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      SanLibero in pillole

      • E' morto un prete

        27 gennaio 2008 - Riccardo Orioles

        E' morto un prete a Catania, che si chiamava padre Greco. Non è una notizia importante e fuori dal suo quartiere non l'ha saputo nessuno. Eppure, in giovinezza, era stato un uomo importante: uscito dal seminario (il migliore allievo) era “un giovane promettente” ed era rapidamente diventato coadiutore del vescovo. Io di carriere dei preti non me ne intendo ma dev'essere qualcosa del tipo segretario della Fgci, e poi segretario di federazione, comitato centrale, onorevole e infine, se tutto va bene, ministro. Comunque lui dopo un anno si ribellò. Che cazzo - disse a se stesso - io sono un prete. E il prete non sta in ufficio, sta fra la gente.

      In evidenza

        L’Argentina che non dimentica L’amico degli assassini cacciato dal Parlamento

        Sulle strade di Buenos Aires ci sono molte mattonelle irregolari. Sono le lapidi che ricordano i desaparecidos. Su quelle lapidi si è fermata la marcia di Luis Abelardo Patti, eletto deputato con 400mila voti. Un sopravvissuto lo ha riconosciuto come uno dei suoi torturatori. E la carriera politica di Patti è finita lì. Ci vorrebbe una legge per evitare che i collaborazionisti si riciclino nelle istituzioni. Ma, dall’altra parte del mondo, può bastare anche un sussulto di memoria. Da noi, invece...

        di Fabio Gallina

        La memoria è un inciampo, nel ritmo spasmodico di Buenos Aires: una mattonella troppo liscia in mezzo al selciato, nella quale incespica il passo frettoloso del pedone. Imprechi, ti volti irritato a guardare: «Aquì secuestraron Diego Lozano, 25 años, estudiante. Desaparecido». E riprendi la frenetica maratona della capitale. Oltre la mattonella, oltre la memoria.

        Chissà chi avrà avuto questa idea delle strane lapidi che affiorano di tanto in tanto nelle città argentine. Mattonelle con inciso il nome dello scomparso, nel luogo in cui venne sequestrato e visto l’ultima volta, al momento in cui entrò nell’inferno dei desaparecidos. Ce ne sono disseminate parecchie, nella capitale: nelle avenidas principali e nelle stradine secondarie. Forse all’inizio volevano trasmettere l’idea di una repressione sistematica, capillare, che non conosceva quartiere: prelevava le proprie vittime ad ogni angolo, city o periferia. Sono finite con il diventare – venuti gli anni del regime neoliberista di Alfonsín, di Menem e dei Chicago boys – i segni di un presagio, di una memoria ingombrante, fastidiosa, sdrucciolevole. Un inciampo nel trionfante progredire di una nazione che voleva dimenticare in fretta il proprio passato e le proprie piaghe, costruendo il mito di una democrazia occidentale. Senza ferite, senza ricordi.

