La Nazione Umana Latinoamericana di fronte alla Globalizzazione
Documento preparato in collaborazione con Dario Ergas e Francisco Ruiz-Tagle
Introduzione
Di questi tempi, è molto difficile per un cittadino comune vedere se stesso come agente di cambiamento del corso degli avvenimenti sociali. “In quali panni?”, si domanda uno, e si rassegna poi ad essere un passeggero più o meno fortunato di una barca della quale non conosce assolutamente né l’itinerario né il destino. Oltretutto, le urgenze del presente ci fanno dimenticare continuamente che viaggiamo insieme ad altri verso qualche meta e immaginiamo il domani come la ripetizione infinita dell’oggi. Allora tendiamo a credere che il cambiamento globale si produca grazie all’accumulazione dei milioni di affanni individuali, per cui smettiamo di preoccuparci del destino comune e ci richiudiamo nella nostra cella d’ape compiendo più o meno brillantemente il ruolo che le circostanze ci hanno destinato all’interno dell’alveare.
Comunque sia, non percepire che la terra si muove non significa che questa abbia smesso di muoversi… che lo sappiamo o no, il nostro destino particolare dipende dal destino del sistema nel quale siamo inclusi e non viceversa. È come se stessimo in un treno che si dirige verso un precipizio; non è cambiando posto nei vagoni che eviteremo l’incidente; per farlo dovremmo frenare il convoglio o cambiare la sua direzione.
Noi individui siamo parte di una struttura sociale maggiore che, oltretutto, è in movimento, cioè sottomessa a cambiamenti e trasformazioni che non comprendiamo e che non sappiamo interpretare. L’unica cosa chiara è che finiremo rapidamente lì dove essa stessa andrà (e con noi i nostri figli e nipoti…). Rendersi conto di questo fatto ci fa chiedere necessariamente verso dove ci porta la struttura maggiore, verso una situazione migliore o peggiore dell’attuale? E se la direzione che seguiamo fosse distruttiva, come sembra indicare l’esperienza diretta quotidiana, cosa potremo fare per modificarla?
Sono domande difficili alle quali rispondere. Ancor più oggi, perchè quel sistema del quale siamo parte già non è più locale, ma globale: non si tratta più del sistema di un paese o di una regione, ma del mondo intero, situazione che sembra costituire una grande sfida per un “povero mortale”, che anche se si trova in un luogo remoto, in tutti i modi vede la sua vita sottoposta alle stesse pressioni ovunque. Ma il fatto che oggi siamo tanto ciechi di fronte a dimensioni come quelle di “struttura” o “processo” non significa che questo sia sempre stato così, e sono molti i fattori che hanno inciso in questa cecità. Ciò che è certo è che, da sempre, gli esseri umani hanno cercato di comprendere le leggi che reggono la Storia per potere dare a detto processo una direzione intenzionale e non accidentale. Oggi quella comprensione diventa più necessaria che mai, prima che sia troppo tardi.
Non è la prima volta che l’essere umano si trova di fronte a un bivio storico simile, questo è già successo molte volte in passato. Ma, a mio modo di intendere, la differenza sta nel fatto che adesso la risposta non verrà da certi leader illuminati che la imporranno dall’alto alle popolazioni; la risposta la troveranno tutti i popoli nel loro insieme, i veri protagonisti della storia. Ci sono molti indicatori che evidenziano che questo comincia ad accadere in diverse latitudini ed è necessario stare attenti a questi segnali.
La nostra intenzione è collaborare alla ricerca, cercando di ampliare la prospettiva rispetto al momento in cui ci tocca vivere. Quando saliamo sulla cima di una collina vediamo più cose e comprendiamo certe relazioni che eravamo incapaci di percepire dalla pianura. Prendere distanza dal nostro momento storico ci può aiutare a trovare più velocemente le risposte che stiamo cercando.
La globalizzazione, un vicolo cieco
Il paradosso del sistema
La crisi attuale è segnata da un fatto singolare nella nostra storia: il mondo, la società umana vanno nella direzione di trasformarsi in un sistema chiuso ed unico. “E questo come mi tocca?” si domanderanno molti. Ebbene, succede che la dinamica strutturale di ogni sistema chiuso è la tendenza all’aumento del disordine; e pretendendo di ordinare quel disordine crescente, l’unica cosa che si ottiene è accelerarlo. Cosicché benché un individuo isolato voglia vivere in pace, non si potrà sottrarre al caos che sta colpendo quella struttura che lo include.
Quindi, quando da un centro imperiale si cerca di imporre un Nuovo Ordine mondiale disciplinando le società affinché si sottomettano ad un unico modello socio-culturale, si ottiene esattamente il contrario, come si sta vedendo tutti i giorni nei mezzi di comunicazione mondiali: si enfatizzano le differenze e si polarizzano i conflitti. Con una caratteristica particolare, propria del momento: oggi quei conflitti non sono geopolitici come è successo durante la Guerra Fredda, sono culturali ed etnici. Ricordate la guerra dei Balcani o il conflitto con l’Islam, per citare i più importanti.
