Del mangiar carne
Fin dall'antichità si è posto il problema se le bestie avessero o meno,
oltre all'anima sensitiva, quella razionale e se fosse legittimo ucciderle
per cibarsene. Vi era chi, come Aristotele, considerava gli animali come
meri strumenti dell'uomo: "Quelli domestici perché ne faccia uso e si nutra
di loro, e quelli selvatici, se non tutti almeno per la maggior parte,
perché se ne nutra e tragga da loro altri profitti... Poiché la natura non
fa nulla che sia imperfetto o inutile, ne consegue che ha fatto tutti gli
animali per l'uomo". Ne erano convinti anche gli stoici, mentre vi era
un'altra corrente di pensiero che, da Pitagora a Teofrasto a Plutarco,
considerava una gravissima ingiustizia sacrificare esseri viventi e
addirittura attribuiva loro un anima razionale. Sappiamo bene che nell'epoca
moderna è prevalsa la prima teoria fino al punto di considerare l'animale
pura res extensa, sicché sarebbe giusto e naturale ucciderlo o torturarlo o
manipolarlo quasi fosse un frutto. Vi si oppone la non folta schiera di
animalisti integrali e di vegetariani i quali potrebbero assumere come loro
nume tutelare Plutarco, autore di tre trattati sugli animali, Del mangiar
carne (De esu carnium), Gli animali usano la ragione (Bruta animalia ratione
uti) e L'intelligenza degli animali di terra e di mare (De sollertia
animalium) che Adelphi ha pubblicato in un unico volumetto a cura di Dario
Del Corno, con la traduzione eccellente e le note di Donatella Magrini.
Plutarco adotta per questi tre scritti il genere del dialogo che gli
permette di esporre le opinioni di tutti e di lasciare al lettore il compito
di riflettere. Ma su due principi non transige. È convinto che gli animali
partecipino dell'intelligenza e della ragione, pur in misura minore degli
uomini. "Dunque - spiega uno dei personaggi del dialogo su L'intelligenza
degli animali d'acqua e di terra - non dobbiamo dire... che gli animali, pur
avendo facoltà razionali più deboli e una attività intellettuale peggiore
della nostra, sono completamente privi dell'attività intellettuale, delle
facoltà razionali e della ragione stessa. Diciamo piuttosto che essi
posseggono un intelletto debole e torbido, come un occhio affetto da
debolezza visiva e offuscato". E a chi, come Odisseo, obietta in un altro
dialogo, Gli animali usano la ragione, come sia una terribile forzatura
attribuire la ragione a quegli esseri che non hanno ingenerata la nozione di
divinità, Grillo, un maiale di Circe parlante, risponde ironicamente che
proprio l'eroe greco è un discendente di quel Sisifo che era un ateo
integrale (Plutarco si riferisce a una versione del mito in cui è
considerato figlio di Sisifo)".
L'altro principio su cui non transige se non in parte è quello del rifiuto
di mangiare carne perché comporta l'uccisione e dunque un'offesa alla
dignità che appartiene a ogni essere vivente. Al massimo sarà lecito
uccidere le bestie selvatiche che siano dannose o feroci. D'altronde che
l'uomo non sia carnivoro per natura lo dimostra, secondo Plutarco, la sua
struttura fisica: non possiede becco ricurvo né artigli affilati né denti
aguzzi né viscere resistenti a umori caldi in grado di digerire e assimilare
un pesante pasto di carne cruda: "Se però sei convinto di essere
naturalmente predisposto a tale alimentazione - soggiunge
provocatoriamente - prova anzitutto a uccidere tu stesso l'animale che vuoi
mangiare. Ma ammazzalo tu in persona, con le tue mani, senza ricorrere a un
coltello o a un bastone o a una scure. Fa' come i lupi, gli orsi e i leoni,
che ammazzano da sé quanto mangiano...".
In ogni modo Plutarco non esclude del tutto la possibilità di nutrirsi, per
chi non può farne a meno, di carne; ma con un limite che così fa esprimere
alla voce di un di un immaginario animale in procinto di essere sacrificato:
"Non cerco di scongiurare la tua necessità, la tua tracotanza; uccidimi per
mangiare, ma non togliermi la vita per mangiare in modo più raffinato".
In ogni modo non ci si può sottrarre a un'evidenza: che è improbabile una
rinuncia universale all'uso alimentare della carne. Ma almeno, come
suggerisce Plutarco, si eviti lo strazio dell'animale e si provi dolore per
esso.
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