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      SanLibero in pillole

      • E' morto un prete

        27 gennaio 2008 - Riccardo Orioles

        E' morto un prete a Catania, che si chiamava padre Greco. Non è una notizia importante e fuori dal suo quartiere non l'ha saputo nessuno. Eppure, in giovinezza, era stato un uomo importante: uscito dal seminario (il migliore allievo) era “un giovane promettente” ed era rapidamente diventato coadiutore del vescovo. Io di carriere dei preti non me ne intendo ma dev'essere qualcosa del tipo segretario della Fgci, e poi segretario di federazione, comitato centrale, onorevole e infine, se tutto va bene, ministro. Comunque lui dopo un anno si ribellò. Che cazzo - disse a se stesso - io sono un prete. E il prete non sta in ufficio, sta fra la gente.

      In evidenza

        Michela Buscemi Una donna del popolo libera e orgogliosa

        Dopo la prima testimonianza nel suo bar non ci andò più nessuno. Isolata da tutti, ha condotto la sua guerra con il solo appoggio del marito, un uomo dolcissimo che paga la sua scelta d’amore con la disoccupazione a vita. Un sacco di libri sulla sua storia, convegni, incontri, interviste. Adesso stanno per girare una fiction sulla sua vita e sul suo coraggio, ma lei povera era e povera è rimasta

        di Graziella Proto

        All’appuntamento la troviamo già lì ad aspettarci. Completo pantalone nero, alta, bruna, due occhi scuri che scrutano in profondità. Ti sorride subito ed immediatamente il suo viso si illumina. “Alla fine del mese - racconta - ho un incontro con un regista che vuole girare un film sulla mia storia … e poi andrò in una scuola di Perugia, Padova, Aosta… poi alla presentazione del libro di Nando… e poi…”, “ma ti danno una percentuale sui libri che pubblicano su di te? - la interrompe l’amica che è andata a prelevarla all’appuntamento - Di solito si fa così - le dice. E lei subito “no, mi danno copie di libri, io li regalo - dice - non posso tenerli tutti non avrebbe senso - aggiunge sorridendo”. Una solare bellezza matura. L’appuntamento è fuori città, in campagna, perché ormai da tanti anni non abita più a Palermo. “Era difficile… Costava troppo,” racconta candidamente e senza girarci attorno. “Dopo che mi hanno distrutto il bar con la bomba, nel marzo del 1990 lo abbiamo ceduto per pochi soldi… avevamo tanti debiti… Avevo avuto tante promesse per far lavorare mio marito come muratore… ma… tra il dire e il fare… Avevamo questo pezzetto di campagna e ci siamo trasferiti…".

        La casa in campagna, l’ha costruita lui, ci è costata solo il materiale… Mio marito non lavora sempre, qualche giornata saltuariamente... sarebbe muratore in effetti fa quello che capita… ovviamente lavoro in nero… E poi, la vita in campagna costa meno, coltiviamo qualcosa... è più facile trovare qualche giorno di lavoro. Dalla terrazza vedo il mare”. Semplice, sobria, sempre decorosa, una dignità che la rende autorevole. Nessuno direbbe che si tratta di una donna che ha già sperimentato tutte le fatiche della vita. Prove dolorosissime che l’hanno segnata e collaudata. La stessa donna, che alla fine degli anni ottanta allora abbastanza giovane sfidando tutto e tutti, si costituì parte civile al primo maxi processo a Palermo perché la mafia le aveva ucciso due fratelli Salvatore e Rodolfo e lei non poteva restarsene senza fare nulla. “Sono Michela Buscemi, sorella di Totò e Rodolfo” dichiarò ed iniziò a parlare.

        * * *

        Suo fratello Salvatore disoccupato, con quattro figli piccoli, il più grande otto il più piccolo 4, carattere litigioso, negli anni settanta aveva iniziato a vendere sigarette di contrabbando senza aver chiesto il permesso ai boss. Nemmeno a quelli del quartiere di S. Erasmo dove abitava. Più volte gli avevano fatto perdere il carico come avviso, ma lui nulla. Anche perché a pugni era bravo e li faceva scappare. Una sera di aprile del ’76, verso le otto di sera, Salvatore e Giuseppe un fratello più piccolo, si trovavano in compagnia di loro parenti, in una bettola del quartiere, mentre stavano per andarsene, entrarono due uomini incappucciati armati. Salvatore colpito a morte cadde subito a terra, ma non bastava, uno dei due si avvicinò e gli sparò due colpi di lupara alla gola e al mento. La scena che ebbe davanti Giuseppe fu terribile. Il volto di suo fratello era totalmente sfigurato, la pancia squarciata, budella di fuori. Anche lui era ferito, fu portato all’ospedale. Una pallottola aveva perforato l’osso del bacino e gli si era posata sugli intestini. Subito dopo l’assassinio, un altro fratello, Rodolfo, deciso a scoprire gli assassini di Salvatore, si trasferisce nel quartiere di S. Erasmo e comincia a fare indagini e raccogliere prove. Scopre o si convince che il mandante dell’omicidio del fratello era Filippo Marchese boss del quartiere di S. Erasmo.