Ci sono molti indicatori di questo “disordine” progressivo che descriviamo e che, per semplice inerzia, potrebbe tendere ad aggravarsi nel futuro fino ad arrivare alla decomposizione totale del sistema. Il fatto che sia caduta l’Unione Sovietica alcuni anni fa non è una vittoria del Capitalismo, come tendono interessatamente a vederla i difensori di detto modello; ma può essere un’anticipazione di quello che succederà a quest’altra parte del sistema in un futuro prossimo.
Come si può vedere, a questi livelli ormai non si tratta della buona o cattiva volontà di individui o paesi bensì di una meccanica che in qualche momento della storia una minoranza irresponsabile ha messo in moto, abusando del potere arbitrario che deteneva e che oggi segue il suo corso inerziale, senza che gli esseri umani compresi in quel sistema chiuso possano modificarlo. Allora il problema non sta nei contenuti bensì nel “contenitore”, a maggior ragione se questo è l’unico esistente. Quello che stiamo dicendo è che, per quanto tentiamo, non sarà possibile risolvere i gravi problemi sociali e umani che sussistono ancora nel mondo e nella nostra società particolare se non apriamo il sistema . Ma aprirlo verso cosa, se non ne esiste un altro diverso? Questo è il problema.
Bisogna evidenziare che quando questo stesso processo si produsse in culture e civiltà anteriori, non si trattava di imperi mondiali. Questo fece sì che il tentativo egemonico fosse limitato, e permise che rimanesse assicurata la riserva di diversità nelle periferie più lontane di quegli imperi. Quelle riserve furono il germe delle nuove civiltà che rimpiazzarono la cultura dominante, quando essa cominciò a decadere.
Attualmente, preservare quella diversità è molto più difficile perché il fenomeno ha carattere globale. Ma, per lo stesso carattere, è ancora più necessario perché altrimenti da dove usciranno le alternative che sostituiranno la cultura dominante che ha cominciato già a decadere in modo accelerato? Quindi la preservazione della diversità culturale ormai non è un nostalgico esercizio etno-folkloristico, ma una necessità storica.
La globalizzazione e le sue conseguenze
L’etimologia della parola “omogeneità” è qualcosa come: “lo stesso gene”. Qualcuno può immaginarsi la natura che scommette su una sola specie, su una forma di vita unica? Se il processo evolutivo si fosse manifestato in quel modo, la vita non sarebbe durata molto sulla faccia della terra e la specie umana non sarebbe mai esistita. La vita, nel suo dispiegamento incessante di adattamento crescente all’ambiente, si appoggia sulla diversità, assicurandosi che alcune delle infinite risposte di adattamento che dà avranno successo e proseguiranno.
Ebbene, noi esseri umani, spinti dalla stupidità patologica dei nostri attuali leader, stiamo facendo esattamente il contrario: scommettere sull’omogeneizzazione, su uno stile di vita unico, su una sola risposta di adattamento che si è cercato di generalizzare a tutto il pianeta attraverso la forza. Questa è la Globalizzazione. “E se fallisce, abbiamo un piano B?” si domanderà qualcuno con più buonsenso di quello che hanno quelli che ci dirigono. La risposta è che, in questo momento, quell’alternativa non esiste; o, per non essere pessimisti, esiste ma è debolmente socializzata.
Questo modello è cominciato con la nascita del Capitalismo, potenziato dalla Rivoluzione Industriale. Da lì in poi, abbiamo assistito alla nascita e all’espansione di una borghesia sempre più potente, che ha lottato per impadronirsi del mondo. Questo processo è passato per varie tappe fino ad arrivare al momento attuale, nel quale la concentrazione del potere finanziario ha sottomesso l’industria, il commercio, la politica, i paesi e gli individui. Si è arrivati alla tappa di sistema chiuso e in quella situazione non rimane altra alternativa che l’aumento dell’entropia fino alla sua totale destrutturazione.
Stiamo già vedendo come il capitale finanziario internazionale tenda ad omogeneizzare l’economia, il Diritto, le comunicazioni, i valori, la lingua, gli usi e i costumi. Mentre in alto si va consolidando un mostruoso parastato che cerca di controllare tutto, in basso il tessuto sociale continuerà il suo processo inesorabile di decomposizione. Queste tendenze contraddittorie si andranno accentuando fino a che l’antica speranza di uniformare tutto nelle mani di uno stesso potere svanirà per sempre.
