di Gianfranco Faillaci
Lo stadio di Catania – uno stadio non nuovissimo, ma in regola con le norme di sicurezza – si trova in piazza Filippo Raciti, nel vecchio quartiere di Cibali. Per arrivarci si percorre tutta via Giuseppe Fava, si passano ordinatamente i controlli ed è impossibile entrarci senza biglietto o portandosi appresso bombe, armi, fumogeni illegali. Sugli spalti, più di ventimila persone aspettano la partita sventolando bandiere rossazzurre. I catanesi sono famosi, perché nessun’altra tifoseria in Italia segue la squadra con tanto entusiasmo, perfino nelle trasferte a duemila chilometri di distanza. Ma sono famosi anche perché, quando incitano i loro giocatori o sfottono gli avversari, lo fanno sempre con ironia e senza violenza. Non si vedono croci celtiche o altri simboli vietati. Nessuno fa cori contro la polizia; se qualcuno ci provasse, verrebbe immediatamente zittito dall’unisono di ventimila fischi. Il custode dello stadio è un dipendente comunale assunto con concorso regolare; non si accompagna con gli ultrà violenti, né conserva per loro spranghe ed esplosivi; se vede movimenti strani, li denuncia subito a chi di dovere.
Il Comune ha abolito l’inutile assessorato “alla squadra di calcio” – buono solo a ramazzare voti tra gli ultrà – ma in compenso ha un assessorato allo sport efficiente e tempestivo. Del resto, dopo il risanamento del bilancio, le casse pubbliche possono sostenere tutte le spese necessarie alla città: da quelle urgentissime per alloggiare le scuole medie a quelle, pur sempre importanti, per mantenere lo stadio sicuro e all’altezza della serie A. Il Calcio Catania è di conseguenza libero di investire tutte le sue risorse nel migliorare la squadra. Molti dei giocatori rossazzurri sono meridionali, alcuni proprio siciliani, ma c’è anche qualcuno che viene da lontano. Il giovane giapponese Morimoto, che oltre ad assomigliare in viso a Ronaldo è anche un centravanti solido e furbo, con i suoi gol ha fatto conoscere a Tokyo le immagini dell’Etna e del barocco catanese; per la prossima estate si prevede un flusso mai visto di turisti dall’Oriente.
Tra i giocatori non nati in Sicilia c’è anche il capitano, Davide Baiocco, che a Catania è arrivato quando la squadra era in B, e ha trascinato i compagni, con classe e coraggio, alla promozione più bella e alla salvezza più insperata. Il sogno di Davide – che non è un attaccante – è di segnare, quest’anno, il suo primo gol in rossazzurro. E di segnarlo davanti al suo pubblico, proprio al Massimino. Dipenderà solo da lui, perché certamente il campo del Catania non sarà mai più squalificato. I responsabili della morte di Filippo Raciti e di tutte le violenze del 2 febbraio sono già stati assicurati alla giustizia. Dopo un processo equo e rigoroso, i colpevoli sono stati condannati. Si sono costituiti parte civile i familiari della vittima, il Ministero degli Interni, il Comune e la Provincia, la società Calcio Catania e quindicimila abbonati. Ciascuno di loro ha obbligato i violenti a pagare tutti i danni, grandi e piccoli, causati dai loro reati. La gente adesso va allo stadio con una fondata speranza: che una notte come quella, a Catania, non si ripeterà mai più.
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Alcune di queste cose potrebbero accadere il prossimo anno, altre potrebbero accadere in futuro e altre ancora, probabilmente, non accadranno mai. Ma far festa per la serie A, oggi, significa anche questo: pensare a come si potrebbe scrivere un’altra storia, gettare i semi di un futuro diverso. Intanto, sul campo neutro di Bologna, il Catania questa serie A se l’è riconquistata. Non ci credeva ormai nessuno, sia perché dopo il due febbraio la squadra non è mai più stata quella di prima, sia perché in Italia, quando si arriva agli sgoccioli del campionato, i risultati delle partite si conoscono generalmente in anticipo. All’indomani della vittoria del Milan in Champions League, contro una signora squadra come il Liverpool, non si trovava un italiano disposto a scommettere che Kakà, Gattuso e Seedorf avessero qualche probabilità di battere la modesta Reggina. E infatti il Milan ha puntualmente perso, cosicché la Reggina s’è salvata, come si è salvato il Siena battendo la fortissima Lazio. C’è stata una sola partita vera nell’ultima giornata, una sola partita in cui non potevano esserci risultati combinati. Per la semplice ragione che Catania e Chievo (la mezza sorpresa di quest’anno contro la sorpresa delle ultime sei stagioni) si giocavano senza tante cerimonie la serie A: o dentro, o fuori. È anche per questo che i gol dei due panchinari rossazzurri che hanno deciso il campionato – il colpo di testa rabbioso di Rossini, la zampata famelica di Minelli – lasciano in bocca un gusto speciale. Il gusto di un piatto genuino assaporato dopo troppi bocconi avariati, il gusto di un dispetto contro i potenti. In un calcio che – come se nulla fosse accaduto – ha ai suoi vertici ancora un Matarrese, e non ha saputo liberarsi nemmeno d’un Carraro.
