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      SanLibero in pillole

      • E' morto un prete

        27 gennaio 2008 - Riccardo Orioles

        E' morto un prete a Catania, che si chiamava padre Greco. Non è una notizia importante e fuori dal suo quartiere non l'ha saputo nessuno. Eppure, in giovinezza, era stato un uomo importante: uscito dal seminario (il migliore allievo) era “un giovane promettente” ed era rapidamente diventato coadiutore del vescovo. Io di carriere dei preti non me ne intendo ma dev'essere qualcosa del tipo segretario della Fgci, e poi segretario di federazione, comitato centrale, onorevole e infine, se tutto va bene, ministro. Comunque lui dopo un anno si ribellò. Che cazzo - disse a se stesso - io sono un prete. E il prete non sta in ufficio, sta fra la gente.

      In evidenza

        A viso aperto Vivere con Dio e per gli altri in terra di mafia

        Si può essere cristiani in Sicilia oggi? Che cosa vuol dire credere in un Dio, qui e ora? Non abbiamo risposta. Ma l’abbiamo cercata umilmente, fra quelli che vivono la loro fede - qualunque fede - fra gli ultimi del mondo. A loro abbiamo posto delle domande

        di Fabio D’Urso

        La memoria: Paola Lamartina e la sua casa aperta alle altre donne a Roma, Giovanni Piro e la parrocchia dei Santi Pietro e Paolo a Catania. Il presente: la Chiesa valdese in Sicilia con le sue scelte antiche contro la mafia. I suoi pastori di oggi: a Palermo una giovane donna, a Catania un giovane uomo dai capelli rossi e i sorrisi ampi. Memoria: “L’unica possibilità per un uomo è andare contro se stesso e il suo potenziale di intolleranza verso gli altri, è abbattere ogni muro”. Padre Giovanni Ladiana, gesuita, ha gli occhi ben aperti mentre sta celebrando la sua eucarestia. Pensa concretamente alla fondazione del centro Astalli a Catania.

        Presente: il centro Astalli a Catania: oggi accoglie un centinaio di immigrati al giorno e rende loro diversi servizi: li fa lavare con le docce, con la lavanderia gli rende puliti gli abiti, con l’assistenza legale cerca di rendere loro dignità, con il centro ascolto, l’assistenza medica, il banco alimentare, la scuola di italiano cerca di farli sopravvivere e rendergli la loro vita.

        Presente: Padre Valerio, vincenziano, è responsabile della Caritas di Catania, lavora anche alla parrocchia della stazione, quella sempre piena di donne e uomini polacchi e rumeni, un via vai di esseri umani senza diritti e in cerca di lavoro: soltanto i polacchi a Catania sono circa duemila.

        Presente: Pippo e la ronda della solidarietà, gente che notte si fa evangelizzare dalla disperazione dei poveri o dalla parola di chi, nonostante la miseria, vive senza rancore.

        Presente: “I poveri mi hanno annunciato il Vangelo” dice Giuliana con la sua voce gentile. Fa l’insegnante di sostegno in un istituto superiore di Catania. “Che fai domani sera?”. “Faccio la notte al dormitorio della Caritas in Via santa Maddalena 19. “ Giuliana ha trent’anni e ama le scritture di Charles De Foucauld e di Magdelaine di Gesù, frequenta la comunità cristiana che si riunisce a S. Nicola, sta scrivendo un lavoro sul quartiere di Librino per l’università di Catania. E’ una persona che non ha fatto del suo servizio agli altri un potere personale. Ci sono altre persone come lei. Rosanna, che ha quaranta anni, ed è comunista, insegna in una scuola elementare la mattina e poi la sera lavora al centro sociale Experia. Tiziana, buddista, che lavora con i tossicodipendenti e con gli anziani e ama fare teatro. Tutte queste persone, insieme ad altre sconosciute, con la loro impotenza innanzi alla vita. e il loro coraggio aiutano a sperare e lottare altra gente. “Lotti la mafia, con il tuo lavoro, Giuliana?” “Non so”. Riepilogo parziale: ci sono tante persone che lavorano con la gente, molte di esse sono credenti cristiani, altre hanno altri modi di guardare il cielo. A queste persone abbiamo rivolto una domanda sull’amore, la lotta e la responsabilità. La domanda che abbiamo posto è questa: “Per te e pensando alla tua esperienza di dialogo e di cooperazione, che consapevolezza esiste, per maturare responsabilità dinanzi alle mafie? Il comandamento dell’amore inteso nella sua accezione politica riesce a fondare per un gruppo o per una comunità cristiane azioni contro la mafia? Come una persona, un gruppo o una comunità cristiana si dà responsabilità dentro la propria terra (territorio, quartiere, città, paese, spazio antropologico) dinanzi alla mafia, e come sostiene gli altri? E a partire da sè e dal proprio contesto, cioè dalla propria specifica posizione, quale responsabilità abbiamo del contrasto alla mafia?”