Quello che segue è la stessa cosa che abbiamo visto nella decadenza di altre civiltà, salvo per il fatto che, essendo un sistema mondiale chiuso, non ci sono espressioni umane differenti che possano sostituire quello che cade. Possiamo solo aspettare un lungo ed oscuro medioevo mondiale. A meno che…
L’apertura di un sistema chiuso: dal “mono” al “multi”
La tendenza a uniformare le cose sembra essere caratteristica degli ultimi due o tre secoli della nostra storia. Infatti, se non ci fossimo uniformati verso “destra”, come succede oggi, lo avremmo fatto verso “sinistra”, visto che i socialismi reali avevano una compulsione simile. Quando Mao ha lanciato la sua rivoluzione culturale disse: “che fioriscano mille fiori”; lo slogan suonava bene, ma poi precisarono che tutti i fiori dovevano essere uguali. I totalitarismi sono cattivi per le persone, perché limitano o annullano la loro libertà per mezzo della forza. Ma quando un totalitarismo si impone su tutta la specie umana, come succede con la globalizzazione, siamo in presenza di un disastro enorme perché ci lascia senza altre opzioni di risposta.
La domanda che sorge di fronte al dilemma proposto è: verso cosa può aprirsi un sistema chiuso se è unico? La risposta possibile e un po’ strana: verso dentro, verso la sua stessa diversità. Fortunatamente, noi esseri umani non siamo solo “condizioni oggettive” ma, fondamentalmente, soggettività che variano da individuo a individuo in un meraviglioso dispiegamento multicolore. Questo giardino infinito che costituisce l’intenzione umana che si manifesta nel mondo è la principale riserva di diversità che abbiamo per trovare una via d’uscita di fronte ai cammini che sembravano chiusi; e questo è ciò che i popoli in diverse latitudini sembra stiano intuendo: stiamo passando dall’unico al multiplo, anche se questo non piace ai signori del potere .
In questo nuovo inquadramento contestuale che comincia a irrompere, la diversità non solo si tollera ma è valorizzata, perché in essa c’è il germe del futuro. L’asse di questo nuovo paradigma non è quello economico ma quello culturale, intendendo per cultura la diversità di stili di vita, di relazione e di produzione che si stanno proponendo per sostituire il modello unico centrale. Da questa ottica, l’economia è una parte della cultura e non il contrario, come propone oggi l’economicismo imperante.
Dappertutto, l’interesse per ciò che è genuinamente umano comincia a sostituire gli interessi di questa forza astratta, uniformante e inumana che è il denaro. Per questo, le urgenti trasformazioni sociali ed economiche necessarie debbono orientarsi per impedire qualsiasi forma di concentrazione di potere che inibisca o reprima l’espressione di quella diversità. In questa direzione puntano il superamento della democrazia rappresentativa a favore di una democrazia plebiscitaria, la regionalizzazione effettiva e la proprietà dell’impresa da parte dei suoi lavoratori, per fare qualche esempio.
I veri artisti anticipano il futuro. Quando le avanguardie degli inizi del XX secolo hanno detto “l’arte non è per copiare la realtà esterna ma per creare nuove realtà”, dissero una grande verità. I surrealisti proclamavano che “ci sono altri mondi ma stanno in questo”; il poeta cileno Vicente Huidobro proponeva ai suoi pari di non cantare alla rosa ma che la facessero fiorire nella poesia. In altre parole, davano più valore alla dimensione soggettiva e creatrice dell’essere umano che alla sua realtà concreta, esattamente il contrario di ciò che sostiene l’attuale cultura materialista che ha tentato di imporsi. Un secolo dopo comincia a realizzarsi, anche se timidamente, il sogno di quei visionari.
Il progetto dei popoli
La mondializzazione è un’antica aspirazione umana che oggi sta prendendo forma grazie all’enorme sviluppo delle tecnologie delle comunicazioni, che mantengono collegati istantaneamente tutti i punti del pianeta. Al contrario, la Globalizzazione è il progetto di una potente minoranza economica che si erge in modo parassita su questa tendenza alla mondializzazione e utilizza i mezzi di comunicazione per diffondere i suoi paradigmi. Lo stesso nome mostra l’enfasi territoriale e geopolitica della sua proposta (il globo terrestre), molto lontani da autentiche preoccupazioni umane.
Ci si aspetterebbe che questi modelli, che tanto lavoro richiedono per propagarsi, portassero a un essere umano più evoluto ma, disgraziatamente, non è così. Piuttosto il contrario, si tratta di un salto ma all’indietro: dall’homo sapiens staremmo retrocedendo all’homo economicus o, peggio ancora, all’homo materialis. Cioè, staremmo tornando ad essere volgari animali rapaci, gli stessi che eravamo tre milioni di anni fa, agli albori della specie umana, soltanto in possesso di alcuni strumenti un po’ più distruttivi delle asce di selce.
Sono stati sul punto di riuscirci, ma si ha l’impressione che i popoli stiano reagendo. La discussione finale sarà quindi se si vuole il darwinismo per regolare le società umane o se si vuole un’altra cosa. La lotta sarà tra naturalizzazione o umanizzazione, tra un essere umano oggetto o soggetto, passivo o attivo, meccanico o intenzionale. Niente di nuovo, sempre lo stessa scommessa: il naturale contro l’umano.
