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      SanLibero in pillole

      • E' morto un prete

        27 gennaio 2008 - Riccardo Orioles

        E' morto un prete a Catania, che si chiamava padre Greco. Non è una notizia importante e fuori dal suo quartiere non l'ha saputo nessuno. Eppure, in giovinezza, era stato un uomo importante: uscito dal seminario (il migliore allievo) era “un giovane promettente” ed era rapidamente diventato coadiutore del vescovo. Io di carriere dei preti non me ne intendo ma dev'essere qualcosa del tipo segretario della Fgci, e poi segretario di federazione, comitato centrale, onorevole e infine, se tutto va bene, ministro. Comunque lui dopo un anno si ribellò. Che cazzo - disse a se stesso - io sono un prete. E il prete non sta in ufficio, sta fra la gente.

      In evidenza

        Il muro del Mediterraneo comincia a Tangeri

        La storia di Mohamed non è eccezionale. Vive a Madrid, frequenta i corsi di istruzione, ha amici, una casa, una vita "normale". Ma è un essere umano di serie B. Non ha la pelle bianca, è un immigrato. Perciò si dispone di lui a secondo dell’umore. A volte lo si tollera, a volte lo si afferra e lo si caccia via. Migliaia di adolescenti vengono triturati così, in un meccanismo disumano che comincia a Tangeri e finisce chissà dove

        di Luca Rossomando

        Mohamed vive da due anni in Spagna. È passato per Ceuta e Algeciras prima di arrivare a Madrid. Ha vissuto per un mese in un centro di prima accoglienza, sei mesi in una pensione e infine si è stabilito in un appartamento gestito da una cooperativa, dove abitano altri ragazzi marocchini. Mohamed frequenta due corsi di formazione, uno da muratore e uno da cuoco. I suoi amici sono le persone che vivono in casa con lui: i coetanei con una storia che assomiglia alla sua e poi gli educatori della cooperativa. Ogni tanto Mohamed visita i parenti che abitano a Madrid in un altro quartiere. Un giorno, all’improvviso, sente dolore all’occhio sinistro. Uno degli educatori lo accompagna al pronto soccorso. Il medico diagnostica un distacco della retina e lo manda all’ospedale per farlo operare. Dopo l’operazione, Mohamed torna a casa. Gli hanno prescritto alcune medicine e riposo assoluto. Un mese dopo ha di nuovo male e torna a farsi visitare. Si sente ripetere di non fare sforzi, di evitare lo sport e i viaggi. Almeno per altri tre mesi. Un’ora dopo, alle dieci di quella stessa mattina, viene fermato da due poliziotti in borghese mentre esce da un bar. Gli agenti lo accompagnano a casa e, in presenza del direttore dell’appartamento, lo costringono a fare i bagagli, lo conducono all’aeroporto di Madrid, lo ammanettano e lo fanno salire con la forza dentro un aereo, in compagnia di un altro ragazzo marocchino e di tre agenti in borghese. Quel pomeriggio Mohamed si ritrova in Marocco. Prima di partire ha chiesto il permesso di telefonare ai familiari di Madrid, ma gli agenti non gliel’hanno concesso. All’arrivo a Tangeri lo conducono direttamente alla polizia marocchina. Qui gli comunicano che sarà citato in giudizio per il reato d’emigrazione illegale. Lo tengono cinque giorni in una cella, a pane e acqua, e poi lo rilasciano. Per raggiungere il suo villaggio deve arrangiarsi. I genitori sono sorpresi di vederlo. Nessuno li aveva avvertiti di quel che stava accadendo. Adesso Mohamed ha continui dolori all’occhio e una forte congiuntivite. In Marocco non esiste un trattamento medico gratuito e la sua famiglia non ha i soldi per pagargli le cure.

        * * *

        Le storie dei giovani migranti cominciano sempre a Tangeri. Prima c’è l’attesa. Giorni, anche mesi, fino al momento dell’improvvisa partenza: schiacciati tra decine di persone dentro un gommone; oppure da soli, nascosti sotto l’asse di un camion. All’arrivo - quando arrivano -, il primo bivio. Il rimpatrio immediato, oppure l’accoglienza. Il doppio status, di immigrato illegale, ma anche di minore, titolare dei diritti di tutela. In questo secondo caso, un’altra biforcazione: la scelta del circuito di protezione ufficiale o la precaria solidarietà delle reti clandestine. L’entrata nella rete delle istituzioni spagnole: il centro di accoglienza, la pensione, la stanza di un appartamento, i corsi di formazione e la trafila per il permesso di residenza; oppure l’insofferenza verso la regressione della tutela e la mancanza di autonomia, e quindi la scelta della strada. Le statistiche mostrano che quasi tutti preferiscono la tutela dello stato spagnolo. Chi ha imparato a conoscerli, dice che i ragazzi che attraversano lo Stretto non sono abituati alla vita randagia. Hanno in testa un progetto migratorio e sono le falle del sistema a spingerli verso la strada. In ogni caso, al compimento dei 18 anni chi esce dai centri di accoglienza non è molto più stabile di chi si è volontariamente sottratto. L’improvvisa solitudine dopo anni segnati dalla presenza di tutori e assistenti sociali, la mancanza di un vero lavoro e il permesso di residenza che tarda più del dovuto, sono le spie di uno stato d’incertezza che colpisce anche chi ha scelto la via legale. E poi, su tutti, la minaccia di un epilogo anche peggiore. L’espulsione, indiscriminata e improvvisa, che accomuna in modo definitivo minorenni e maggiorenni, legali e illegali. Alla fine del 2003 la Spagna e il Marocco hanno firmato un accordo per il rimpatrio dei minori non accompagnati.

        In queste operazioni - sostengono le agenzie per i diritti umani - il maltrattamento da parte della polizia marocchina è un elemento costante; quello della polizia spagnola, una variabile. Le autorità di entrambi i paesi definiscono la procedura di espulsione come “riavvicinamento familiare”, ma nessuno, né gli spagnoli, né i marocchini si prende la briga di rintracciare, o anche solo di avvertire le famiglie dei ragazzini.

        Nel giugno del 2006 una trentina di organizzazioni in difesa dei minori migranti si sono riunite a Al Hoceima, in Marocco, per stilare un manifesto di critica dei rimpatri forzati, eseguiti senza notifica e senza tenere in conto l’opinione di chi li subisce. “Nella maggioranza dei casi – dice il documento – non è stato garantito ai minori il ritorno in famiglia. Sono stati lasciati alla frontiera, esposti al maltrattamento da parte delle autorità”.

        Il manifesto critica l’allarmismo dei mezzi di comunicazione spagnoli sulla presunta invasione di minori stranieri, quando in realtà le statistiche e l’esperienza sul campo dicono che gli arrivi tendono sempre più a diminuire.

        Le organizzazioni chiedono che i fondi spagnoli destinati all’infanzia e alla cooperazione allo sviluppo non siano usati per costruire in Marocco centri per i rimpatriati; e che in Spagna l’amministrazione non abbandoni i ragazzi al compimento della maggiore età e conceda la residenza entro i nove mesi previsti, o almeno un permesso provvisorio come previsto dalla legge. “La documentazione non deve essere concepita come un premio, ma come un punto di partenza imprescindibile”, dicono. E soprattutto, finché non si daranno queste garanzie, le organizzazioni di appoggio ai minori chiedono il blocco di tutte le espulsioni illegali dalla Spagna.

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