di Andrea La Malfa
Pizzolungo, 2 aprile 1985: un attentato eseguito in pieno giorno, un segnale eversivo delle cosche desiderose di dimostrare la propria capacità del controllo del territorio. L’obiettivo era il sostituito procuratore di Trapani, Carlo Palermo, arrivato a febbraio dalla procura di Trento dove si era distinto nelle indagini sui traffici internazionali di stupefacenti. Se l’attentato fosse riuscito pienamente, Carlo Palermo sarebbe stato il secondo sostituto procuratore di Trapani assassinato in due anni, dopo l’uccisione di Gian Giacomo Ciaccio Montalto il 26 gennaio 1983. Muoiono invece due gemelli di sei anni, Salvatore e Giuseppe, e la madre, Barbara Asta: erano a bordo dell’utilitaria che stava sorpassando l’automobile di Palermo, proprio nel punto in cui i sicari avevano parcheggiato la vettura carica di esplosivo, che venne fatta esplodere lo stesso. All’epoca il giudice stava seguendo tre filoni di indagine: le indagini partite dalle interctttazioni di un faccendiere locale, Calogero Favata, che arrivavano a sfiorare il gotha della politica del tempo, le ramificazioni di un traffico di droga che univa l’Italia al Medio-Oriente e le false fatturazioni dei cavalieri del lavoro catanesi.
Nel 2004 vengono condannati i mandanti Riina, Virga e Di Maggio e il processo passa in appello. Gli esecutori invece vennero subito identificati in Gioacchino Calabrò (legato alla famiglia dei Santapaola di Catania), Vincenzo Milazzo e Filippo Melodia. Condannati in primo e secondo grado, la sentenza viene cassata nel 1991 in Cassazione. Tra i giudici Corrado Carnevale, che tra gli anni Ottanta e Novanta si era guadagnato sul campo il soprannome di “l’ammazzasentenze”.
Resta, ventidue anni dopo, il ricordo di quelle vittime e delle coraggiose indagini del giudice Carlo Palermo, che abbiamo intervistato.
- Onorevole Palermo, esiste una verità giuridica sulla “Strage di Pizzolungo”? "Esistono delle sentenze passate in giudicato, così come esiste una presunzione di ricostruzione giuridica. Moventi e modalità dell’attentato invece mancano, visto che nessuno degli imputati coinvolti ha mai ammesso alcun addebito. Rimangono le informazioni dei collaboratori di giustizia, che però non sono sufficienti per ricostruire interamente l’accaduto. Ciò è comprensibile se si pensa alla particolare crudeltà di questa strage, che ha visto vittime una donna e due bambini; un’efferatezza che può essere vergognosa addirittura per le stesse cosche o che, quanto meno, può intaccare il consenso sociale di cui godono in alcuni ambienti. Mancano anche gli esecutori materiali visto che gli indizi che potevano risultare decisivi sono emersi solo dopo la loro assoluzione. Per il resto, sinceramente, non mi sono tenuto aggiornato sugli esiti degli ultimi processi".
- Quale pensa sia il retroterra di questo attentato? "Non sono in grado di sapere la verità e preferisco attenermi all’accertamento giudiziario anche se incompleto. Posso ritenere che a Trento avevo svolto un’attività sul traffico di stupefacenti legato ad ambienti mafiosi e che, a Trapani, l’attentato derivasse dal timore che svolgessi un’attività simile anche in Sicilia. Non è pensabile staccare un’attività criminale dall’altra: la criminalità non funziona a cassetti o a compartimenti stagni, ma è interdipendente. A maggior ragione in Sicilia, dove l’organizzazione mafiosa fa da referente e riesce ad esercitare direttamente un controllo sul territorio".
- Quindi una causa potrebbe ricercarsi in ciò che di lei si sapeva a Trapani prima del suo arrivo? "Penso che abbia influito, visto che sicuramente non ero un magistrato di prima nomina. Basta questa semplice constatazione: l’attentato fu fatto circa quaranta giorni dopo il mio arrivo a Trapani. A questo bisogna togliere il tempo necessario per preparare l’attentato, reperire il materiale, ecc.. L’ordine deve essere partito, se non prima che arrivassi, quanto meno non tanti giorni dopo".
- Cosa si temeva che lei potesse scoprire? "Nel momento dell’attentato è stato protetto ciò che si aveva paura potesse essere scoperto. Un mese dopo dalla “strage di Pizzolungo” viene trovato il laboratorio di Alcamo, per cui sono stati imputati diversi mafiosi di cui mi ero occupato a Trento. Poi venne scoperto anche il “centro scontrino”, un ambiente massonico di cui facevano parte gente collegata agli esecutori materiali dell’attentato, per cui subito dopo si è svolto il processo. Diciamo che forse avrei potuto scoprire certe cose. Il filone delle bobine, invece, non so che fine abbia fatto. Lo trovai la, era uno di quei processi “addormentati” scaturiti da delle intercettazioni telefoniche disposte dal Procuratore Gian Giacomo Ciaccio Montalto".
- In questi mesi, a Roma, il giudice Corrado Carnevale è stato riammesso all’interno della Corte di Cassazione. Che cosa ne pensa? "Bisogna rispettare le decisioni del sistema giudiziario. All’epoca dovetti prendere atto anche della decisione del giudice Carnevale di revocare gli ordini di cattura. Comunque Carnevale è stato assolto e questo comporta che non si può persistere in tesi accusatorie".
- Qual è la situazione della magistratura oggi? "La magistratura ha passato diverse fasi. Gli anni delle uccisioni di Livatino, Chinnici, Ciaccio Montalto, lo stesso attentato che ho subito io: Capaci e via D’Amelio negli anni ’90 e contemporaneamente l’inchiesta di Tangentopoli a Milano, sono stati tutti momenti caratterizzati da un’aspra conflittualità, che ormai da quindici anni è venuta meno. Processi come quello Omega, tenutosi a Trapani, con cento imputati per cento omicidi, ora non sarebbero possibili. Tutto ciò non significa che la mafia non esiste più o che bisogna conviverci, ma semplicemente che compie meno atti violenti. Questo cambio di strategia è probabilmente l’effetto combinato di più fattori quali l’adozione di sistemi più penetranti che aumentano la possibilità di essere scoperti, i supporti informatici e l’internazionalizzazione della mafia e dei suoi traffici. La mafia è diventata meno violenta e più attenta agli aspetti lucrativi. Siamo in una fase storica di calma apparante che, in realtà, nasconde scelte di opportunità".
- Come pensa che si potrà evolvere questa fase? "Spero fortemente che si possa mettere in moto un processo di maggiore civilizzazione. La Sicilia è caratterizzata da sempre da un forte isolamento e una povertà generalizzata rispetto all’emersione di pochi ricchi. Questo ha prodotto, prima che la mafia, una cultura di stampo mafiosa. L’emancipazione culturale può essere un elemento vincente in questa lotta; così come il maggiore contatto tra i popoli dovrebbe normalizzare anche la Sicilia. Questo è il mio auspicio, anche perché è sempre meglio chiudere con una speranza che in modo negativo".