Se la Globalizzazione è il progetto dei vertici che, fortunatamente, sembra stia fallendo, il progetto dei popoli è un altro, molto diverso anche se di una portata mondiale: i popoli aspirano a costruire la nazione umana universale, che consiste in una confederazione di nazioni, multietnica, multiculturale, multiconfessionale; si tratta, in sostanza, della convergenza della diversità umana. Anche se i manipolatori stipendiati li vogliono assimilare, sono progetti antagonistici: mentre i vertici si contendono il “globo” e promuovono o impongono con la forza l’omogeneizzazione che, credono illusoriamente, permetterà loro di controllare tutto, i popoli stanno raccogliendo nella loro sensibilità le loro genuine aspirazioni umane e scommettono saggiamente sulla diversità.
L’integrazione, a qualsiasi livello (nazionale, regionale o mondiale), si può costruire solo a partire dal rispetto e dalla valorizzazione del diverso. Cercare di uniformare il diverso non solo è un errore storico, come abbiamo già detto, ma è anche un passo sicuro e veloce verso l’effetto contrario, la disintegrazione. Di fronte a un’azione si sta producendo la reazione proporzionale. Quindi, nella misura in cui questa forza aumenta, si moltiplicheranno i separatismi, le lotte etniche, le guerre civili e tutte quelle reazioni che hanno i popoli quando sentono che un super-potere arbitrario vuole schiacciare o negare la loro identità. Così, le due tendenze opposte restano chiaramente definite: integrare la diversità culturale ed etnica implicherà la soluzione di difficili problemi, ma è un cammino evolutivo, ascendente, libertario; diversamente, pretendere di uniformare la molteplicità per controllare è una direzione involutiva, arbitraria e forzatamente violenta.
Il Documento Umanista dichiara: “(Gli umanisti) non vogliono un mondo uniforme ma multiforme: multiforme per etnie, lingue e costumi; multiforme per paesi, regioni, località; multiforme per idee e aspirazioni; multiforme per credenze, dove abbiano posto l’ateismo e la religiosità; multiforme nel lavoro; multiforme nella creatività.”
Questo è il mondo che comincia a emergere all’alba del XXI secolo.
La rivoluzione della diversità
Qual’è la novità?
Qualcosa di nuovo sta succedendo nella testa degli abitanti dell'America. Qualcosa di nuovo sembra impregnare l'atmosfera sociale. Non si tratta del paesaggio urbano delle autostrade a otto corsie, dei pedaggi, dei centri commerciali, dei cellulari, della comunicazione istantanea. Non si tratta neanche della difficoltà a sopravvivere nel mondo di oggi in cui tutto, ma proprio tutto, è basato sul denaro. Si cominciano a vedere i tentativi dei popoli di trovare la soluzione ad un momento molto angoscioso della società.
Al di là del fatto che le risposte possano essere giuste o sbagliate, sta nascendo una ricerca per trovare una strada che permetta di uscire dalla violenza e dalla discriminazione che si sperimenta nel vivere quotidiano. Non si tratta della continuità dell'economicismo (oggi nella sua versione neoliberale) ma neanche di un evento rivoluzionario classico. Si tratta di una ricerca più profonda dei popoli per sbarazzarsi di qualcosa che sentono che li opprime, che li asfissia, anche se non sanno esattamente che cos’è.
La rivoluzione bolivariana in Venezuela, spinta da Hugo Chávez, ha ricevuto l'appoggio dei cittadini un’elezione dopo l’altra e la popolazione si è mobilitata per contrastare il colpo di stato. Il Venezuela ha utilizzato il suo petrolio per finanziare progetti giganteschi per la salute della sua gente e li ha estesi a centinaia di migliaia di latinoamericani, si è preoccupato di rompere i monopoli dell’informazione ed ha portato solidarietà ai paesi colpiti da calamità naturali. Da parte sua l'opposizione si è ritirata recentemente del processo democratico, evidenziando con quali mezzi pensa di ritornare al potere. Le basi militari degli Stati Uniti, alle frontiere del Venezuela, della Colombia e dell’Ecuador non stanno lì per frenare le FARC né i narcotrafficanti. Stanno lì per ostacolare l'incontro di quei tre paesi ed ostacolare la loro integrazione che è la strada per raggiungere la pace e smilitarizzare la zona.