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        Memoria, dal diario di Oscar Romero: “Il nucleo principale del mio pensiero è: Cristo Risorto vive, e vive nella sua comunità di cristiani su questa terra. Ho spiegato le caratteristiche del Cristo risorto: Signore e Dio, messagero e artefice della redenzione degli uomini; il suo saluto di pace è la sintesi di questo regalo che il padre ci ha mandato in Cristo, la salvezza. Ho anche presentato il risorto come l’oggetto della nostra speranza nella Chiesa pellegrina, che anela l’incontro con Cristo che deve tornare. Ho spiegato le caratteristiche di questa comunità cristiane che nel mondo porta lo spirito di Cristo. Il Vangelo ci racconta che Cristo risorto ha inviato la Chiesa, così come il Padre aveva inviato Lui; e che soffiando sulla nuova Chiesa, ha trasmesso la nuova vita che la Chiesa deve portare al mondo. Le caratteristiche della comunità sono negli Atti degli Apostoli, dove il libro dice che quella grande moltitudine viveva una vita in comune, era una comunità dove abbondava la preghiera, si riunivano nella frazione del pane e vivevano la grande speranza. Questa è, dunque, l’idea di come deve essere la Chiesa, la comunità che segue Cristo e che è presenza di Cristo in questo mondo, missione salvatrice di Cristo. Una comunità di vita che va crescendo, una comunità dove la vità trova la salvezza. Comunità di vita anche, che manifestava la sua comunione condividendo mutuamente i beni di Dio”.

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        Memoria individuale: Essere cristiano. Sapere ridere e allo stesso tempo avere gratitudine alla buona sorte degli avvenimenti e degli incontri che, complici, ci hanno aiutato a pensarci così. I ricordi. Di Dom Helder, gli occhi che restavano attenti alle persone attorno a sè. Di Tonino Bello, il corpo e i suoi movimenti plastici. Di Ernesto Balducci, una voce al telefono mentre ci chiede di incoraggiare padre Salvatore Resca e il suo coraggio di denunciare la collusione materiale dentro la Chiesa di Catania. Di Giovanni Franzoni la franchezza, la solitudine e la solidarieta mentre siamo in macchina con lui da Bologna a Roma, dopo uno dei convegni delle comunità cristiane di base. Di padre Felice Scalia l’idea di farci scrivere su I Siciliani, di padre Pintacuda mentre ci fa coraggio e ci invita al discernimento. Di don Rosario Giuè mentre osa ospitarci a casa sua a Palermo, in un momento in cui forse eravamo troppo carichi di ferite.

