La carne “liberalizzata”
Da millenni componenti culturali ma soprattutto religiose mantengono la popolazione dell’India tendenzialmente vegetariana. L’Induismo e il Buddismo, le due più grandi religioni praticate in questo immenso continente con più di un miliardo di abitanti, permeano ogni aspetto della vita sociale, accordando rispetto e benevolenza a tutto il mondo animale. L’Induismo che fonda le sue radici nei Rig-Veda e nelle Upanishad crede nella trasmigrazione delle anime e quindi nella reincarnazione. Il Buddismo che vede nel suo fondatore, il principe Siddharta, uno strenuo difensore di ogni vita, condanna in modo perentorio e reiterato, come si evince dai numerosi testi della sua dottrina che ci sono pervenuti, le uccisioni di animali.
Ma in questi anni, grazie a un vasto programma di liberalizzazione e alle politiche di “aggiustamento strutturale” dettate all’India dalla Banca Mondiale e dal World Trade Organization (Wto), si cerca di trasformare una società da sempre prevalentemente vegetariana in una di carnivori. Il Ministero dell’Agricoltura indiano infatti, avversando sentimenti religiosi profondi e radicati (soprattutto nelle zone settentrionali e occidentali della regione) offre sussidi fino al 100% e incentivi fiscali per incoraggiare l’apertura di macelli. Sul piano economico-sociale le ripercussioni di questo nuovo corso non si sono fatte naturalmente attendere come denuncia la fisica ed eco-femminista Vandana Shiva dalle pagine di “Vacche sacre e mucche pazze” (ed. Derive Approdi 2000). Da almeno una decina d’anni a questa parte le esportazioni di carne di vacca, vitello e bufalo sono praticamente “quasi raddoppiate e stanno portando al declino del bestiame agricolo esistente nel paese non solo sul piano quantitativo, ma anche della varietà della razza. Questo declino della varietà e della ricchezza animale sta provocando gravi danni soprattutto alle classi meno abbienti che sono i senza terra, le caste inferiori, e le donne (che in India compiono ancora il 90 % delle attività relative all’allevamento). Due terzi dei 70 milioni di famiglie che traggono dal bestiame la propria sussistenza sono per lo più piccoli contadini o lavoratori senza terra. Con l’aumento dell’esportazioni di carne, sono cresciuti i prezzi del bestiame, e si trova sempre meno letame da usare come fertilizzante o combustibile. Per sostituire allora l’energia e la fertilità che il bestiame procurava gratuitamente all’economia rurale, occorre importare più fertilizzanti, più combustibili fossili, e più mezzi meccanici come camion e trattori. A conti fatti se l’esportazione di animali porta al paese 10 milioni di rupie, la distruzione della ricchezza animale costa al paese 150 milioni di rupie ”. Un’inversione di tendenza a questo corso degli eventi risulta difficile, anche se, in una causa divenuta esemplare vinta contro un macello nella regione indiana dell’Andhra Pradesh, il giudice ha ordinato una riduzione del 50% della sua capacità di macellazione per salvare il bestiame e l’economia rurale. La sentenza ha decretato che: “ Il dovere fondamentale della compassione per tutte le creature viventi stabilito nella nostra costituzione…Primo, lo stato indiano non può esportare animali vivi affinchè essi siano uccisi; secondo non può collaborare nell’uccisione degli animali avallando l’export di scatolame contenente parti di animali macellati. Questo significa preservare il retaggio culturale dell’India…L’India può esportare un messaggio di compassione verso tutte le creature viventi nel mondo, che serva da monito al mondo per preservare l’ecologia, che è Dharma comune ad ogni civiltà”.
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