Diritti Animali

Intervista a Roberta Bartocci-Responsabile LAV per la vivisezione

Vivisezione - ma il gioco vale la candela ?

18 maggio 2006
Emiliano Angelelli

In base ai dati messi a disposizione dal Ministero della Salute – aggiornati al 2003 – si nota una tendenza alla diminuzione nell’utilizzo di animali a scopo di ricerca, anche se le cifre non sono proprio esaltanti e la tendenza all’utilizzo della sperimentazione animale sembra consolidata.

Si tratta di una flessione, ma non assolutamente significativa. Si passa infatti da una media di circa 988 mila animali utilizzati nel triennio 1998-2000 ad una media di 912.000 nel triennio successivo, ma se andiamo a verificare i dati anno per anno notiamo fluttuazioni in alto e in basso nel corso dei tre anni.

Il precedente governo ha già dimostrato la sua posizione sulla vivisezione intervenendo decisamente nel 2004 contro il tentativo della Regione Emilia Romagna di far passare una legge regionale contro la vivisezione. Cosa mi può dire in merito?

L’allora ministro per gli affari regionali Enrico La Loggia ci disse che, essendo la sperimentazione animale una materia di interesse nazionale e sovranazionale, le regioni non avevano il diritto di legiferare. Almeno questa era la versione ufficiale. Anche se la realtà è ben diversa perché quando fa comodo le regioni possono dire la loro, mentre in situazione scomode - come era quella della vivisezione in cui erano coinvolti gli interessi delle grandi case farmaceutiche ndr - veniva contraddetto questo principio. Noi ci appellammo alla Corte Costituzionale, ma non riuscimmo a cambiare la decisione presa.

Vista la situazione di stallo a livello di finanziamenti per la ricerca in Italia, realtà come Telethon o 30 ore per la vita diventano i maggiori finanziatori in questo campo a livello nazionale, ma nessuno parla mai del fatto che buona parte di questi soldi finiscono per contribuire a una ricerca che fa uso di sperimentazione animale.

Purtroppo è vero, la maggior parte di queste fondazioni ricorre alla sperimentazione animale. Noi come LAV cerchiamo di dialogare con questi interlocutori, ma allo stato attuale la situazione è questa. E la cosa preoccupante è che la maggior parte di coloro che danno i loro soldi a Telethon o ad altre fondazioni non sa come vanno le cose.
Inoltre spesso ci si trova di fronte al ricatto morale del tipo: preferisci salvare la vita del topo o quella del bambino? Dando per scontato che la ricerca serva effettivamente alla salute umana, cosa sulla cui fondatezza potremmo discutere a lungo.

Si spieghi meglio.

Innanzitutto bisogna ricordare che solo il 30% degli animali sono impiegati nella ricerca di base mentre la restante percentuale viene utilizzata per la ricerca applicata, rivolta essenzialmente all’immissione di prodotti sul mercato. Parlo naturalmente di prodotti dell’industria chimica, che comprendono farmaci, cosmetici, pesticidi, vernici, colle e plastiche.
La presenza dei farmaci in questa lista può far credere che una qualche utilità esista nella vivisezione, ma in base a uno studio pubblicato l’anno scorso dalla Pfizer, è emerso che 4 farmaci su 5 precedentemente testati su animali e poi provati sull’uomo vengono scartati. Questo perché sugli esseri umani si rilevano degli effetti non riscontrati sugli animali. Quindi aldilà della prescindibilità di un prodotto – come possono i essere cosmetici, ad esempio, per i quali è legittimo chiedersi se vale la pena di sacrificare la vita di un animale – abbiamo a che fare con un metodo per niente affidabile.

A questo proposito cosa ne pensa dei metodi alternativi come le colture cellulari, l’epidemiologia o l’uso di dati statistici? Crede che possano sostituire degnamente la sperimentazione animale?

Certo che sì, anche se attualmente coloro che sostengono la sperimentazione animale tendono a cercare la “pagliuzza” nell’occhio dei metodi alternativi mentre evitano di guardare la “trave” che la vivisezione si porta dietro da almeno due secoli. Bisogna chiarire che in entrambi i casi abbiamo a che fare con dei modelli che, in quanto tali, presentano dei limiti di attendibilità rispetto all’oggetto di studio. Limiti che possiamo riscontrare anche nei metodi alternativi, ma che, a parità di margine di errore, permettono di evitare di sacrificare migliaia di vite animali.