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        La Chiesa valdese e la metodista e battista a Catania da qualche tempo hanno come pastore Ciccio Sciotto. Ha una postura sicura e l’ascoltare attento, l’attenzione che vuol vigilare sulla sua terra. Non è stato possibile (cose più impellenti da fare) avere una sua scrittura sull’amore e la responsabilità politica e le mafie. Ma di buon mattino ne abbiamo parlato attraverso un vecchio strumento che è il telefono di casa. “Dicci cosa pensi sull’amore del prossimo”. “L’amore per un cristiano è parola universale, che nel quotidiano viene concretizzata nella parzialità delle esistenze. E’ come una lente per leggere le regole che ci diamo, e la cifra etica della nostra esistenza. Credo che dobbiamo impegnarci a vivere per il bene di tutti, lavorare per dare la possibilità a tutti di amare e essere amati, nello spazio che ci è dato da Dio per agire. In questo sta la nostra responsabilità”. “Le chiese possono agire contro la mafie?”. “Le chiese hanno l’obbligo di farlo! Devono agire contro la mafia. I cristiani seguendo la loro vocazione, che viene loro dall’Evangelo, hanno il dovere di andare contro ogni mentalità e struttura mafiosa”. “Ti sembra che in una visione complessiva dell’agire delle chiese contro le mafie, questo obbligo venga rimosso?”. “E’ difficile elaborare un giudizio generico, ma ritengo che per un cristiano la responsabilità nel tacere è fortissima. E questo vale anche per ogni chiesa”. “Pensi che il territorio sia un punto di collegamento tra chiesa e società civile?”. “Non credo sia esattamente così. C’è un rapporto sano tra chiesa e società civile nel momento in cui diventa difficile individuare le loro specificità. Pensa ad una soluzione chimica, pensa all’acqua ancora calda in una pentola o a una manciata di sale che si scioglie. Pensa all’acqua del mare; e poi pensa al mare inquinato, pensa ad una strada in cui si crea un riflusso d’acqua che viene sporcato dall’olio che cade da una macchina. Ecco, la soluzione mancata tra acqua e olio può essere una rappresentazione di un rapporto che per le forme differenti create dalle molecole di entrambe risulta difficile, non naturale; Potremmo anche dire non trasparente, perciò non evangelico”. “La chiesa valdese confessa la lotta alla mafia, nel suo patrimonio di catechesi?”. “Se parliamo di prese di posizione, esse si possono già trovare dagli inizi del novecento. Tra gli anni sessanta e settanta nasce il centro di Riesi, in un territorio, tra Caltanisetta e Gela, fortemente intriso di mentalità e potere mafioso. In questo senso è stata storicamente una chiesa capace di essere solidale; questo è uno degli aspetti di una chiesa che si situa su spazi minori della popolazione”. “Collabori con due preti cattolici don Pino Ruggeri, e don Pippo Gliozzo: sei contento di quest’agire comune?” “Contentissimo! Facciamo la lettura della parola di Dio insieme a S. Nicola. E collaboro anche con don Gliozzo e il gruppo dei fratelli dell’Elpis, omosessuali credenti, sempre per il servizio alla parola di Dio”. “Ritieni questa un’azione diretta contro la mafia?” “Non propriamente, non direttamente: anche se penso che le persone che si incontrano attorno alla Scrittura lavorano, indirettamente, contro la mentalità mafiosa; poichè la parola di Dio è contraria alla delega, all’egoismo mafioso e all’assenza di diritti “.

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        Memoria individuale. Avere conosciuto molte donne. Trovare, nella consapevolezza loro della loro vite, qualcosa che ti cambia la mente. Essere stato salvato (ad esempio) dalla pratica religiosa (buddista) di un’antica compagna, Tiziana. Essere molto voluto bene, da donne di altre confessioni che ci insegnano a vivere, sperare ed amare. Negli ultimi anni mia compagna di scuola superiore (da uomo bocciato nella vita ho creduto bene di rifare le scuole superiori serali) era una artista testimone di Geova. Nessun’altra persona prima di Elisabetta, mi aveva insegnato davvero la differenza tra il detestare il peccato e l’amare il peccattore. La chiesa in frammenti, con sue diaspore emerge, con difficoltà dalla vita e dalle azioni delle persone e dei gruppi che si incontrano concretamente. Ma continua ad essere esperienza di vita, ogni qualvolta ognuno si apre alla parola di Dio o semplicemente, da un altro punto di vista, ogni qual volta c’è possibilità di guardare con i propri occhi il cielo. “Questo tormento univoco che ci ha fatto diventare gli occhi neri come quelli di un cerbiatto, in un bosco risparmiato dall’uomo” (Rosario Turrisi).

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        Paola Lamartina, cristiana di Catania, insegnante di lettere, animatrice delle comunità ecclesiali di base, lavora da sempre per la promozione integrale dei poveri. Da quindici anni circa vive a Roma. La sua specifica vocazione è l’accoglienza delle donne e dei loro bambini. “Nella mia esperienza di vita - dice Paola - ho portato con me alcuni valori della mia terra. Ho imparato da essa ad accogliere l’ospite, e ad aprirgli la porta di casa e il cuore. Ho imparato dalla fatica di emigrare, dal lasciare terra e persone. Queste esperienze, così forti, mi hanno insegnato a star vicino a chi viene da terre lontane o da una vita di grande sofferenza e fatica. Ospito donne in gravidanza di altri paesi e quelle uscite da situazioni limite, come la galera. Dentro la mia casa, con le stesse donne che abbiamo accolto, stiamo vivendo un processo positivo, in cui giorno dopo giorno comprendiamo che la speranza di ricominciare a esserci si sperimenta insieme. La mia responsabilità è situata proprio in questa posizione di raccordo tra le donne e gli uomini che hanno bisogno, e coloro che invece si sentono interpellati ad impegnarsi; in un processo di osmosi in cui debolezza e forza altrui diventano un’unica energia vivificante. Infine, abbiamo deciso di allargare il cerchio di aiuti, di pensare oltre la nostra città. E siamo partiti altrove”.