        Sulla memoria è ad esempio scivolata la marcia politica dell’onorevole Luis Abelardo Patti, un parlamentare eletto recentemente alla Camera dei deputati della nazione argentina, sulla scia di quattrocentomila consensi personali (una sorta di Cirino Pomicino, per intenderci, dei tempi d’oro). Il non onorevole Patti si è vista respinta la nomina al Parlamento. La causa: essere stato alto funzionario della famigerata polizia di Buenos Aires, negli anni della dittatura, ed essere stato riconosciuto come torturatore da uno degli allora prigionieri, un sedicenne, tra i non molti sopravvissuti. Nella seduta del 23 maggio scorso, la Camera ha votato a larghissima maggioranza – 161 voti contro 61 – la sua «inadeguatezza a ricoprire cariche politiche», per l’accusa di lesa umanità. Dopo un dibattito al cui confronto la normale dialettica parlamentare nostrana, per quanto animata dai calderoli e gli schifani vari, sembra essere roba da educande, la nomina di Patti al parlamento è stata revocata. Nessuna accusa di brogli, o di conteggi errati – dunque – a delegittimare l’elezione di Patti. I voti c’erano tutti, uno sull’altro, contati e ricontati. Solo che non erano da considerarsi validi: semplicemente perché – a detta della maggioranza dei deputati – il beneficiario non era persona degna di riceverli. Nelle stesse ore in cui Patti veniva espulso dalla Camera argentina, un altro distinto signore, giurista di fama nazionale, si vedeva costretto a rinunciare alle proprie aspirazioni al posto di rettore dell’Università di Buenos Aires. L’uomo di ferro, il candidato vincente, era il preside della Facoltà di Giurisprudenza, Atilio Aníbal Alterini. Lo sosteneva una robusta cordata accademica, le elezioni sembravano un pura formalità. Sino a quando qualcuno, sfogliando qualche album di vecchie foto, non ha ricordato che l’illustre giurista aveva prestato i propri servizi intellettuali, un quarto di secolo prima, al governo militare. Era stato membro della Direzione Generale Affari Giuridici della capitale: un prestigioso incarico che, in quegli anni di torture e sparizioni illegali di cittadini, consisteva, in sostanza, nel cercare affannosamente giustificazioni di fatto alle quotidiane violazioni di diritti umani e civili.

        Il composto sembiante di Alterini è apparso così in cadenzati manifesti che hanno occupato i muri di Buenos Aires, accompagnato – a lettere cubitali – da un paio di titoli che mancavano, per lo meno formalmente, al prestigioso curriculum dell’accademico: genocida, assassino. Il blocco di appoggio alla sua candidatura ha dunque cominciato, con qualche imbarazzo, a sgretolarsi. Alcuni gruppi studenteschi, tra aprile e maggio, hanno per quattro volte occupato – le quattro volte in cui erano state fissate le elezioni – la Facoltà di Medicina che doveva ospitare le votazioni. Sono emersi altri candidati in un’elezione che sembrava blindata, e questi candidati hanno giocato sul passato poco limpido di Alterini, sostenendo che l’essere responsabile di «atti contrari all’etica universitaria» – di per se stesso, secondo lo statuto dell’ateneo – è valida ragione per invalidare un’eventuale elezione. Alla fine, gli stessi padrini politici del super candidato gli hanno consigliato di ritirare la candidatura. Solo, abbandonato dai suoi sponsor politici e accademici, sotto la pressione dell’opinione pubblica – ed in particolare dei movimenti per i diritti umani – alla fine Alterini ha rilasciato una salomonica intervista, il 24 maggio scorso, ad un quotidiano locale: «Ritiro la mia candidatura. Liberamente, per decisione mia. Per permettere all’università pubblica di Buenos Aires di uscire dallo stallo». Proprio così: liberamente, per il bene dell’Università. Una dichiarazione che – al di là delle sue implicazioni filosofiche circa la natura del libero arbitrio – lascia sperare, per il futuro, nell’evoluzione democratica dell’Uba (l’Università pubblica di Buenos Aires).

        Certo: l’idea che gerarchi, collaborazionisti et similia non ricoprano cariche pubbliche, non può che ispirare una balsamica sensazione di sollievo nel cittadino mediamente dotato di sensibilità politica. Pure qualche dubbio rimane, sulle modalità attraverso le quali si è dovuti arrivare a tale esclusione. Sarebbe stata forse opportuna, per esempio, una legge o una regola preventiva che proibisse magari, alla radice, la candidatura di persone dal passato poco cristallino. «Il problema – ha dichiarato, nel corso del dibattito parlamentare sul caso Patti, un esponente del partito radicale, Pedro Azcoiti – è capire perché quattrocentomila persone votano un ex torturatore». Ragione sacrosanta, per carità: però si potrebbe intanto – in via del tutto precauzionale – evitare di mettere soggetti discutibili in condizione di essere votati. Ci sarebbero meno collaborazionisti, o meno presunti tali, nelle istituzioni: in Argentina, come ad altre latitudini. Dove i regimi hanno altra fisionomia, altre radici, altra definizione giuridica. Dove il collaborazionismo, magari, si chiama «concorso in associazione mafiosa».

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