di Umberto Santino
Nelle ultime settimane a Nord di Casablanca gli avvenimenti si sono rincorsi con un ritmo da montagne russe. Prima la risicata vittoria del centrosinistra alle elezioni politiche, poi la cattura di Bernardo Provenzano dopo 43 anni di latitanza a qualche passo da casa, quindi le minacce di nuova marcia su Roma del ducetto di Arcore e l’ingorgo istituzionale con le elezioni dei vertici dello Stato, infine la formazione del nuovo governo con un numero record di ministri, viceministri e sottosegretari e la vittoria del centrosinistra alle elezioni amministrative a Torino, Roma e Napoli e del centrodestra a Milano e alle regionali siciliane.
L’anomalia italiana, rompicapo dei politologi di tutto il mondo per mezzo secolo di dominio democristiano, continua. Il nuovo capo del governo è il senzapartito Romano Prodi. Ha condotto una campagna elettorale che non è stata proprio un capolavoro e ora sembra una foglia al vento che deve resistere alle folate provenienti da tutte le parti. La domenica di pentecoste in un villaggio umbro ha riunito in conclave i suoi ministri, invitandoli a non andare a gola libera. Si preparano tempi difficili e si spera che vecchi e neofiti imparino a governare invece di soffiare nei microfoni e scaldare le poltrone degli studi televisivi. Nel frattempo, dal cenacolo viene dato l’annuncio: “Dobbiamo avere il coraggio di stupire”. Veramente, a Nord di Casablanca, non sappiamo più di cosa stupirci. Ci prepariamo al referendum sulla macellazione della Costituzione e si spera di rimandare ai mittenti il testo dei macellatori. Si spera pure che il nuovo governo si occupi in maniera seria di mafia e dintorni, dopo anni in cui l’illegalità si è transustanziata in legalità e gli amici dei mafiosi sono stati proclamati eroi nazionali e martiri delle toghe rosse. La cattura di Provenzano ha posto fine a un incubo e a una farsa, ma non a un’illusione: che la mafia sia soltanto un pugno di criminali da baraccone, divoratori di ricotte e produttori di pizzini. Ora si attende una Commissione antimafia degna di tal nome, dopo cinque anni di omertà della maggioranza e di inerzia dell’opposizione.
In Sicilia, a pochi passi da Casablanca, Cuffaro è stato confermato, nonostante le sue disavventure giudiziarie, anzi, grazie a esse, che per parecchi sono un titolo di merito. Sono stato tra i pochi che nelle pochissime occasioni che mi sono state offerte, invitavo a non vedere nelle elezioni l’ultima spiaggia: anche una buona opposizione non sarebbe da buttare.
Dubito che con gli uomini che il centrosinistra ha portato all’Assemblea regionale si possa fare molto e mi auguro che Rita Borsellino, dopo una campagna elettorale che è stata insieme nuova (per il ruolo dei cantieri che hanno elaborato il programma) e vecchissima (nella scelta dei candidati), resista alla tentazione di imbalsamarsi in un ruolo istituzionale e gestisca un’opposizione non solo all’interno di sala d’Ercole ma soprattutto fuori di essa.
Gran parte dei siciliani ha votato Cuffaro perché il centrodestra ha un sistema clientelare che nell’assicurare ottimi affari alle cento anime della borghesia mafiosa consente di sopravvivere agli strati più deboli, offrendo favori e opportunità (20 anni di lavoro all’Albergheria, in quel buco nero che continua a essere il centro storico di Palermo, non sono riusciti a spostare neppure un voto. Vogliamo chiederci perché?). Per sgretolare questo blocco sociale ci vuole una strategia che dia risposte concrete a bisogni concreti, cominciando dalla disoccupazione e dalla precarietà. Se non si pone mano a questo progetto, con presenze diffuse sul territorio, ridefinendo il ruolo di partiti, sindacati e società civile, gestendo vertenze, trasformando i sudditi in cittadini, la volontà di cambiamento sarà solo un pio desiderio destinato a spegnersi al contatto con la realtà.