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        A PALERMO CHIESA, POLITICA E IMMAGINE DI DIO

        Il rapporto tra Chiesa e politica si può leggere a partire dall’immagine che la Chiesa stessa ha di Dio. E’, infatti, l’immagine che la Chiesa ha di Dio che poi la spinge ad un determinato rapporto con la politica. Perciò, se la Chiesa insegue un’immagine di Dio che vede ovunque nemici, di un Dio triste, un Dio assediato e che non è in grado di abbracciare tutti, specialmente poveri, vittime, omosessuali, donne, divorziati, allora la Chiesa si servirà della politica per difendere la cittadella assediata della cristianità, dei “valori cristiani”, degli interessi cattolici. Si servirà della politica per porre un arginare alle altre religioni che e alla secolarizzazione che avanza. Spingerà a chiedere leggi che sostengano una morale dell’esclusione e del sacrificio, e non avrà interesse a riconoscere i diritti dei diversi. Se, invece, l’immagine che la Chiesa ha di Dio è quella di un Dio della speranza, più che della fede dottrinale, che abbraccia tutti, che si pone come orizzonte per tutti gli uomini e le donne, al di là di culture e appartenenze, allora la politica sarà per la Chiesa uno strumento per amare, per impegnarsi nella storia concreta per la liberazione di chi è più debole, di chi è escluso, di chi è più vittima. Sarà una Chiesa che guarderà alla politica non come strumento di cattolicizzazione della società, ma come via per amare chi non ce la fa da solo e per costruire una comunità più inclusiva e felice. don Rosario Giuè
        L’INTELLETTUALE “L’INDIFFERENZA DEGLI IGNAVI UCCIDE”

        Provenzano si cibava di cacio e bibbia. Non è stato il primo - né probabilmente sarà l’ultimo – dei mafiosi devoti. Vogliamo provare ad approfondire? Partiamo dai dati storici (al di là dei pregiudizi ideologici). Anche se molti sono stati cristiani e mafiosi senza problemi, non è vero che tutti i mafiosi sono stati cristiani né, ancor meno, che tutti i cristiani sono stati mafiosi. Tra mondo ecclesiale e mondo mafioso si sono alternati, e sovrapposti, rapporti molteplici: qualche volta di complicità (preti organici a cosche o comunque in sintonia con capi-mafia), qualche altra volta di conflittualità (preti che, sin dai moti sociali di fine XIX secolo per la distribuzione dei latifondi ai contadini, si sono schierati dalla parte delle vittime del sistema di potere mafioso), più spesso di estraneità (preti che ritengono la mafia un mero fenomeno criminale di competenza delle autorità statali preposte all’ordine pubblico). Se questo quadro storico è, nella sostanza, veritiero, si possono trarre due o tre considerazioni per capire l’attualità e, soprattutto, per immaginare un futuro alternativo. Una prima considerazione deve evidenziare il rilievo dell’abituale distrazione del mondo ecclesiale nei riguardi del dominio mafioso. Né complicità né conflittualità sarebbero possibili senza lo sfondo di estraneità: è l’indifferenza degli ignavi che rende possibile sia i patti scellerati (con vescovi, parroci, frati e dirigenti dell’associazionismo cattolico) sia le punizioni esemplari (di chi, come don Pino Puglisi a Palermo o don Peppino Diana a Casal di Principe, osano disubbidire agli ordini). Una seconda considerazione: nonostante il vistoso calo d’incidenza nel tessuto sociale, la chiesa – come la scuola - svolge un ruolo pedagogico da non sottovalutare. Come ogni altra agenzia educativa, può contribuire (con l’estraneità o con la complicità) a riprodurre il consenso socio-culturale (senza il quale la mafia non sarebbe mafia ma delinquenza generica) quanto ad innescare, se invece esalta gli aspetti della conflittualità, elementi di dissenso popolare intergenerazionale e transclassista Una terza considerazione: una eventuale, auspicabile strategia di scardinamento del consenso socio-culturale alla mafia presupporrebbe, da parte delle comunità cristiane, delle revisioni radicali (e, in taluni casi, dolorose). Intanto (e questo riguarda in particolare i cristiani – cattolici) una revisione della dottrina teologica alla luce della Bibbia: troppe superfetazioni ideologiche hanno fatto del messaggio biblico originario un efficace apparato di legittimazione dei poteri mondani. Ma non basterebbe (come attesta l’esperienza dei cristiani-protestanti) questo pur necessario passo indietro dalle teologie del potere alla fonte originaria costituita dai Libri del Primo e del Secondo Testamento. Infatti le Scritture, lungi dall’essere un Testo da venerare feticisticamente, documentano una fase storica dell’incessante ricerca religiosa dell’umanità. Se le assumiamo letteralisticamente (o, nel suo significato etimologico originario, ‘fondamentalisticamente’) esse offrono il fianco a interpretazioni opposte: ci consegnano l’annunzio di un Dio ‘padre’, libero e liberatore dell’uomo, ma anche di un Dio ‘padrino’, che persegue i suoi fini senza risparmiare violenze e vendette. Augusto Cavadi www.webalice.it/acavadi
        A CATANIA “O CON LA MAFIA O CON DIO”