Approfondiamo il discorso dei modelli sperimentali. Quali differenze esistono, ad esempio, tra la sperimentazione animale e le colture cellulari?

La questione principale è che l’animale non risponde alla definizione di modello sperimentale per l’uomo mentre un metodo alternativo come la coltura di cellule umane sì. Infatti il modello sperimentale usato attualmente in biologia, ad esempio, è quello preso in prestito dalla fisica sperimentale dell’800, il quale non è altro che l’oggetto di studio semplificato da cui si eliminano una serie di variabili. In pratica una sorta di “uomo semplificato” a cui la coltura cellulare si avvicina molto più dell’animale, poiché si tratta di una parte di uomo isolata. Un uomo dal quale si prelevano e poi coltivano le cellule, prescindendo da tutto il resto. Per l’animale invece, non è lo stesso perché se tolgo un gene a un uomo non ottengo un cane oppure se ne tolgo due non ottengo un topo. Questo è un modo di pensare la biologia privo di criteri scientifici. E’ come credere che l’animale sia un qualcosa che tende alla specie umana, quindi un cane o un topo fra 10 milioni di anni dovrebbero diventare esseri umani.

E inoltre l’esistenza di un modello ufficialmente accettato pone dei problemi di convalida per i metodi alternativi. E’ vero?

E’ verissimo. Le faccio un esempio: il test di irritazione oculare per verificare l’irritazione da sostanze chimiche viene condotto sui conigli mentre esiste un metodo messo a punto ormai da anni che viene effettuato su campioni di lacrima umana. Questo test da dei risultati molto più attendibili di quello effettuato sui conigli, ma paradossalmente non può essere convalidato perché i risultati sono differenti rispetto a quello che ormai è considerato uno standard di valutazione. Quasi che il paramentro debba essere la conformità rispetto alla regola consolidata – verrebbe da dire calcificata ndr - e non l’attendibilità reale di un metodo scientifico. E proprio su questo stiamo cercando di lavorare come LAV, affinché vengano modificati i criteri di valutazione e soprattutto velocizzati i tempi che richiedono per validare un metodo. Attualmente infatti ci vogliono dai 10 ai 12 anni.
La questione imprescindibile rimane comunque la modifica del criterio di valutazione che non può essere certo quello del confronto con i risultati ottenuti attraverso la sperimentazione animale. Questo metodo infatti non è mai stato validato e vive solo ed esclusivamente di consuetudine e di interessi consolidati. Non vedo perciò il motivo per cui il parametro debba essere questo quando i risultati di cui parlavamo prima dimostrano tutto il contrario.

Per concludere, da cosa dipende secondo lei questa incapacità di acquisire un nuovo metodo?

Fondamentalmente credo sia un problema di inerzia culturale e inoltre in duecento anni di sperimentazione animale sono sorte numerosissime attività indotte legate a questo modo di fare scienza. Penso solamente ai numerosissimi allevamenti di animali da laboratorio fioriti negli ultimi anni, il cui monopolio è detenuto da due grandi multinazionali: la Charles River e la Harlan.
La Harlan è presente anche in Italia con ben due sedi: una in Friuli e l’altra in Lombardia.

Quindi esistono grandi interessi economici dietro la sperimentazione animale?

Sì, ma non è l’unico problema. La sperimentazione animale infatti rappresenta un importante paravento giuridico.

Si spieghi meglio.

Se una casa farmaceutica o un’industria cosmetica deve mettere un nuovo prodotto sul mercato ha interesse a dimostrare che questa sostanza non nuoce ai consumatori. Nella maggior parte dei casi gli animali usati nei test sono topi e ratti che, nel 50% dei casi, rispondono in modo totalmente opposto alle sostanze chimiche testate. Naturalmente chi intende mettere questi prodotti sul mercato avrà tutto l’interesse a presentare i risultati positivi riscontrati, evitando di parlare di quelli che hanno dato esito opposto. Quindi si tratta di metodi costosi e inaffidabili sotto molti aspetti che però garantiscono una giustificazione ufficialmente accettata nel caso qualcosa andasse storto una volta introdotti i prodotti sul mercato.

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