In Bolivia Evo Morales porta al governo il mondo contadino ed indigeno. L'America latina ha sentito lo scossone del terremoto culturale che la percorre. Evo presiede la cerimonia di investitura alla presidenza alla Porta del Sole vestito con l'unku, il manto usato dagli antichi sacerdoti di Tiwanaku nella loro tappa imperiale di 1.000 anni fa, e col chuku, il berretto a quattro punte che rappresentano i quattro punti cardinali ed i piani ecologici del paese. Ondeggia lì la wipala, con i colori dell'arcobaleno o cuichi, ufficializzata nel 1975 come la bandiera del Tahuantinsuyo. Un leader che emerge dal cuore del suo paese portando un bastone di comando composto da due teste di condor, che gli è stato consegnato dagli amautas, saggi o sacerdoti del suo popolo, oggi chiamati in differenti forme (sciamani, yachacs, kallawayas, guaritori, etc...) per rappresentare le 36 nazionalità che compongono il popolo boliviano. Unendo i motivi simbolici ancestrali con le necessità dell'epoca, Evo ha saputo adattarli riferendosi all'unità dell'Oriente e dell’Occidente del paese, dove ancora vigono i conflitti ancestrali tra i Collas dell'altopiano ed i Cambas di Santa Cruz. Questa ricerca di unità è magari la stessa che sta ispirando in questi tempi tutti i popoli del continente. Il programma di Evo per la Bolivia può essere di ispirazione per i movimenti sociali della regione: nazionalizzazione delle risorse naturali, permettere l'investimento agli stranieri come soci e non come padroni, controllo delle acque in mano ai boliviani ed una nuova costituzione che approfondisca la democrazia.
Molto più a sud, in un paese modello per l'America latina nell’implementazione del neoliberalismo con un fondamentalismo senza pari, si sceglie per la prima volta una donna a condurre i destini della nazione. Michelle Bachelet è madre celibe, divorziata ed atea, una donna che rompe con i valori che imponeva il conservatorismo in quel paese.
Lula, di origine operaia, al governo in Brasile e Kirchner in Argentina, mostrano entrambi segni di indipendenza, togliendosi di torno l’FMI pagandogli tutto il debito estero, e facendola così finita con gli interventi nella politica interna di quei paesi. Il caso del Frente Amplio in Uruguay mostra lo stesso segno nel senso di un nuovo fenomeno culturale e politico che sta venendo fuori.
Ma qual’è la novità? Non è certo la vittoria provvisoria della socialdemocrazia e con lei l'insediamento definitivo del neoliberalismo. Questa prima lettura è molto grossolana e non mette in rilievo il fenomeno culturale che sta sorgendo. Al contrario, stiamo assistendo ad un cambiamento culturale impressionante, un nuovo sentimento che emerge e che sta cercando di concretizzarsi nel paesaggio sociale. Già adesso nulla è più come prima. Il cambiamento è stato interno, nella sensibilità dei popoli, e questo troverà la sua forma espressiva sociale e politica. Sono i popoli che stanno scegliendo governanti in rotta con i parametri omogenei della globalizzazione, sono i popoli che stanno portando in alto la diversità, sono loro quelli che si sono aperti a nuove risposte ed a nuovi rischi.
L'affermazione della diversità
Il progetto della Globalizzazione, che è un progetto fondamentalmente economico attraverso il quale si regola il comportamento sociale, si sta incrociando con la reazione del diverso e del differente. Anche quando la Globalizzazione accetta il folklore e maschera i suoi rappresentanti da donne, da giovani o da indigeni, non può mascherare il fatto che sono il denaro ed il consumo ciò che omogeneizza la popolazione. Dato che ha convertito le necessità di base della salute, dell’educazione, dell’acqua, della luce e delle comunicazioni in beni di consumo, soddisfa quelle necessità in cambio di denaro. Quello stesso potere globale, mediante promesse di miglioramenti economici, continua ad adattare il potere politico locale per facilitare la sua azione, passando sopra alle necessità della gente del posto.
Tuttavia, la Globalizzazione si inserisce in un altro processo che è davvero importante. Si tratta di un'aspirazione umana di incontro di culture, di pace e di destino comune verso il superamento della violenza, del'ingiustizia, del dolore e della sofferenza. L'impulso ad unire l'umanità, a collegarla e metterla in comunicazione verso una nuova civiltà planetaria è un impulso che sta all'interno di ognuno di noi. Non stiamo qui per essere forza lavoro semirobotizzata o semischiava che soddisfa le ambizioni di un potere centrale uniformante, bensì per elevare la condizione umana, affinché proliferi la molteplicità, per sperimentare il contatto con la diversità, con ciò che è completamente differente e che tuttavia è mio pari, mio fratello, mio eguale.
Che una cultura materialista possa avere un momento circostanziale di successo nella storia è solo un istante nefasto di un processo sociale meraviglioso; più avanti potremo riconoscergli di aver aiutato lo sviluppo dei procedimenti tecnologici affinché i paesi comunicassero tra di loro. Non ha solo facilitato la tecnologia ma ha messo condizioni che hanno spinto grandi insiemi umani a migrare ed a trasferirsi per il pianeta sfumando le frontiere, il che ha permesso l'incontro tra genti di tutti i luoghi, di tutte le razze, di tutte le nazioni, di tutte le lingue. Così fra qualche decina d’anni diremo che, una volta ancora, l'essere umano si è fatto largo e si è liberato di un potere globalizzante che minacciava di schiavizzarlo.
Oggi non possiamo neppure dire che il centro di questa globalizzazione si trovi solo negli Stati Uniti. Il segno economicistico ed uniformante di questo processo sta anche in Europa, in Russia, in Cina ed in India, centri di potere che combatteranno tra di loro per l'egemonia mondiale. E sarà un bene se, mentre succede questo, noi riusciamo a mettere in moto un nuovo progetto che canalizzi la reazione della diversità e che trovi la sua convergenza.