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È giusto far festa, per questa seconda promozione consecutiva in serie A. Altre squadre, che si sono salvate con molto minore gloria, non hanno avuto cuore di farla. Prendete il Torino, società dalla nobile storia ma dal presente miserello. Il suo proprietario, un editore berlusconiano che parla con la stessa voce del Cavaliere, l’ha messo su spendendo soldi a palate e comprando nazionali vecchi e nuovi. E la squadra è finita lì sotto, un punto più in basso del Catania e un punto più in alto della retrocessione, giocando probabilmente il calcio peggiore d’Italia. Non si sarebbe mai salvato, questo Torino, se a stagione praticamente finita non avesse vinto all’Olimpico di Roma. E non avrebbe mai vinto, all’Olimpico, se la Roma non se ne fosse andata in vacanza con la testa e con le gambe, e se uno dei suoi difensori più forti, Cristian Chivu, non avesse regalato agli avversari il gol decisivo con un liscio da oratorio. Va bene, ciò non significa che quella sia stata una partita combinata. Però, quando il Catania ha giocato a Roma, si è trovato contro un avversario furente che ha – giustamente e sportivamente – infierito contro i rossazzurri fino a batterli per sette a zero. È stato questo, dunque, il campionato del Catania: il campionato d’una squadra del Sud, ricevuta nel calcio dei ricchi con lo sprezzo con cui si guardano gli emigranti. Nessuno le ha regalato nulla; la partita della salvezza ha dovuto giocarsela fino alla fine. Ma, alla fine, ha saputo vincerla da sola.
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È giusto far festa, per la serie A ritrovata. Ma ciò non autorizza a dimenticarsi un solo istante di quel due febbraio. È giusto far festa, perché c’è un tempo per gemere e uno per ballare. Ma, dopo il tempo degli abbracci, viene anche quello in cui dagli abbracci bisogna sciogliersi. Se la salvezza del Catania significa davvero la vittoria di un calcio povero e bello, allora c’è molta gente che, di questa vittoria, non ha alcun diritto di appropriarsi. Tra questi, in prima fila, ci sono gli amministratori del Comune. Un Comune che rappresenta la perfetta antitesi di ciò che è il Catania in serie A. La squadra ha navigato per diversi mesi in alta classifica, e ha comunque mantenuto la categoria con merito e dignità; la città, grazie ai brocchi che la governano, figura da anni nella C2 della vivibilità urbana (nel 2006, secondo il Sole 24Ore, occupava il centotreesimo posto su centotre capoluoghi di provincia). La squadra è stata costruita con pochi soldi, puntando su giocatori giovani, bravi e spesso siciliani; la città ha un primo cittadino d’importazione, ed è tra quelle che pagano al proprio sindaco lo stipendio più caro (il sesto stipendio d’Italia, per l’esattezza). La squadra non ha mai ingannato il suo pubblico promettendo qualcosa di diverso dalla salvezza; il Comune ha preso una delle sue spiagge più belle – quella di San Giovanni Li Cuti –, ci ha fatto scaricare un po’ di spazzatura destinata a una discarica e ha provato a gabellarla per purissima sabbia vulcanica. Per convincersi di quanto poco questa serie A appartenga a chi governa Catania, basta osservare i lavori in corso per mettere a norma lo stadio. Il Comune non ha fatto nulla fino al due febbraio, e poco o nulla ha continuato a fare fino alla fine del campionato. Adesso i lavori sono iniziati ma, per una parte, le spese ha dovuto anticiparle il Calcio Catania. La società, anziché investire tutto quel che ha in cassa nell’ingaggio dei giocatori, ha dovuto comprare un costoso sistema di telecamere a circuito chiuso e perfino pagare le recinzioni di piazza Spedini: che è, fuor di dubbio, una proprietà comunale e non della squadra di calcio. Il contributo della politica cittadina è dunque questo: chiedere alla squadra un aiuto, di fronte al proprio dissesto finanziario, per far sì che allo stadio e dintorni sia più difficile ammazzare la gente. Cos’ha a che fare, un’amministrazione ridotta a questo, con una squadra di serie A?
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«In serie A il Catania sarà solo contro tutti». Lo scriveva Pippo Fava, nel 1983, all’indomani di una promozione bella ma effimera. Solo contro tutti, il Catania, lo è stato anche quest’anno. E lo sarà probabilmente anche il prossimo. Solo, perfino contro un pezzo di città che non perde occasione per imbandierarsi di rossazzurro, ma che in realtà usa la passione popolare come pretesto per i suoi cinici calcoli elettorali, o per la sua bestiale violenza. Bisogna saperlo, se si vuole che la serie A di oggi sia meno effimera di quella di allora. Pippo Fava, prima ancora che si consumasse quella breve stagione sportiva, fu ammazzato per volontà di un pezzo piccolo ma potentissimo di Catania. E ci fu un pezzo molto più grande della città di allora che cercò di farlo dimenticare, e perfino di negare che a Catania esistesse la mafia. Oggi un gruppo di criminali, limitato ma non minuscolo, ha devastato un quartiere e causato la morte di Filippo Raciti. E ben presto i politici di governo sono corsi a dichiarare che costoro «nulla hanno a che vedere con la città». Secondo l’amministrazione comunale il due febbraio andrebbe rapidamente derubricato a un caso, particolarmente sfortunato, di violenza negli stadi; mentre esso è stato, con ogni evidenza, un caso estremo della violenza di Catania. Quella sera, poco lontano dalla piazza degli scontri, abbiamo assistito a una scena istruttiva. Un ragazzino di otto o forse dieci anni, con il volto coperto da una sciarpa, tirava sassi contro alcuni poliziotti. Non ce l’aveva con l’arbitro, o con i giocatori del Palermo, o con i tifosi rosanero. Ce l’aveva con gli “sbirri”. Il papà allora gli ha preso la mano, gli ha detto bravo e se l’è portato a casa. Il male di Catania è in quel papà, e forse è già passato a quel ragazzino. Negare che esista questo male può essere omertà, idiozia, ignoranza o calcolo. Poco importa, in fondo. Quel che è certo, è che negare il male non è sano. E comunque, è una cosa da serie C2.