Diritti Animali

La cosa angosciosa per i padroni (ma forse quella che li rassicura) è che i cani avranno una vita troppo breve. Più o meno un settimo di quella umana. Il mio cane ha sette anni.

Le lacrime di Ulisse: due recensioni

Roger Grenier ed. e/o
21 febbraio 2004

Solo il cane merita le lacrime di Ulisse

I libri sui cani si vendono meno bene di quelli sui gatti, dice un libraio a Roger Grenier, autore di un bellissimo libro - che spero venda benissimo! - sui cani. O meglio: sui cani attraverso la letteratura e il rapporto che gli scrittori hanno intrattenuto con loro, tra realtà ed elaborazione fantasiosa e creativa.
Oggi, grazie ad autori come Regan e Singer, ma soprattutto a intelligenti gruppi di animalisti in tutto il mondo (e alla Dichiarazione dei diritti degli animali stabilita dall’Unesco nel 1978, di cui è peraltro migliore la vecchia Dichiarazione del Forum di Delhi del 1953, che venne tradotta immediatamente in italiano da Aldo Capitini) la nostra sensibilità verso gli animali è enormemente aumentata, in particolare verso le loro sofferenze. No, l’uomo non è più il centro dell’Universo, creato da Dio a sua somiglianza, è solo una delle creature del pianeta anche se è la più pericolosa, la sola che può distruggere tutta o quasi la vita sul pianeta.
L’uomo ha addomesticato molti animali, sottoponendoli alla propria necessità ma anche alla propria avidità, ed è stato loro tanto irriconoscente da arrivare a negare che abbiano una sensibilità, un’“anima”. A negare che noi si abbia insomma qualcosa in comune con loro, e si abbiano dei doveri nei loro confronti. Il discorso cambia con i cani, con i gatti, e con poche altre specie che l’uomo ha accolto nella sua casa e di cui ha fatto un suo forte referente affettivo. Va chiarito che - come ha sostenuto con grande vigore il premio Nobel Coetzee, animalista e vegetariano - le vittime più vittime di tutte nella storia del mondo e nel presente sono gli animali delle specie erbivore, gli equini, i bovini, gli ovini, che non mangiano nessuno e sono mangiati (o sfruttati) da tutti. E’ forse per caso che il “capro espiatorio” è un capretto, e l’ “Agnus Dei” un agnello?
Il discorso cambia con gli animali più domestici di tutti, ma perfino tra il cane e il gatto si pongono differenze. Roger Grenier ama i cani, e ne ha posseduti diversi, uno soprattutto di nome Ulisse, e da qui viene il titolo del suo libro-divagazione, Le lacrime di Ulisse , tradotto dal francese da Maria Nicola e pubblicato da e/o in 144 dense pagine al prezzo di 14 euro.
Grenier non è un personaggio qualsiasi; è uno scrittore assiduo, ma soprattutto è redattore presso Gallimard ed è stato l’amico forse più antico e più saldo di Albert Camus, di cui ha curato le Opere. Per mestiere ha letto molto, e così ha messo insieme, in capitoli ora brevi e ora lunghi, riflessioni e citazioni sul modo in cui gli scrittori hanno parlato dei cani. E il risultato è un vero godimento. Anche per chi non possiede o non ha mai posseduto un cane, se è persona di qualità, ma soprattutto per chi con i cani o con un cane ha un rapporto costante. "Molti cani si chiamano Ulisse. Ma il cane di Ulisse, come si chiamava? Argo". E attende il padrone "in condizioni meno confortevoli" della sua stessa moglie. Argo, vecchio e malandato, riconosce Ulisse che nessuno ha riconosciuto e poi muore. Ulisse piange per lui. "Ulisse piange molto nell’Odissea, ma ora che è ritornato, strappargli una lacrima è dato soltanto al vecchio cane".
Senza parere, senza voler dimostrare altro che la sua cultura di lettore professionale e non, Grenier insedia una galleria elegante, misurata, gentile, spiritosa e, mi si conceda la parola, parlando di cani, umanissima. E’ un vero piacere passare da un capitolo all’altro all’inseguimento di una variante nelle opinioni sui cani e nelle amicizie uomini-cani che i libri citati ci propongono, scritti per lo più da persone che i cani li hanno ben conosciuti, e che parlano - anche quando la loro narrazione prende le ali - proprio del concreto quattro-zampe che hanno più amato o che li ha amati.