Affermare la diversità, al di là del suo contenuto poetico, è la possibilità di elaborare la novità. E non c'è altro modo di affermarla se non attraverso un'intenzione che si traduca in modelli e politiche concrete nelle quali possa esprimersi. La lotta per la democrazia è una lotta che ha senso se quella democrazia apre spazi alla diversità. Perché le "democrazie" della globalizzazione non permettono questo: in realtà, sono dittature con veste democratica, nelle quali le libertà sono ristrette tramite il controllo economico.
Il controllo economico si ottiene dando al denaro o al capitale un valore sproporzionato. Si considera che il denaro sia il fattore economico principale e si nega il valore che ha il lavoro. Se si ha denaro, si hanno tutte le porte aperte e se si è lavoratore che vive di uno stipendio, si hanno tutte le porte chiuse. Inoltre, chi vive di uno stipendio è permanentemente minacciato dal licenziamento e dalla disoccupazione.
Affermare la diversità è aprire gli spazi e le decisioni a chi, attualmente, non ha spazio né potere di descisione. Questo non può essere un discorso ma è la convinzione che solo l'affermazione della diversità può tirare fuori le società dalla stagnazione. Aprire gli spazi alle etnie, alle donne ed ai giovani è una necessità perché da lì sorgeranno le risposte agli interrogativi di questo momento storico. Se la globalizzazione ha il segno del machismo, il futuro sta nelle donne che saranno sempre di più fattore trasformatore. Se la globalizzazione nega le etnie, è quel fenomeno culturale quello che aprirà il futuro. Se la globalizzazione schiaccia o addormenta le generazioni giovani, nella loro partecipazione staranno le risposte al crocevia che affronta l'Umanità.
La globalizzazione è un modello che si impone da un centro di potere agli stati nazionali. Ma a sua volta gli stati nazionali impongono lo stesso modello omogeneizzatore alle loro province e comuni. I comuni cercano di omogeneizzare le organizzazioni sociali e queste la loro gente. Il modello globalizzatore non è solo un tipo di governo; è di più, è una mentalità, un modo di relazione che nega l’ altro, nega la differenza. Ma nella misura in cui si capisca che non c'è soluzione e che l'unica possibilità è proprio lì nell’altro, nella differenza, questa mentalità comincerà a retrocedere.
La mentalità uniformante sta colpendo le nostre relazioni affettive e generando un'atmosfera di crudeltà. È lo schiacciamento della diversità ciò che produce una reazione violenta. L'ideologia della globalizzazione ci dice il contrario e, nel farlo, alimenta i nuovi fascismi, esasperando la violenza che è l'unico metodo attraverso il quale può avanzare.
Affermare la diversità e lottare per trasformare le strutture sociali che ostacolino la sua espressione è un primo passo. Approfondire la democrazia, aprirsi alla diversità di modelli economici dove il valore del lavoro si equipari a quello del capitale, assicurare ad ogni essere umano la sua educazione, la sua salute e la sua pensione, indipendentemente della sua condizione di origine, non è solo giustizia sociale ma è il modo in cui la diversità può manifestarsi.
La convergenza della diversità
Quanto più avanza la globalizzazione, concentrando potere e ricchezza, tanto più le reti sociali si vanno disarticolando e quello che chiamiamo diversità si atomizza in parti sempre più piccole, destrutturando la base sociale. Di questo i poteri globali non sono preoccupati dato che l'atomizzazione della società facilita loro il controllo ed il dominio, almeno per ora. Così l'affermazione della diversità mette in dinamica la società e fa rinascere la creatività nel risolvere le necessità tipiche di questo momento storico, ma se quella diversità non trova un modo di convergere e complementarsi, la progressiva atomizzazione porterà ad una situazione di caos generale. In quella situazione si cercherà di frenare il caos con la forza bruta, ma questo aumenterà solo la velocità del disordine.
La diversità prende forza quando riesce a convergere, ma come può convergere ciò che si regge solo su se stesso? È grazie alla stessa pressione esercitata dal sistema globalizzatore, grazie alla situazione di violenza e disumanizzazione crescente che il sistema continua a generare, che comincia a sorgere un nuovo tentativo di umanizzare la società. Si tratta di un progetto comune che comincia ad abbozzarsi in vari ambienti e che la gente comincia ad accarezzare. Si tratta di un sentimento e di un'intuizione ancor prima di essere formulato come ideologia o come programma. Nel mezzo della tempesta, quando oramai non si trovano più risposte fra le solite o conosciute, si insinua "qualcosa di nuovo" per portare l’umanità in porto. Si tratta del progetto comune della diversità. Come abbiamo già detto, è un progetto opposto alla globalizzazione perché dà valore all'individuo, ma non all'individualismo; perché afferma l’identità nazionale, ma non il nazionalismo; perché afferma la radice culturali dei popoli ma non la violenza radicata in essi; perché afferma la donna, ma anche l'uomo; perché afferma il giovane, ma dà valore agli anziani. Si tratta di un progetto in cui il valore è la diversità, la differenza.
