Preso in Cambogia il re dei bracconieri
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Per oltre trent'anni è stato la vera belva nelle foreste della Cambogia: all'attivo di Yor Ngun, che oggi ha 58 anni, è un massacro di animali protetti. Persino quando i khmer rossi di Pol Pot davano la caccia all'intelligentsija - vera o presunta - nella Cambogia rivoluzionaria, lui non pensava agli esseri umani: i suoi killing fields riguardavano, piuttosto, tigri ed elefanti, orsi e leopardi. Era, insomma, il re dei bracconieri; e il suo nome compariva, negli anni più terribili del suo Paese, quando la salvezza di molti era legata agli umori di un'ideologia bacata o più sovente al caso, nelle liste di proscrizione delle organizzazioni conservazioniste internazionali. Ora lo hanno catturato, processato e condannato a sette anni di carcere, una pena decisamente superiore a quella di chi, a Phnom Penh e nelle campagne attorno al fiume Mekong, ha ucciso negli Anni Settanta non centinaia di animali ma migliaia di esseri umani. Forse è anche questo un segno dei tempi, della Cambogia che cambia e che si adegua - lentamente, soffrendo - a una morale di stampo occidentale. I massacri perpetrati dai khmer rossi sono cosa d'altri tempi, tuttora per lo più impunita. Il massacro degli animali è cosa d'oggi; e quindi, nelle incerte realtà cambogiane, va punita. Il Paese soffre di una grave crisi agricola, nel senso che le terre su cui lavora il 70 per cento della popolazione sono proprio in questo momento oggetto di accaparramento da parte di coloro che da noi si chiamerebbero palazzinari, tanto da sollevare l'allarme delle Nazioni Unite e spingere il primo ministro cambogiano Hun Sen ad una moratoria sulle vendite dei terreni agricoli, moratoria che ha avuto l'immediato effetto di creare un ricco mercato nero.
E' un problema che richiede interventi urgenti, se è vero che persino un'ala del palazzo reale di Phnom Penh, dimora dell'attuale sovrano Norodom Sihamoni, è stata ceduta a speculatori privati. Ma l'imperativo, oggi, sembra essere piuttosto quello di offrire al mondo un'immagine «moderna» della Cambogia, quindi anche di una Cambogia che rispetta la natura e l'habitat. A farne le spese è stato Yor Ngun. «Anche se in realtà sarebbe troppo anziano per andare in carcere - ha sentenziato il giudice Sim Soung, del tribunale della provincia costiera di Koh Kong - egli si merita una severa condanna per quello che ha fatto». Ed ha aggiunto: «Speriamo di avere contribuito, in questo modo, alla protezione della nostra fauna». Una dichiarazione d'intenti ben comprensibile, nella Cambogia che lentamente si apre al mondo e al turismo. Dal 2001, anno in cui questo re dei bracconieri è stato tenuto d'occhio dall'autorità, sono state oltre seicento le uccisioni di animali rari o protetti attribuite a Yor Ngun. L'ordine da Phnom Penh era stato tassativo: catturatelo. Ma lui, primula rossa del delitto contro gli animali, era sempre sfuggito all'arresto. Si trovavano le sue tracce, si identificavano i suoi metodi di cattura (trappole e lacci), ma nessuno riusciva mai a vederlo. Anche quando fu arrestato la prima volta nel 2004 dagli agenti dell'amministrazione forestale nella provincia orientale di Mondul Kiri, Yor Ngun riuscì a farla franca facendosi rilasciare con la condizionale. La denuncia contro di lui, in quell'occasione, era venuta dall'organizzazione conservazionista americana WildAid, che gli attribuiva l'uccisone attraverso una decina di province cambogiane di 500 banteng (il Bos Javanicus, un bovino selvatico a rischio di estinzione), 19 tigri, 40 leopardi, 30 elefanti, 40 orsi malesi e tre orsi tibetani, dai quali aveva ricavato pelli pregiate e avorio, ma in qualche caso anche ossa, artigli ed organi vari spacciati per afrodisiaci dalla medicina orientale. Lo scampato pericolo non era bastato, però, a fargli capire che l'aria, anche in Cambogia, era cambiata. Si è così fatto «pizzicare» all'inizio di quest'anno, sorpreso nella provincia di Koh Kong mentre portava al mercato 82 artigli e 25 mascelle d'orso. Tutti illegali, naturalmente. Vittima della «correttezza politica», più che di un genuino sentimento d'orrore in un Paese che ha tuttora ben altri problemi da risolvere, questa volta è finito dritto in carcere.
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