di Graziella Proto
“Con questo straccio di carta, Lei si presenta qui a chiedere" le disse adirata la funzionaria della Prefettura di Catania. "Noi non sappiamo nulla!” aggiunse furibonda. La signora Enrichetta D’Aleo di fronte a questa reazione era sbigottita.Quello straccio di carta conteneva una relazione esplosiva con la quale il TAR di Catania condannava la Prefettura etnea al rilascio dei documenti reclamati dalla richiedente, e che a dire degli uffici prefettizi erano secretati. La Prefettura avrebbe dovuto quantomeno sapere qualcosa. Le saranno inviati per posta qualcuno le comunicò e così lei ripartì. Ma ormai, da qualche tempo non si fidava di nessuno.
“Quando alla posta di Trieste arrivò il plico che aspettavo, prima di aprirlo chiamai a testimone un maresciallo che si trovava presso l’ufficio - racconta Enrichetta Felicia D’Aleo - e così l’aprimmo insieme. Meno male, perché quella che mi avevano inviato da Catania - aggiunge - non era copia conforme, anche se nell’elenco degli allegati era descritta come tale. Al che il maresciallo chiamò il pm di turno al quale raccontai la mia storia e questi sequestrò tutto.” Era il 2002, ma la sua odissea era iniziata tanti anni prima, quando, nel 1988, aveva testimoniato contro Giuseppe Ferrera, detto "Cavadduzzo", in quegli anni uno dei boss della mafia etnea.
“Credevo di aver fatto il mio dovere di cittadina - dice Enrichetta ripercorrendo orgogliosamente la sua tribolazione - invece mi sono ritrovata perseguitata da parecchi rappresentanti delle istituzioni che, probabilmente rispondevano ad altri input. Ma io, fino a quando non avrò giustizia, non mi arrenderò mai”.Grazie alla testimonianza della D’Aleo, Ferrera "Cavadduzzo" è stato condannato, e nella sentenza a suo carico il magistrato scrisse anche parole di elogio per l’assistente sociale che da sola, con coraggio, civismo e senso di responsabilità, nonostante gli agguati e il pestaggio subiti, era andata fino in fondo.
Non sarebbe bastato solo questo per dichiararla vittima innocente di mafia e farla accedere a tutti i diritti previsti dalla legge? Invece, omissioni… archiviazioni… documenti smarriti, pratiche che si bloccavano senza alcuna spiegazione… Il tutto su carta intestata e con tanto di timbro dello Stato. ”Io denunciai l’allora capo della squadra mobile dott. Costanzo, ma non fu mai processato... Anche i prefetti Scammacca e Romano dichiararono il falso, dissero che il processo a Ferrera era stato archiviato… presentai denuncia alla Procura della Repubblica… il dott. Alicata m’invitò al perdono… Il primario del mio reparto, Alfio Pulvirenti, dichiarò che avevo avuto provvedimenti disciplinari… l’allora maresciallo dei carabinieri di Nicolosi - luogo della mia residenza, quando il Dr Montemagno nel 98/99 si adoperò all’interno della squadra mobile per la protezione - nella sua relazione scrisse che non c’era nulla di vero…” Un timbro dello Stato e tutte le bugie sul suo conto sono diventate verità. Lei? Da anni si batte come una leonessa, ha vinto parecchie battaglie, però di alcune questioni per anni non ne ha saputo nulla, alcune pratiche misteriosamente si bloccavano.
Un giorno decide di farsi aprire alcuni armadi e chiede le antiche relazioni. Grazie alla sentenza del Tar - lo straccio di carta - smaschera i falsi prefettizi, e denuncia la prefettura per falso in atto pubblico. Nel frattempo, nel 2004, la regione Sicilia la riconosce vittima innocente della mafia e della criminalità organizzata.Il 15 novembre a Palermo, sostenuta dalla Cgil siciliana, una conferenza stampa: “Voglio solo giustizia, chiedo tutto ciò che mi spetta di diritto. Il ministro degli interni intervenga affinché vengano distrutti tutti i falsi sul mio conto. Mi si dia un indennizzo per i danni morali, esistenziali e materiali subiti. Soprattutto da parte di tutte quelle istituzioni che anziché proteggermi, nel corso degli anni, hanno mentito spudoratamente e depistato. Non chiedo aiuto, chiedo giustizia”.
“Il ministro degli interni Amato - si chiede la Cgil - quando riceverà la lettera con la storia di Enrichetta sul suo tavolo, vorrà mettere fine a questa vicenda oppure vorrà fare come il suo predecessore Pisanu che ha cestinato questa richiesta di giustizia?” . E sono passati due mesi.”Lei è troppo bella per fare l’assistente sociale in questo ospedale” rispose con tono malandrino e scanzonato il boss Giuseppe Ferrera alla dottossa D’Aleo che gli faceva notare che sebbene egli fosse affidato alle forze dell’ordine, il servizio sociale non poteva assolutamente permettere che all’interno dell’ospedale ci si comportasse in quel modo. Quel giorno l’ammalato eccellente scorazzava a bordo di una moto per i viali del parco dell’ospedale, seguito da altre due moto una delle quali guidata da un bambino.Giuseppe Ferrera era stato ricoverato, in stato di detenzione, all’ospedale Tomaselli nell’estate del 1988. Prima di mettere piede dentro l’ospedale, nella stanza che lo doveva ospitare fece installare una porta blindata.
