Morire al Palio per una legge che ha paura della tradizione
18.08.04
Una morte annunciata, quella del cavallo Amoroso, prevista e prevedibile, alla luce di quello che rischia di diventare una sorta di sacrificio annuale, in cui il versamento di sangue equino fa parte della ritualità. Quella del Palio di Siena è ormai una tradizione che prevede, secondo un copione scontato, la rabbia degli animalisti, l'intransigenza dei tradizionalisti e la pena impotente dei più.
Le riflessioni amare nascono dal fatto che una recente legge, per molti aspetti benemerita, sul maltrattamento degli animali - e che ha visto un giusto inasprimento delle pene per comportamenti gravi come l'abbandono, purtroppo non diminuiti come riferiscono le cronache di questi giorni - contempli deroghe per feste e manifestazioni locali in cui si impieghino animali.
Cosa significa? Che il legislatore rinuncia a intervenire in talune aree protette, pensando che la tradizione sia una ragione tanto alta e importante da consentire condotte eticamente riprovevoli? O, più ipocritamente e prudentemente, che si attiene alla regola della non interferenza, ritenendo che le feste locali, in quanto fonti di guadagno, siano da gestire in base a sensibilità appunto "locali", senza alcun riferimento a criteri di carattere generale? In entrambi i casi, non si può che restare profondamente insoddisfatti. Il fatto che la tradizione senese preveda una corsa di cavalli lascia impregiudicata la questione di come essa debba essere condotta.
La tradizione non è un tiranno che imponga le sue leggi incondizionatamente. Si pensi alla problematica seria e importante che dobbiamo affrontare nella nostra società multietnica di fronte a costumi e a pratiche che non ci appartengono ma nei cui confronti sentiamo l'esigenza del rispetto e insieme dei limiti della tolleranza. Ma tale conflitto avviene anche all'interno della nostra cultura: oltre la dimensione interculturale esiste infatti una prospettiva intraculturale che riguarda la compatibilità fra tradizioni locali e legislazione nazionale o, se si vuole, il rapporto tra particolarismo e universalismo. È il problema rappresentato dalle deroghe previste dalla legge in questione. Può una tradizione locale, per quanto antica, contraddire sostanzialmente una legge che si ritiene valida per l'intera popolazione e che considera intollerabile ogni inflizione gratuita di sofferenza o ogni condotta che comporti un rischio serio di morte agli animali? In sostanza è come se si affermasse che la tradizione è un valore tale che dev'essere rispettato comunque e dovunque, costi quel che costi, sacrifici animali compresi. Ma siamo sicuri che è proprio questo che essa esige dai suoi fedeli?
Tradizione deriva dal latino tradere: è ciò che ci è stato tramandato, nel bene e nel male, e che noi custodiamo alla luce di quel che, nel frattempo, siamo divenuti. Essa implica, dunque, anche il cambiamento. E proprio qui risiede la difficoltà del rapporto ma anche la bellezza di una sfida. La nostra relazione col passato non può essere una semplice riproposizione: se così facessimo, tradiremmo il nostro procedere nel tempo che guarda non solo al passato ma, soprattutto, al futuro. La tradizione va ripensata, rivisitata criticamente, arricchita di tutte quelle conquiste che la nostra cultura e, in primo luogo la nostra etica sociale, hanno elaborato. Non per essere tradita ma mantenuta nella sua vitalità, in forme nuove in cui uomini e donne nuove possano, senza imbarazzo o vergogna, riconoscersi.
Certo molte tradizioni non resisteranno alla sfida della rivisitazione e moriranno: quante di esse sono scomparse senza rimpianto proprio perché incapaci di fare i conti con esigenze inedite che maturavano e valori nuovi che emergevano! Ma quelle che resistono al conflitto hanno una solidità sufficiente e una forza che consentono loro di mutare e, insieme, restare.
Ritorniamo al caso del Palio. La sensibilità che, come collettività, abbiamo nel complesso acquisito nei confronti della questione animale, ci fa ormai considerare intollerabile ogni maltrattamento, specie nei casi di feste, cioè di occasioni in cui la gioia di tutti, umani e non umani, dovrebbe essere garantita. Molte feste popolari che prevedevano l'impiego crudele di animali - considerati veri e propri capri espiatori - sono state rivisitate mantenendone il "colore" ma escludendone la componente crudele divenuta inaccettabile. Si sono snaturate? No, sono trasmutate. È il caso, tra gli altri, della giostra del maialino di Segni che ha indotto saggiamente, la cittadinanza a usare una sagoma di legno anziché un animale vero da percuotere.
Solo il Palio sarà esonerato dalla ricerca di una conciliazione possibile tra diverse istanze e lasciato in una sorta di zona franca, al riparo da qualsivoglia incursione di pensieri, di preoccupazioni che non siano solo quelli dei senesi delle contrade? È giustificata la sua strenua resistenza alle richieste di quegli altri cittadini, gli italiani appunto, che vorrebbero impedire la gara ai cavalli purosangue i cui garretti sono condannati a spezzarsi su un terreno non adatto?
Alla ragionevolezza delle richieste si è opposto finora un fanatismo tradizionalista a cui occorre reagire con fermezza, chiedendo il rispetto delle regole a tutti e, in primis, l'abolizione di ogni deroga che rappresenti una violazione del principio generale per cui ogni animale ha diritto a non essere fatto soffrire, a non essere esposto a pericoli e a condotte rischiose incompatibili con la sua natura e con le sue attitudini. I maltrattamenti sono un reato sempre e comunque, indipendentemente dal contesto in cui avvengono o delle ragioni per cui sono causati: bene ha fatto la Lav a denunciarli. Ma soprattutto bene farebbe Siena se, in nome della sua antica civiltà, rendesse il Palio davvero civile e cioè compatibile con le regole e i valori della società più grande. Questo l'impegno e l'auspicio: il Palio diventi una festa di vita per tutte le specie, il gioco preveda compagni e non più vittime, la morte non ne sia più il prezzo.
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