        Il mafioso Vincenzo Sinagra futuro pentito, gli intima di smetterla, inoltre, forse lui stesso era implicato in piccole attività poco lecite e comunque non autorizzate da chi comandava nel quartiere, un mese dopo l’avvertimento da parte di Sinagra, Rodolfo e il cognato Matteo, di soli 18 anni, furono intrappolati con una falsa offerta di lavoro e scomparvero nel nulla.

        Non rimasero tracce. Dopo qualche anno, il superpentito Sinagra raccontò che erano stati portati nella camera della morte, torturati e uccisi. Buttati in fondo al mare perché l’acido in cui avrebbero dovuto sciogliere il suo cadavere non era buono… La moglie di Rodolfo, Rosetta, si lasciò morire di dolore dopo il parto del secondo bambino. “Sono Michela Buscemi, sorella di Salvatore e Rodolfo” disse quel giorno nell’aula Bunker di Palermo Michela e subito nell’aula ci fu un bisbiglio di sorpresa. Il Presidente le chiese se avesse qualcosa da raccontare e lei rispose si. Per tutta la mattinata, racconta la stessa, davanti alla corte era passata una fila di parenti di vittime che non sapevano, non avevano visto, non avevano sentito. Tutte le televisioni, tutti giornali, si interessarono a Michela. Tuttavia, non tutti la pensavano alla stessa maniera.

        “Spero a Dio che lo stesso dolore tu hai da provare, i figli t’hanno ad ammazzare” la minacciò in modo orribile e snaturato la madre che di costituirsi parte civile non ne volle sapere. Anzi, con quella figlia pazza, che aveva avuto l’ardire di recarsi in Tribunale a raccontare fatti della famiglia, la madre interruppe ogni rapporto e assieme agli altri figli decisero di isolarla. Abbandonarla al suo destino. “Quando io decisi di costituirmi parte civile al maxi processo dell’’85 - racconta con distacco - non sapevo che mia madre avrebbe preso le distanze da me, comunque, dopo ho continuato per la mia strada…” rinnegata e rinnegando la famiglia. Era l’86, da allora, Michela combatte una guerra solitaria, priva di madre, nessun fratello, nessuna sorella.

        * * *

        Attraverso la storia di Michela, che lei stessa ha raccontato e scritto in prima persona, senza più imbarazzi, sono venute fuori storie di fame, indigenza, miseria. Storie che non nascono solo dalla povertà. Fatti miserabili. Sentimenti egoisti, avari. Forse criticabili e discutibili. Violenze quotidiane che passano in secondo ordine, perché le necessità e i bisogni hanno sempre e comunque la precedenza. Interni di famiglia in case diroccate, o popolari occupate abusivamente dove le donne sono costrette a non fiatare davanti al padre, o alla madre o all’autorità. Lei, Michela Buscemi si è ribellata a tutto. All’ignoranza, alle molestie del padre, alla povertà, ai pregiudizi. Nata e cresciuta nei quartieri poveri di Palermo, era la più grande di otto fratelli e sorelle che la madre sistematicamente le scaricava addosso subito dopo averli partoriti. Sebbene cresciuta e vissuta in un contesto caratterizzato dalla mancanza di idonei modelli e strumenti culturali e sociali ha trovato il coraggio e la determinazione per essere una protagonista cosciente. Una sfida enorme, ma ce l’ha fatta, per se e per i suoi 5 figli che “...hanno vissuto e vivono in una situazione totalmente diversa da quella in cui sono vissuta io, migliore certamente, nonostante le nostre difficoltà…”. Anche se non tutti sono come si suole dire sistemati sono tutti orgogliosi di ciò che ha fatto la loro madre. Lei non è pentita della sua scelta e resta un’attiva sostenitrice della lotta contro la mafia. "Un rimpianto? Essermi ritirata dal processo. Oggi non l’avrei fatto, allora ascoltai le persone che mi stavano più vicine l’avvocato, l’associazione donne contro la mafia, il centro Impastato che mi è stato sempre vicino".

        (Per raccogliere i fondi per pagare le spese delle parti civili al primo maxiprocesso di Palermo, si era costituito un apposito comitato Ma lle uniche due donne del popolo presenti in quel processo, Michela Buscemi e Vita Rugnetta, fu deciso di non dare alcun contributo: i soldi raccolti dovevano essere dati soltanto ai parenti dei servitori dello stato. Ad aiutare Michela e Vita furono il Centro Impastato di Palermo e l’Associazione donne contro la mafia).

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