Il campo dello squallore
Immaginate 400 metri quadri di terreno recintato con filo spinato da cui è stata divelta ogni forma di vita. In mezzo a esso uno squallido tendone di rete verde sorretto da uno scheletro metallico. All'interno, ammonticchiati senza criterio, ogni sorta di contenitori "di recupero", non escluso un water, uniti dal comune denominatore della bruttezza, riempiti di terra; nella terra, piante in provvisoria fioritura. Conficcate verticalmente nel terreno, grottesche scope variopinte dal dubbio significato. In un angolo, su uno sdrucito tavolino di plastica, delle banane mezze marce. E poi le farfalle: dozzine di splendide, grandi farfalle rinchiuse in mezzo a questo concentrato di squallore «per tutto il loro ciclo vitale», ridotte a cupe sagome nere aggrappate alla rete, immobili per ore, alcune con le ali spezzate, forse nel patetico tentativo di raggiungere quel cielo che vedono ma che è loro negato. Più volte sono tornato sul posto, mai ho visto una di esse levarsi in volo. Mai.
Tutto ciò vorrebbe essere una metafora della condizione di quegli esseri umani che vivono nei campi profughi. Questa è almeno la dichiarazione d'intenti dell' "autrice". Ma da quando in qua si condanna la sofferenza provocando sofferenza, sia pur "soltanto" nei confronti di farfalle? Da quando in qua costruire un lager è un modo per condannare i lager? Da quando in qua produrre morte è un modo di difendere il diritto alla vita?
Nel film La seconda ombra di Silvano Agosti - film contro la segregazione manicomiale del malato di mente - i "matti" abbattono il muro del manicomio. Ciò che accade qui è l'equivalente di ciò che in quel film sarebbe stata l'erezione del muro.
Ma il paragone con un'opera d'arte, sia pure non fra le più riuscite del suo autore, qui è del tutto fuori luogo. Questa realizzazione sta all'arte, alla cultura come un mercatino rionale sta al Louvre, sta alla civiltà come la spietatezza alla solidarietà.
E le parole spese per giustificarla stanno alle solide argomentazioni come i giochi di prestigio alla scienza. Elga Berettoni presenta il lager come «un'opera che racchiude in una installazione molteplici significati filosofico-politici-sociali». Confrontate queste parole con le immagini che illustrano l' "installazione". Non credo ci sia altro da aggiungere.
Ma la Berettoni aggiunge: «L'opera d'arte», poiché questa a quanto pare le sembra tale, «non è più un concetto museale bensì antropologico, seguendo la filosofia tipica di Joseph Beuys». E conclude la sua agiografia: «L'arte come Vita, nella sua spettacolarizzazione in cui l'uomo non è più solo artista-produttore di opere-manufatto, bensì protagonista e interprete di Aktionen». Non ho visto "Vita" sotto quella rete ma solo squallore e lente agonie. Quanto all'essere l'uomo «protagonista e interprete», non ho visto esseri umani rinchiusi lì dentro. Pertanto mi sembra che ci sia una svista da parte dell' "autrice" o della sua esegeta. Supponendo - e sperando - che la svista sia della prima, non le rimane che rimediare, in ottemperanza ai principi di cui si dichiara seguace, rendendosi di fatto «protagonista e interprete» della sua "creazione". Che dunque ci si rinchiuda lei sotto la rete che chiama "voliera", fra le scope, i bidoni, il water e le banane marce. «Per tutto il suo ciclo vitale».
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