degli ufficiali di Custer al Little Big Horn. Comanche fu colpito da sette frecce, ma, con le cure adeguate, trascorse la convalescenza e il resto della sua vita a Fort Lincoln. Quando Comanche morì, molti si strofinarono gli occhi leggendo il giornale, tra loro molti vecchi Indiani.
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