Si va così da Schopenhauer (che detesta gli uomini e il cui amore per i cani è da tipico misantropo) a Maeterlinck, che constata come il cane sia il solo essere vivente ad "aver trovato e riconosciuto un dio indubitabile, tangibile, irrecusabile e definitivo", al punto da saperlo riconoscere anche nei più abbrutiti o disumanati degli uomini. Si va da Rilke e Baudelaire al cane forse meglio raccontato di tutti, assieme a quelli molto “virili” di Jack London: Flush di Elisabeth Barrett Browning, nel capolavoro di Virginia Woolf, Flush, vita di un cane .
Si va da Flaubert a Kafka, per il quale i cani sono in definitiva immagini dell’uomo, e che li “umanizza” per dimostrare la pochezza e fragilità dell’uomo. Si va da Cervantes, e i suoi dialoghi dei cani, a Goya pittore di cani. E da Napoleone a Turgenev, che ci serve a ricordare il cane da caccia, grande amico dell’uomo in tempi in cui la caccia aveva un significato, ma grande nemico di uccelli volpi conigli... Ci sono nel libro aneddoti a dozzine e citazioni a dozzine (degli italiani, che Grenier dimostra di conoscere poco, ci sono solo Pirandello e Malaparte ed è un vero peccato: ma questo può stimolare qualcuno a scrivere un libro speculare a questo solo sugli italiani).
Chi ama i cani, avrà di che trovar conferma al suo amore e al suo interesse, anche se Grenier è troppo intelligente per tacere dei difetti dei cani, nonché degli odiatori dei cani... L’amore senza controparte del cane, puro nella sua devozione, e l’amore ambiguo dell’uomo per il suo cane... Colette Audry non sbaglia quando dice che "il cane è, di tutte le creature della terra, quello che l’uomo ha scelto per farne il supporto dell’amore puro. Senza dubbio prendiamo moglie e marito perché amiamo, ma anche per costruirci un futuro, qualunque esso sia, qualunque cosa valga; abbiamo dei figli per assicurarci questo futuro . L’amore interviene come un di più, irresistibile, ma come un di più, contrariamente a quanto si immagina. Fra marito e moglie, talvolta non è che un punto di partenza, lo scatto iniziale: poi se ne fa a meno, come tutti sanno. Il cane, invece, è piuttosto come una sorta di amante. Ma perfino un amante porta con sé qualcosa che non è amore puro: la gloria segreta di una vita, per esempio, a torto o a ragione. L’amore puro non esiste fra esseri umani. Ma un cane lo teniamo con noi per amarlo ed esserne amati, punto e basta. E anche se lo abbiamo preso per altri motivi, si va sempre a finire lì. E’ questo che l’uomo ha fatto del cane".
Dura conclusione, sarebbe, se non arrivassero a salvare la nostra parte di umani quegli umani che sono disposti a fare per il cane quel che il cane sa fare per loro. Per esempio, Queneau, che "rifiutò un premio letterario perché gli era appena morto il cane" e che per non lasciare la sua ultima cagnetta rimandò il suo ingresso in ospedale e, dice Grenier, "non ho difficoltà a credere che questo abbia potuto affrettare la sua morte".
Ma dove Grenier invece cade, al contrario del suo collega Queneau alla Gallimard, è nel finale, quando dice, e qui rispunta il letterato e il cane torna pretesto e non soggetto del libro: "E se la letteratura fosse un animale che ci portiamo dietro, notte e giorno, un animale familiare ed esigente, che non ci lascia mai in pace, che bisogna amare, nutrire, portare a spasso? Che amiamo o detestiamo. Che ci dà il dolore di morire prima di noi: dura così poco la vita di un libro, di questi tempi".
Di questo libro, più che di tanti di Grenier, sono disposto a scommettere che durerà, nonostante questo finalino, e grazie alla galleria appassionante di “casi” che ha saputo attraversare per noi che preferiamo, scandalosamente, il rapporto vero con una o più persone, o con uno o più animali (ciascuno il suo, non necessariamente il cane) che quello con un libro: perché sono pochi i libri che valgono un amore.

