Val D'Agri, l'oro nero ha arricchito le multinazionali

Doveva essere la chiave per uno sviluppo forte della regione. Così non è stato. Le vicende di oggi spiegano anche perché ha rappresentato per lungo tempo il sogno di riscatto dell’Italia meridionale, quella più povera.
17 dicembre 2008
Roberto Rossi
Fonte: L'Unità

trivelle in azione L’oro nero della Basilicata l’avevano chiamato. Ma di oro se ne è visto ben poco, di nero invece tanto. Perché il petrolio della Val D’Agri ha arricchito le multinazionali chiamate a sfruttarlo, ma non le popolazioni locali che da anni si ingoiano fumi e veleni delle estrazioni.

In Basilicata si estrae oltre l’80 per cento del petrolio di tutta Italia. Secondo le stime ufficiali, nel parco nazionale della Val d’Agri, che possiede giacimenti di ben 47 pozzi, si custodiscono 465 milioni di barili. Considerando che il petrolio staziona attorno ai cinquanta dollari al barile, il tesoro finale è di quasi 23 miliardi, dollaro più dollaro meno. E dal 2011, oltre alla Val d’Agri, dove sono presenti Eni, Esso, Total e Shell, si comincerà a sfruttare anche i giacimenti di Tempa Rossa, che si trovano un po’ più a Nord, con una potenzialità da 480 milioni di barili e un valore di altri 23 miliardi di dollari. Una manna dal cielo, ma solo per chi possiede e sfrutta i pozzi. Per gli abitanti spesso solo il rischio di incidenti. L’ultimo il 23 novembre scorso nel centro oli di Viaggiano. In seguito a un’esplosione le abitazioni dei residenti sono state inondate da petrolio.

E dire che all’inizio erano tutti felici e contenti. Addirittura la Val D’Agri era presa come esempio di sviluppo compatibile. Era chiamata la «Svizzera del Mezzogiorno», la «Lucania Felix», il «Texas d’Italia», il «Kuwait del Mezzogiorno», la «Lucania Saudita». Si pensava che finalmente si sarebbe potuto abbassare il prezzo della benzina, che si sarebbe messo in moto un meccanismo virtuoso per cui si sarebbero ricostruite strade e ferrovie, rimodernate quelle esistenti, che si sarebbe potuto finalmente mettere la parola fine alla piaga dell’emigrazione verso il Nord.

Il risveglio invece è stato tragico. Dalla Basilicata si emigra con un ritmo di quattromila unità l’anno e mancano ancora le infrastrutture. Anche perché l’occupazione non è affatto cresciuta, come lamentano i comuni interessati. È vero che sono stati assunti centotrenta tecnici lucani, e altre assunzioni erano programmate, però per il resto buio fitto. Dal 1995 fino ad oggi, infatti, agli imprenditori lucani sono toccati modestissimi appalti riguardanti l’edilizia, la pulizia ed il mero supporto. Ne hanno tratto vantaggio, invece una quarantina d’imprese, di cui solo 18 italiane: per il resto, è stato tutto affidato a multinazionali americane.

Quello che traspare è che l’unica cosa certa che i lucani hanno ricavato dal loro petrolio è l’inquinamento. Una ricerca dell’International Journal of Food Science sostiene che in Basilicata si trova un valore altissimo di «fragranze pericolose per l’uomo», vale a due benzeni ed alcoli, nel miele prodotto dalle api locali.

E se vogliamo dirla tutta anche il tanto celebrato accordo Eni-Regione Basilicata non è un granché e le royalty pagate alla regione risultano una vera e propria miseria. Il gruppo statale ha garantito 500 milioni di euro, già versati. e un potenziale di due miliardi per i prossimi anni se si riuscirà ad arrivare ad uno sviluppo completo della Val d’Agri. Le royalty, poi, percentualmente sono il 7% della produzione, il 4 per cento se estratte in mare. Non un granché. Anzi tra le più basse al mondo.

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