        Io penso che tutte le comunità cristiane sentono il contrasto irriducibile tra appartenenza e condotta mafiosa da una parte e vangelo dall’altra, ma non conoscono il mezzo efficace per debellare il costume mafioso. Del resto la mafia stessa va intesa come deviazione sociale funzionale tuttavia ad alcuni tipi di società. Lo stesso don Pino Puglisi perché fu inviso alla mafia? Non per gesti e denunce eclatanti, ma perché pose in atto un’azione di rieducazione del territorio verso comportamenti che prefigurano un diverso tipo di società, segnata dal rispetto dell’altro e dalla comune responsabilità. Il problema che le comunità cristiane (penso soprattutto alle parrocchie) hanno di fronte non è cioè quello dei gesti clamorosi, quanto quello della messa in atto, nel territorio, di processi educativi che incidano nel costume sociale (il rispetto, la nonviolenza, la solidarietà, la responsabilità comune nell’affrontare i problemi, il privilegio dato al povero e al sofferente). Se questi processi educativi messi in atto dalle comunità risulteranno effettivamente coinvolgenti allora apparirà chiara la contraddizione tra l’appartenenza mafiosa e la professione di cristianesimo.
        IL BUDDISTA “SIAMO RESPONSABILI DELLE NOSTRA VITE”

        La totale responsabilità di ogni individuo nei confronti della propria esistenza è il concetto di base su cui ruota la dottrina buddista. Allo stesso modo, essa indica un cammino, un “destino” comune, per i gruppi sociali; da qui l’importanza attribuita ai pensieri e ai modi di agire diffusi che per una società determinano, immancabilmente, la sua condizione futura di benessere o afflizione. Le mafie non sono malattie “contagiate” al popolo siciliano, i mafiosi non sono esseri venuti da altri pianeti. Si potrebbe pensare che la tendenza diffusa all’illegalità minuscola, materializzata nelle piccole cose della vita quotidiana, sia la base sulla quale poggia le proprie basi quella ben più potente. Si potrebbe affermare che la pratica della ritorsione si autoalimenta ed è molto più diffusa di quanto le persone siano in grado di ammettere. Si potrebbe riconoscere che i piccoli “sfregi” nei confronti dell’ambiente da parte di un singolo non sono privi di effetti: ci sarà sempre qualcuno che si sentirà in diritto di compierne uno più grave. Tutto ciò potrebbe però apparire come un insieme di elementi colpevolizzanti, tendenti a occultare la grande protagonista delle vicende mafiose: la paura. La vittoria si ottiene quando ogni individuo, facendo un bilancio di tutti gli istanti in cui ha vissuto questo dramma, può riconoscere che prevalgono quelli in cui si è opposto con mezzi non violenti a qualsiasi forma di sopruso. Anche la paura può essere sconfitta con i pensieri e con le azioni. Quelli giusti. Passando per la costruzione di una nuova coscienza collettiva. Adriano Bella
        L’INDUISTA NON PUOI FARE IL BENE? ALMENO EVITA IL MALE

