«Caso Scanzano» a Washington
La reazione «degli amministratori locali» lucani che, nel 2003, bloccarono la costruzione del deposito nazionale di scorie nucleari a Scanzano Jonico, arriva a Washington e diventa un «caso di studio» per il Congresso degli Stati Uniti. Lo rivela un documento esclusivo che il Government Accountability Office (il Gao è il braccio investigativo del Congresso) ha appena pubblicato sul suo archivio elettronico www.gao.gov). L’incartamento è la trascrizione della deposizione fatta dal direttore del dipartimento Risorse Naturali e Ambiente, Gene Alois lo scorso 20 maggio. I deputati, infatti, stanno affrontando una questione che riguarda molto da vicino il nostro Paese.
Come rivelò la «Gazzetta» in anteprima nazionale, a giorni la Commissione nucleare americana potrebbe autorizzare l’importazione dall’Italia di 20.000 tonnellate di rifiuti radioattivi e anche l’esportazione in Italia di circa mille tonnellate di scorie (per far chiarezza in proposito, il deputato pugliese Dario Ginefra, del Pd, ha presentato un’interrogazione). Se arrivasse l’«ok» della Commissione Usa, il nostro Paese si libererebbe di 28.300 metri cubi di materiale contaminato delle 4 centrali atomiche italiane e di alcuni impianti della «filiera atomica», come l’Itrec di Rotondella, in provincia di Matera. Il problema è che tre deputati (Jim Matheson per lo Utah, Ed Whitfield per il Kentucky e Bart Gordon per il Tennessee), hanno proposto di modificare l’Atomic Energy Act e, quindi, di proibire alla Commissione nucleare Usa di autorizzare le importazioni di scorie. Sintetizzando, la loro preoccupazione è la seguente: posto che in America ci sono 104 centrali atomiche, se noi statunitensi riempiamo i nostri depositi di rifiuti radioattivi stranieri, dove metteremo quelli che produciamo noi?
Così Gene Aloise ha dovuto fare il punto della situazione. Per prima cosa ha dovuto ammettere che il Gao, nel 2005, si sbagliava quando sosteneva che i depositi americani potevano stoccare le scorie nazionali per altri 33 anni. I calcoli - si legge nel documento, redatto in inglese - devono essere rifatti, perché non tenevano conto dei rifiuti importati. L’alto funzionario rivela, poi, che «soltanto l’Italia non può smaltire i rifiuti a bassa e ad alta radioattività e non ha centralizzato lo stoccaggio delle scorie».
Soltanto l’Italia su 18 Paesi: Australia, Belgio, Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Giappone, Messico, Norvegia, Olanda, Repubblica Slovacca, Spagna, Svezia, Svizzera e Gran Bretagna. Per spiegare al Congresso questa «anomalia internazionale», Aloise afferma: «Come riportato dall’Italia alla Nuclear energy agency, nel 1999 (Governo D’Alema - n.d.r.), il governo italiano ha incominciato a sviluppare una strategia per gestire l’“eredità” della passata attività atomica.
Strategia che prevedeva che una nuova compagnia nazionale (la Sogin, Società Gestione Impianti Nucleari; n.d.r.) si occupasse dello smantellamento degli impianti nucleari. Il governo creò anche una Agenzia nazionale che avrebbe dovuto occuparsi del deposito unico nazionale dei rifiuti radioattivi». «Un successivo decreto governativo (Governo Berlusconi; n.d.r.), nel 2001 accelerò il processo per l’individuazione di un deposito nazionale, che avrebbe dovuto diventare operativo nel 2010. Ciononostante - continua il dirigente americano - il governo italiano ha recentemente riferito di aver incontrato sostanziali difficoltà nella creazione del deposito perché gli amministratori locali hanno bocciato i siti che erano stati individuati». La loro «resistenza - precisa Gene Aloise – ha fatto cancellare la data» in cui l’Italia avrebbe potuto disporre d’un deposito per le sue scorie ovvero, «circa 31.130 metri cubi di rifiuti a bassa radioattività che deriveranno dallo smantellamento degli impianti nucleari, cui vanno sommati i 23.461 metri cubi che già sono stoccati».
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