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      SanLibero in pillole

      • E' morto un prete

        27 gennaio 2008 - Riccardo Orioles

        E' morto un prete a Catania, che si chiamava padre Greco. Non è una notizia importante e fuori dal suo quartiere non l'ha saputo nessuno. Eppure, in giovinezza, era stato un uomo importante: uscito dal seminario (il migliore allievo) era “un giovane promettente” ed era rapidamente diventato coadiutore del vescovo. Io di carriere dei preti non me ne intendo ma dev'essere qualcosa del tipo segretario della Fgci, e poi segretario di federazione, comitato centrale, onorevole e infine, se tutto va bene, ministro. Comunque lui dopo un anno si ribellò. Che cazzo - disse a se stesso - io sono un prete. E il prete non sta in ufficio, sta fra la gente.

      In evidenza

        Storia di emigranti a Milano

        Scappi dalla Sicilia per andare a vivere a Milano. Dovte trovi un mondo che non sapevi: i piatti del ristorante da lavare, l’amica che ti aiuta a far richieste di lavoro, il cuoco del Bangladesh e quello egiziano...Un’altra umanità. Che ora è diventata anche la tua.

        Di Fabio D’urso

        Sono passati molti anni dal periodo che mio fratello ed io abbiamo passato a Milano. Dapprima ero arrivato io, l’otto settembre del 2001. Ero partito da Catania, con la promessa di un lavoro da parte di una società interinale. Arrivato, mi ero messo subito a lavorare; dapprima mi aveva ospitato Tonio, un mio ex compagno; mentre ero a casa sua, solo, al telefono avevo saputo qualcosa che non capivo bene, per cui avrei dovuto accendere il televisore: e la televisione trasmetteva lo scoppio delle torri gemelle a New York. La prima cosa che pensai è che ero da solo, che la sensazione di benessere che avevo provato nello stare in un’altra città, diversa dalla mia, era diventata or ora altro: ero lontano dalla mia famiglia a Catania e da mio fratello in Toscana.

        Luciano, per l’appunto, mio fratello mi avrebbe raggiunto quasi un mese dopo. Insieme saremmo rimasti a Milano fino alla vigilia di Natale.Siamo stati ospitati, in una piccola stanza, in via Vespri siciliani 12, vicino piazza Napoli, da un amico con cui avevo fatto un corso a Catania e che avevo ritrovato adesso a Milano. "Proprio in via Vespri siciliani" ci dicevano i nostri amici al telefono, ridendo. Luciano ed io allora lavoravamo nei ristoranti, esattamente come facciamo qui adesso. Eravamo scappati da Catania, tentando di capitalizzare la nostra arte della ristorazione, e eravamo ritrovati ancora una volta nella condizione di servi. Se ricordo bene, Luciano prima di arrivare a Milano, era stato a lavorare in un ristorante di un lido estivo a San Vincenzo, vicino Livorno. “Sai, son diventato amico di Gino Paoli, il cantante” mi aveva detto.

        Disegno di emigranti Di certo, non era stato Gino a farlo restare lì. Chi da subito l’aveva aiutato era stato il cuoco del ristorante. Il suo nome era: Islam. A giugno, Luciano aveva fatto venticinque anni. “Andiamo a festeggiare”, gli aveva detto Islam . Poi aveva aggiunto “Beviamoci una bottiglia di vino francese, offro io.” Con lui, Luciano aveva resistito per sette mesi, in quel ristorante, dove aveva lavorato con altri emigranti dell’Europa dell’Est e della Calabria e della Sicilia. Con ognuno Luciano aveva fatto guerre e solidarietà. Poi a fine stagione mi aveva raggiunto. “Vorrei andare lavorare in Germania”, mi aveva detto.San Vincenzo-Livorno. Livorno-Catania. Catania-Milano. Non appena lo avevo guardato, alla stazione avevo subito intuito. “Come stai?” gli avevo detto, ma la sua magrezza e l’esilità di quel momento, mi avevano già convinto di quanto fosse stato utilizzato lì in Toscana. “Ho trovato un lavoro nel quartiere di Milano due, vicino al San Raffaele”. Lo convinsi a restare con me, perché avevo paura di perderlo davvero, per un viaggio futile, alla ricerca di lavoro.

        ”Ho trovato un buon posto, devi restare con me”. Ad ogni modo, dissi a Luciano, che tutto sarebbe andato bene, ed infatti il giorno dopo mi fecero il contratto di quarto livello. E l’altro ancora mi licenziarono. Qualche soldo e l’ospitalità di Fabio in via Vespri, questo ci bastò per andare avanti, per qualche tempo. Nel frattempo tutti i nostri tentavi di uscire dalla condizione di servi fallivano.Ogni mattina compravamo il Corriere della Sera, e con quello andavamo in giro ben vestiti. Le sere, talvolta, passavo dalla strada dove c’è la redazione del Corriere, senza mai avvicinarmi troppo, senza mai sognare troppo. Nel frattempo mi accorgevo che i corsi regionali, i lavori al call center, i colloqui alle agenzie non servivano. Ma non mi arrendevo.