        Chi non ha la possibilità di fare il bene eviti quando meno di fare del male.Pare ovvio, ma se tutti avessero agito in tal modo il mondo sarebbe molto diverso. Evitare il male significa in ogni caso astenersi dal nuocere a chicchessia, animali e ambiente compresi, rendendo in tal modo omaggio anche alla natura. Persino l’esasperata, accanita competizione dovrebbe essere evitata, una volta raggiunta un’onorevole posizione sociale. Se riconosciamo un medesimo “sè” in tutti, a quale scopo competiamo? Infine, deve essere evitato lo spreco di qualunque cosa, cibo, acqua, energia, di qualunque risorsa della natura. Poiché nessun bene è illimitato, sprecandolo lo sottraiamo ad altri, operando così un vero furto di cui saremo chiamati a rispondere. Inoltre la distruzione delle risorse naturali causa un vero squilibrio nella natura stessa, i cui effetti divengono ogni giorno più sensibili. Il poco spazio a disposizione non consente di sviluppare ulteriormente l’argomento; concludo con un assioma che nel mio recente viaggio in India mi è stato più volte ripetuto: “Dio gradisce molto di più una mano che aiuta, piuttosto che una bocca che prega”. Mauro Marchisio
        IL PROTESTANTE CONTRO LA MAFIA, IL VANGELO

        La speranza è il coraggio concesso alla fede di assumersi delle responsabilità in questa storia, pur nella consapevolezza del carattere provvisorio della nostra azione. Se la redenzione promesa non è il prodotto della nostra attività, ma opera di Dio soltanto, è facile essere tentati di ncrociare le braccia e dispensarsi da ogni responsabilità storica. L’attesa escatologica, nella cui luce tutto viene relativizzato e che invita a un "possedere come se non possedessimo" potrebbe esser fraintesa nel senso che non vale la pena di impegnarsi, visto che la scena di questo mondo passa. Se la "nostra azione è vana anche nella vita migliore", se tutto quel che costruiamo crolla di nuovo, se il mondo salvato non può essere allestito da noi, diventa facile cedere a una rassegnazione che paralizza ogni attività. Ma anche se la cristianità ha ceduto spesso a questa tentazione, tale conclusione non deriva dall’essenza della speranza cristiana che ci insegna piuttosto a prendere seriamente "la realtà penultima" nella luce dell’ "ultima". Noi non possiamo certo anticipare l’azione redentrice di Dio, ma possiamo testimoniarla e annunciarla con la nostra attività temporale e imperfetta. Vivere di speranza significa quindi: impegnarsi nella lotta contro il male nella certezza che non solo il suo diritto sarà contestato, bensì pure il suo potere definitivamente infranto ed eliminato. L’autoaffermazione e l’autoimposizione che noi conosciamo come le massime supreme da cui ci attendiamo vita e felicità, si riveleranno un autoinganno. Allora risulterà che colui che vuol conservare la propria vita, la perderà. La nostra azione frammentaria può e deve testimoniare che l’amore di Dio si rivelerà come l’unica potenza vittoriosa e vincitrice di tutto. La potenza delle tenebre non ha alcuna promessa, nonostante le sue stupefacenti vittorie apparenti e parziali, e alla luce del Venturo può esser vista solo come temporanea, come già giudicata, per cui ci viene comandato di resisterle, cosa che possiamo fare con efficacia. La confessione del iustus et peccator non va intesa nel senso di un dualismo fatalistico e statico; il peccato è paragonabile all’ombra fuggente e la giustizia al sole che sorge;non domina il crepuscolo della sera, bensì "la notte è avanzata, il giorno è vicino": di conseguenza non esiste alcun armistizio o addirittura un trattato di pace col male. Vivere di speranza significa inoltre: impegnarsi per la vita e contro la morte! Il medesimo Gesù che annuncia il regno di Dio e insegna con autorità, guarisce contemporaneamente gli ammalati e caccia i demoni, anche se tutti coloro che furono da lui guariti andarono poi ugualmente incontro alla morte. La lotta contro la fame, la malattia, la miseria, l’ingiustizia sociale e la mafia - senza cui una comunità cristiana non può mai predicare in maniera credibile il messaggio dell’amor di Dio - corrisponde al sì totale che Dio ha detto all’uomo e che vuole realizzare. Chi crede nella nuova creazione e spera in essa, prende sul serio la creazione. Ciò non conferisce solo il suo diritto e la sua tensione alla diaconia nel senso tradizionale, ma incoraggia a servire questo mondo su scala più vasta, a scoprire e dominare le forze della natura, a lottare per un ordinamento più giusto della società, a gioire delle creazioni artistiche - in breve - a impegnarsi per tutto ciò che rende possibile una vita nella libertà per tutti. Francesco Marletta pastore della Chiesa cristiana evangelica A.D.I.

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