Era affetto di una forma di tubercolosi che, sui certificati, lo rendeva inidoneo a stare dietro le sbarre ed intrasportabile.Cugino di Nitto Santapaola, del quale non era ancora alleato, Giuseppe Ferrera era esponente di spicco di un antico clan mafioso. Già condannato per traffico internazionale di droga, egli era il capo incontrastato delle corse clandestine dei cavalli, della prostituzione, del gioco d’azzardo; padrone delle bische in teoria clandestine, ma in realtà frequentate dalla città-bene, e la cui sede principale era a fianco del tribunale e di fronte alla caserma dei carabinieri.
Teoricamente moribondo, in pratica il boss era autonomo ed arrogante. Forte del suo potere per tutto il periodo del ricovero, dietro quella porta blindata il boss riceveva, decideva, dirigeva, faceva affari, accordi, intrallazzi. Uomini armati vagabondavano per i reparti e i corridoi svolgendo ruolo di infermieri privati e di segretari, smistando un continuo andirivieni di brutti ceffi. Lui stesso, anziché starsene nella sua stanza, gironzolava sempre scortato a vista dai “suoi”, e armato, per i corridoi e i viali del parco che circonda l’ospedale. Durante gli esami specialistici la pistola era semplicemente poggiata su un lettino o su una poltrona.
La sera infine, con alcuni amici - fra cui qualche medico - cene a base di pesce e fiumi di champagne. Un servizio eccellente fornito da un noto e rinomato ristorante del centro, luogo d’incontri e rifugio per latitanti importanti.Nonostante la sua apparente gentilezza, il disagio per gli ammalati era notevole. Per coloro che contestavano, i pugni erano garantiti. Un inserviente che osò far notare alla signora Ferrera che il pavimento era ancora bagnato e quindi doveva pazientare prima di entrare fu preso a pugni. I dirigenti sanitari e il primario erano latitanti e i poliziotti di guardia facevano finta di nulla, anche quando - raccontano - vedevano gli sgherri prendere la bacinella con dentro sangue, garze e cotone idrofilo di altri ricoverati, e metterla sotto il letto del capo, affinchè durante i controlli Digos la diagnosi risultasse effettiva.I malati si sentivano abbandonati e privi di sicurezza. Chiesero aiuto all’assistente sociale.
La dottoressa Enrichetta D’Aleo, unico collegamento fra gli ammalati e gli organi sanitari dirigenti, reclama con il direttore sanitario Alfio Pulvirenti e il primario dottor Umberto Campisi. Nulla! Anzi, dal primario viene invitata a farsi i fatti suoi.La notte del 15 settembre 1988 un commando di killer fece irruzione nel reparto di malattie polmonari scaricando contro la porta una tempesta di proiettili. Giuseppe Ferrera si salvò buttandosi dalla finestra. Ma nemmeno quest’episodio convinse i dirigenti ad intervenire. Un’inerzia sconcertante di fronte alla quale Enrichetta decise di fare denunce alle autorità sanitarie, alla Questura e alla Procura della Repubblica, descrivendo nei minimi particolari il clima di tensione venutosi a creare dentro l’ospedale e chiedendo, per quel malato ammantato da una sinistra notorietà e inquisito per gravissimi fatti delittuosi, l’immediato trasferimento in strutture specialistiche più idonee.
“Cavadduzzo” fu trasferito all’ospedale di Sondalo dal quale però ritornò inspiegabilmente al Tomaselli di Catania nel gennaio successivo. Ci rimase fino al mese di marzo, quando un bel giorno evase. Cioè, semplicemente, prese l’ascensore e poi s’infilò nell’auto blindata con i vetri scuri.* * *La risposta alla denuncia di Enrichetta D’Aleo fu un susseguirsi di avvertimenti, intimidazioni e ritorsioni. Suo figlio fu minacciato e costretto per un certo periodo a stare in località segreta all’estero; non è più rientrato in Sicilia. Poi sono cominciate le aggressioni.
La sera del 13 gennaio 89, all’ingresso dell’ospedale, due energumeni la bloccano e la picchiano selvaggiamente. Una vicenda dalla quale non si riprenderà più, una lesione interna alla testa e conseguente depressione, ansia, problemi cardiaci. Questo ha richiesto farmaci molto costosi, e altrettanto costosi viaggi per visite specialistiche (o per incolumità personale). Il ministro Donat Cattin prende le sue difese e si impegna a farla trasferire dal ministro della Pubblica Istruzione in provincia di Como. Alla fine, Enrichetta è costretta a lasciare il lavoro prima della scadenza, con una pensione minima che non le permette di fronteggiare la pesante situazione finanziaria in cui è precipitata.Per anni, sola col suo coraggio, ha combattuto un’assurda battaglia giudiziaria su tutti fronti: da un lato le testimonianze ai processi contro Giuseppe Ferrera (deceduto nel 98 nel carcere di Gazzi) dall’altro la sua lotta contro alcune istituzioni che tentano di farla passare per pazza, negandole quella giustizia che le spetta.