        Cominciò la ricerca giornaliera del lavoro; ogni giorno telefonavo, ogni santo giorno a fare chilometri e a lasciare il foglio con i dati e a parlare per cercare di lavorare.Un giorno siamo arrivati fino a Cinisello Balsamo, fuori Milano di un ora di strada, per lavorare insieme in un ristorante. Ci chiesero di servire ai tavoli a pranzo. Il ristorante aveva tre sale, ed ognuno di noi lavorava in coppia, con uno dei camerieri titolari Mai avevo visto Luciano volare in sala come allora. Mai ero stato fiero del nostro mestiere che non ci avrebbe mai fatto stare senza lavoro.Ma invece della riuscita del servizio, ci eravamo ritrovati umiliati innanzi alla rozzezza degli altri camerieri. Non gli piacevamo non perché fossimo meridionali, ma perché ambigui nell’essere fratelli con cognome diverso. Noi infatti eravamo altro. Eravamo deboli, e soli. Ritornammo a casa, non ricordo neanche come, e io continuai a cercare, trovare e perdere lavori. “All’inizio, va così," mi dicevano.

        Ma io, non mi perdevo d’animo. Alla fine avevo trovato come lavapiatti al centro. Si chiamava "la cantina di Manuela". Dopo un poco ancora come cameriere al ristorante “La Daunia" al centro di Milano, nel quartiere di Brera. Ma ci rimaneva il problema della casa. La condivisione della stanza in comune con l’amico catanese, era diventata una guerra giornaliera per lo spazio e per gli usi differenti di tutto ciò che era il nostro contesto. Eravamo tropo stanchi per stringere amicizia con gli altri catanesi che conoscevamo. Eravamo troppo depressi per giocare a fare i milanesi, così le uniche nostre amicizie erano rivolte alle persone con cui condividevamo il lavoro e il pane.I nostri amici restavano ora le persone con cui parlavamo ogni giorno: una ragazza africana, per cui mio fratello stravedeva, e che ci aveva aiutato a mandare curricola a manca e al centro, e gli egiziani con cui lavoravo, a Brera.

        Questi erano: il cuoco del ristorante che aveva circa cinquanta anni, e che era una guida spirituale alla sua moschea, il figlioletto che faceva l’aiuto cuoco, il pizzaiolo che faceva delle pizze stupende e una, in special modo, che sembrava la lampada di Aladino; poi c’era un ragazzo che come me serviva ai tavoli, e poi c’era Sami che faceva il lavapiatti e che mi ha fatto capire come si lavora duramente in cucina senza lamenti.Sami era diplomato come me, aveva preso un diploma in Egitto di scienze della comunicazione. Era un po’ più basso di me, aveva una corporatura atletica e la pelle dorata. Arrivava sempre primo, si occupava della legna della pizzeria, di accendere il forno a pietra e la cucina. In genere arrivavo infreddolito, mentre andavo in cucina a prendere una porzione di panna cotta, lo sentivo bestemmiare che per lui ero troppo capriccioso. “Per un egiziano, lo sai non c’è il giorno di riposo, e non c’è febbre”.

        Ma neanche io me ne ero preso di riposo in quel mese e mezzo di lavoro lì. Da solo, con l’aiuto dell’altro amico egiziano mi occupavo del ristorante: dai cessi fino al conto pagato, la mattina e la sera fino a notte. Ad inizio dicembre, la guerra per la stanza di via Vespri era terminata, e tutti eravamo rimasti perdenti. Fabio, il caro amico che ci aveva tollerato ci aveva messo alle strette e mio fratello ed io eravamo senza casa. Tutte le possibilità di trovare una casa fallivano miseramente, e nessuna mano allora ci fu tesa, se non quella del cuoco del ristorante di Brera. “Vieni a casa mia”, mi aveva detto, mentre prendevo alcuni piatti da portare in sala. “Vi ospito io, finché posso, finché non trovi casa”. Siamo entrati a casa sua, che si trovava vicino al Politecnico, dopo essere stati a dormire in macchina per una notte, perché volevamo capire quanto avremmo potuto resistere.

        Nella casa dell’imam egiziano, io ho scoperto cosa significhi essere ospitato da qualcuno altro. Lì abbiamo fatto esperienza di condivisione e di amicizia. “Intingi il pane dal mio stesso piatto”. E ancora: "Alla fine del pranzo, beviamo questo the”.Bisognava che soltanto io stessi attento, a stendere la nostra biancheria, fuori nel terrazzo, poiché c’erano dei turni da rispettare. Mentre ricordo ancora come si dorme bene a terra, con le coperte e i piumoni prestati dagli amici, penso che da allora qualche cosa è cambiato dentro di noi. Ma non so cosa esattamente, soprattutto penso che lì, forse ho cominciato, anzi come mi dice Luciano “abbiamo cominciato a guardare il mondo come poveri”. E siamo rimasti stupiti.

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