Non far più polli
16.05.06
Miliardi e miliardi di polli industriali come risposta semplice alla fame mondiale di proteine? La mina vagante della peste aviaria sembra aver inceppato il meccanismo di questa fonte di proteine animali a basso costo che è stata spinta al massimo nei decenni scorsi anche dalle agenzie internazionali, nella parallela versione degli allevamenti intensivi e dei volatili da cortile dietro casa - spesso dietro capanna - in Asia, Africa e America Latina. E' stato un far-west pennuto, senza leggi né a tutela della salute umana né a minima protezione degli animali-macchine: la stessa Europa non ha direttive «in favore» dei broilers (anche da vivi i polli da carne sono chiamati così, cioè «da fare alla piastra»); e quelle sulle ovaiole rimandano a tempi biblici l'eliminazione delle batterie.
Nessun veto religioso proibisce il consumo di carni avicole (pollo, anatra, oca e altri pennuti), mentre i bovini sono interdetti agli indù e i maiali ai musulmani. Rispetto ad altri animali, i polli, nelle razze programmate per una crescita rapida, hanno una conversione maggiore: con 2 kg di mangime se ne ottiene uno di carne (scarti compresi). E tengono poco spazio. Ogni anno nel mondo sono fatti nascere e morire almeno 30 miliardi di pennuti da cortile.
Non si sa quanti di loro finora siano stati coinvolti nelle esecuzioni di massa decise dalle autorità sanitarie per l'aviaria (solo in Egitto, 25 milioni). Quel che si sa è che i metodi usati sono in genere crudeli. In questo stato di guerra si deroga alle regole sulla macellazione (peraltro in vigore in pochi paesi). Animali bruciati vivi, sotterrati, chiusi in borse di plastica: metodi dolorosissimi, peggiori dell'abituale scossa elettrica nei macelli. L'organizzazione internazionale per la tutela degli animali d'allevamento Compassion in World Farming (www.ciwf.orfg) denuncia in Gran Bretagna l'approvazione di un decreto governativo d'emergenza che autorizza a soffocare gli animali, togliendo loro la ventilazione nei capannoni industriali. Le linee guida dell'Oie (Organizzazione mondiale per la sicurezza animale) sui metodi di uccisione «umana» (?) a scopi di controllo epidemiologico specificano che gli animali debbano essere fatti morire in modo rapidissimo o essere resi incoscienti. Ma non avviene così, visto anche il ritmo delle esecuzioni.
Del resto, sono finanziati solo i governi che stanno alle indicazioni di chi ha stanziato i fondi per la peste aviaria (gli Usa soprattutto). E queste prevedono misure di bonifica di stile militare come soppressioni di massa anche di animali da cortile e in aree solo marginalmente infettate; il tutto con compensazioni che ai piccoli produttori ad esempio africani non arriveranno mai. Le indicazioni prevedono poi la ristrutturazione totale del settore. Un futuro unificato di capannoni-lager con razze pure unificate. Come denuncia l'organizzazione Grain - non animalista ma di tutela della biodiversità in agricoltura - nel suo rapporto The top-down global response to bird flu (di un altro aspetto del rapporto ci siamo occupati nel terra terra del 12 maggio scorso), la Fao ha risposto alla crisi con una svolta di 180 gradi nelle proprie politiche di produzione avicola. Dopo aver promosso per anni gli allevamenti domestici su piccola scala, ora li vuole eliminare e indica la via della generalizzazione dei grandi allevamenti intensivi, dominati da poche multinazionali. Assurdo: di febbre aviaria si ammalano soprattutto proprio i polli intensivi.
Le esecuzioni a scopo preventivo e la ristrutturazione gigantista sono uno shock per gli innumerevoli piccoli agricoltori che la Fao ha indotto negli anni scorsi alla «rivoluzione aviaria». Ad esempio, in Afghanistan un programma aveva spinto decine di migliaia di famiglie a passare dalle rustiche razze autoctone alimentate a granaglie a specie «migliorate» gonfiate con mangimi commerciali. La generalizzazione di questo sistema «grazie» alla peste aviaria è una manna per le compagnie internazionali produttrici di mangimi, di polli, di vaccini. Agribusiness as usual.
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