Mentre gli Stati Uniti, in un patetico ruolo di supereroe da barzelletta, continuano a portare il mondo verso lo scontro culturale, verso la dittatura del capitale, verso la minaccia nucleare e verso la deriva terrorista, può essere che sia l’America latina il posto del pianeta dove si veda nascere l'alternativa alla globalizzazione. L’Europa, la Cina, l’India, la Russia si sono adattati al modello ed oggi sono in competizione per l'egemonia mondiale. In mezzo a questo agitato panorama, l'America latina sembra prendere coscienza della sua cultura, della sua diversità, del fatto di essere una sintesi storica di paesi e culture del mondo intero. L'America Latina prende coscienza del valore della sua gente e dei suoi paesi, del valore delle sue risorse naturali ed energetiche, prende coscienza della necessità di unirsi per fare un salto nella sua storia.
Il modello globalizzatore cerca di attecchire anche in questo continente attraverso i Trattati di Libero Commercio (TLC) e l'Area di Libero Commercio delle Americhe (Alca). Cerca di produrre una pseudo integrazione regionale basata su criteri economici, omogeneizzando il comportamento della diversità sociale ed imponendo un sistema il cui valore centrale è il denaro. Ma incontra problemi, si incrocia con un fenomeno culturale che sta cominciando ad esprimersi, un fenomeno che comincia ad arrivare al centro della società ed un fenomeno generazionale che sta lasciando cadere nel vuoto le sue proposte.
In America latina si scorge una possibilità. Esiste lo spazio per elaborare un progetto latinoamericano che si distacchi dal modello globalizzatore e proponga qualcosa di davvero nuovo che serva da fondamenta per una civiltà planetaria. Sono i venti delle Ande, il caldo dell'Amazzonia e la brezza degli Oceani che, incontrandosi, dissolvono le differenze, le dispute e le piccolezze per confluire in un progetto essenziale: costruire la Nazione Umana Latinoamericana che possa essere l'avanguardia della futura Nazione Umana Universale.
Latinoamerica, crocevia del futuro
Una Nazione Umana Latinoamericana
Si è soliti confondere la nazione con lo Stato, ma sono due concetti molto distinti. La nazione è un progetto maggiore nel quale vanno confluendo distinte etnie e distinte culture, senza per questo perdere le loro identità e le loro particolarità. Lo Stato è una forma transitoria di organizzazione delle società, che concentra il monopolio del potere e che nel momento attuale ha perso sovranità a favore dei poteri finanziari multinazionali. La nazione, al contrario, è un progetto lanciato verso il futuro, una risposta culturale di un insieme umano per superare le necessità, per superare il dolore e la sofferenza. Il progetto di nazione può sorgere in un momento storico, svilupparsi, arrivare al suo apice o stancarsi fino all’annullamento del suo intento; ma potrebbe anche svilupparsi e trasformarsi fino a raggiungere uno dei sensi della vita umana, ovvero costruire la Nazione Umana Universale.
La costruzione di nazioni non è un tentativo raro: esiste il caso degli Stati Uniti e più recentemente quello dell’Europa. Per i primi il prezzo da pagare fu una guerra civile, per i secondi due guerre mondiali, ma entrambe portavano il simbolo concentratore della globalizzazione. In questo contesto l’America Latina finisce incastrata: l’integrazione promossa dai poteri economici globali la porterà a contraddizioni insopportabili, con situazione di povertà per la sua gente, con la distruzione del suo ambiente circostante, con l’usurpazione delle sue materie prime ed energetiche. Le popolazioni inizieranno ad avere la sensazione di essere comandate dalle multinazionali, che, mese dopo mese, acquisiranno i diritti su acqua, luce, telefono, gas, fognature, televisione, la sicurezza, spostamenti tra le città e nelle città stesse etc.
La globalizzazione economica non ha tenuto in considerazione la reazione delle culture, né l’affermazione delle diversità. Non ha tenuto in considerazione la rottura con l’Islam, che ha fatto retrocedere il mondo all’era della bomba atomica, e non ha tenuto in considerazione il fenomeno culturale che avrebbe risvegliato in America.
Oggi l’America Latina è un paesaggio composto da molti paesi, uno sguardo composto da molti sguardi, che a volte si fondono e a volte si allontanano. Qui si incontrano “quelli di dentro” e “quelli di fuori”, le etnie indigene e la migrazione europea, asiatica ed africana. Il luogo di “tutti i tipi di sangue”, molteplici sguardi che devono iniziare a riconoscersi ed incontrarsi. Ogni latinoamericano è un viso fatto di molti visi. Ogni cultura è una manifestazione unica e diversa dell’essenza umana, ognuna è un superamento biografico e storico del dolore e della sofferenza. In ogni popolazione, originari, europei, africani o asiatici che hanno legami con l’America batte l’impulso profondo di liberazione, e ognuno traduce questi impulsi e il proprio umanesimo nei suoi canti, nei suoi costumi, nella sua religiosità. Comunicare l’atteggiamento umanista, le migliori virtù, tradotte nel linguaggio proprio di ogni popolo è il senso del movimento culturale che creerà l’identità dell’America .