Goffredo Fofi
Il Messagero 23-10-03

Per Argo l’unica lacrima di Ulisse

La cosa angosciosa per i padroni (ma forse quella che li rassicura) è che i
cani avranno una vita troppo breve. Più o meno un settimo di quella umana.
Il mio cane ha sette anni. Se vivessi la vita media di un italiano maschio,
tolga il cielo, sarebbe il penultimo dei miei cani: lascerei il prossimo
ancora giovane. Ha sette anni perché quello che lo precedette, il valoroso
Finn, era morto dapoco quando venni in galera, e la mia compagna prese un
successore per non aspettarmi da sola. Lo conobbi in un intervallo di
libertà in mezzo a questi sette anni, e dopo un'ora mi trattava come se
fossimo stati assieme da sempre. Si chiama Felix. Qualche giorno fa è stata
trasmessa una conversazione fra me e Fabio Fazio in televisione, nella quale
nominavo il mio cane. Ho avvertito Randi e Mihaela, le quali aspettandomi
vivono con Felix, che tenessero il volume alto, e mi raccontassero come
avrebbe reagito Felix quando avesse sentito la mia voce pronunciare il suo
nome. A malincuore, mi hanno riferito: Felix dormiva (era la seconda
serata), non aveva aperto gli occhi, e tantomeno sobbalzato, né sollevato il
suo testone di pastore tedesco. Non ha nemmeno sventolato un po' l'orecchio
sinistro. Niente. Nonostante Mihaela, che ha poco più della sua età,
cercasse di dargli un calcetto nel momento fatidico. Per consolarmi, mi
hanno fornito le giustificazioni scientifiche: i cani non vedono e non
sentono la televisione, questione di ultrasuoni o chissà, guarda che non
batte ciglio nemmeno quando Rex si mette ad abbaiare al colpevole. Mah.
E' uscito un libro di Roger Grenier, tratta di cani e padroni, veri e
letterari. Si intitola Le lacrime di Ulisse, edizioni E/o. Il titolo viene
dal famoso incontro fra il ritornato Ulisse e il vecchio cane Argo. Argo,
solo lui, riconosce Ulisse. Scuote la coda, abbassa le orecchie, ma non ha
la forza di accostarsi al padrone, e muore. Ulisse volta la testa e si
asciuga una lacrima. Grenier commenta che la sola lacrima di Ulisse
ritornato è strappata dal cane. Anni fa avevo riletto l'episodio. Bisognava
che Ulisse non fosse riconosciuto, ma mi sembrava un gran peccato che la
mano di Ulisse non grattasse per l'ultima volta dietro l'orecchio il cane
decrepito e pieno di zecche, e che Argo non leccasse per l'ultima volta la
mano del padrone.
Si possono amare i cani ed essere i peggiori farabutti. Adolf Hitler amava i
suoi cani e se ne portò all'inferno una cucciolata. Non c'è nessuna ragione
per fidarsi degli amanti dei cani. Però dei cani sì. "Né incluso, né
escluso": così chiama il cane Rainer Maria Rilke. Mezza riga per dire la
meravigliosa storia che Jack London racconta in due romanzi, Zanna bianca e
Il richiamo della forsta. Io preferivo Il richiamo della foresta.
Mi piaccioni, i lupi. Una volta, tanto tempo fa, una giovane donna, poco più
che una ragazza, camminava su un sentiero del Carso triestino, tra Monrupino
e Orlek. Era una maestra e andava da un paesetto all'altro a fare scuola.
Era d'inverno, e c'era la neve. La giovane camminava svelta, si voltò
indietro e vide, a qualche decina di passi da lei, un grosso cane lupo.
Affrettò ancora il passo, senza mettersi a correre (non si deve correre) e
voltandosi di tanto in tanto: il lupo le veniva dietro. Aveva ormai il cuore
in gola, quando sentì abbaiare alle sue spalle. Si voltò, e videl che il
cane si era fermato e stava accucciato sulle zampe di dietro. Le abbaiò
ancora, e la giovane donna vide qualcosa di colorato sulla neve, davanti
alle zampe del cane. Era il suo foulard, l'aveva perduto nella corsa. La
giovane donna tornò indietro, raccolse il fazzoletto, ringraziò e carezzò il
bravo lupo. Mi pace questa storia. Mi piace ricordarmi di mia madre ragazza, tanti anni prima che mi mettesse al mondo.
Qui ho una branda di ferro, un neon livido e parecchie zanzare. A casa avevo un letto di lusso su un soppalco, pieno di cuscini, libri, tappeti, lampade, quadri e una gran zanzariera. Ci si sale per una scala a vista senza ringhiera, con gli scalini di legno posati su un telaio di metallo. Felix
aveva paura della scala. Adduceva vertigini. Però aveva un tal desiderio di
non allontanarsi da me che, tremando costa a costa,come un gattino, si
rassegnava a fare la scala, e poi non voleva più venire giù. Abbiamo dormito
tanto, giorno e notte, in quella breve vacanza. Da quando non ci sono, non
si è mai più arrampicato fino a quel letto vuoto.
Anni fa, grazie a Giovanni Minoli, che di televisione è un vero maestro,
imparai a usare la telecamera e la usai in giro nelle guerre. Il mio primo
film, ospitato da Mixer, si intitolò I cani di Sarajevo. Erano cani che
avevano perduto i padroni, perché i padroni erano morti, o non avevano
niente per sfamarli. Giravano macilenti senza capire. Forse avevano capito
tutto. Non scrivo per difendere i cani, neanche contro quelle classifiche di
pericolità al garrese. Se un cane è stato tirato su male, restate immobili e fate finta di niente. Poi, passato il pericolo, andate a cercare il padrone.
Dove abito ora, una volta l'anno più o meno viene una grande perquisizione,
polizia, finanza e tutto. Noi ci ammucchiamo in uno stanzone, o nel cortile,
e aspettiamo in pigiama e con le facce grigie che sia finita. Al rientro
passiamo in fila indiana davanti a un cane lupo, o una cagna, che ci annusa.
Cerco di carezzarle il muso. Benché addestrata, secondo me lei si accorge
che sono un brav'uomo.
Dal libro di Grenier, copio questo passo: “Emanuel Levinas, deportato in
Germania e assegnato a una squadra forestale composta di prigionieri di
guerra di origine ebraica, vede che agli occhi dei guardiani e perfino dei
passanti non appartiene più alla specie umana. Poi un cane randagio viene a unirsi a loro. “Per lui - non c'era alcun dubbio - eravamo uomini”.

Adriano Sofri
Panorama 13/11/03

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