Verso una Confederazione di Nazioni
Si può avanzare verso la costruzione di una nazione umana latinoamericana, se questa è la volontà dei popoli. Questa volontà si esprime in una democrazia reale, in cui ogni diversità abbia spazio e potere decisionale. In questo modo si camminerà verso una federazione regionale nella quale il potere decisionale risiede nelle località e non in un superstato regionale.
Una prima pianificazione per avanzare verso l’integrazione dei popoli deve considerare:
1) Risoluzione di tutti i conflitti storici tra i paesi.
2) Disarmo progressivo e proporzionale in tutti i paesi della regione, destinando queste risorse a salute e educazione.
3) Libero transito di persone tra i paesi della regione.
4) Recupero delle risorse naturali, minerali, ittiche, forestali ed energetiche.
5) Accordi d’integrazione economica che favoriscano lo sviluppo della media e piccola impresa.
6) Democrazia diretta e plebiscitaria.
Nel Forum Umanista Latinoamericano, che si realizzerà nella città di Quito nell’ottobre del 2006, riuniremo le correnti umaniste di tutta l’America per avanzare nella costruzione di un movimento sociale, politico e culturale latinoamericano, che dia impulso allo sviluppo dei popoli, delle culture, delle organizzazioni sociali, politiche e culturali, che convochi tutta l’organizzazione sensibile alla discriminazione che esercitano i poteri della globalizzazione e per accordarsi su una piattaforma politica per i partiti aderenti al Forum che contempli questi 6 punti. Sono momenti di cambiamento, di opportunità e di futuro, ma la direzione del cambiamento dipenderà dalla forza che prenderà il movimento sociale latinoamericano. Qui ci incontreremo per conformare e fortificare le reti sociali, culturali e politiche che attraversano i paesi del continente.
Una nuova spiritualità .
Una forza interiore sta svegliando i popoli dell’America. Questa forza interiore ci spinge verso la giustizia, la riconciliazione e la ricerca del sacro nella profondità della coscienza.
Questa forza interiore ci porta a considerare l’essere umano come il massimo valore al di sopra del denaro, dello Stato, della religione, dei modelli e dei sistemi sociali; a promuovere la libertà di pensiero, a propiziare l’uguaglianza di opportunità per tutti gli esseri umani, ad incoraggiare la diversità di costumi e culture, ad opporci a tutte le discriminazioni, a rifiutare tutte le forme di violenza fisica, economica, raziale, religiosa, sessuale, psicologica e morale. Questa forza interiore ci anima a non discriminare gli altri per la loro religione o la loro irreligiosità, per ciò che credono dell’immortalità o del sacro.
Questa forza interiore non è la spiritualità della superstizione, non è la spiritualità dell’intolleranza, non è la spiritualità del dogma, non è la spiritualità della violenza religiosa; ma è la spiritualità che si è risvegliata dal suo profondo sonno per nutrire gli esseri umani nelle loro migliori aspirazioni.
Per portare avanti questo progetto vogliamo dare coerenza alle nostre vite facendo coincidere ciò che pensiamo, ciò che sentiamo e facciamo. Desideriamo superare la cattiva coscienza riconoscendo i nostri fallimenti. Aspiriamo a perdonare, a riconciliare e a persuadere. Ci proponiamo di dare un crescente compimento a questa regola che ci ricorda di trattare gli altri come vogliamo essere trattati.
In Cile, Juntos Podemos
In Cile si sono fatti i primi passi per dare il via ad un movimento sociale ampio, nel quale confluiscono numerose organizzazioni sociali, culturali, etniche, politiche, giovanili, cooperative, sindacali, di categoria. E’ stato chiamato “Juntos Podemos”.
Precisamente qui, nel principale bastione della globalizzazione, si è animato una forma di movimento che ha scosso la coscienza nazionale, risvegliando l’interesse della popolazione e penetrando specialmente nella gioventù. Juntos Podemos ha varcato le frontiere e richiamato l’attenzione in vari paesi d’ Europa e del Latinoamerica. Questo è un altro sintomo dei tempi che si avvicinano. Sono stati il dialogo e la discussione nelle stesse organizzazioni di base che hanno dato vita alla proposta programmatica che è stata fatta conoscere nella campagna presidenziale appena terminata; proposta che si convertirà nel progetto convergente che orienterà l’azione per avanzare verso una società più giusta e più umana. Aspiriamo che questa esperienza non resti solo in Cile, ma che sia ispiratrice per il movimento sociale latinoamericano che albeggia nel panorama sociale d’America.
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