Inferno Congo: la grande rapina del nuovo secolo
Nove anni di massacri
«Potenze straniere, in combutta con i nostri fratelli congolesi, ancora una volta hanno organizzato la guerra per le risorse naturali del nostro Paese. Le nostre ricchezze oggi servono solo ad ucciderci. Il nostro Paese, il nostro popolo, sono diventati oggetto di sfruttamento. Tutto quel che ha valore è saccheggiato, esportato, o semplicemente distrutto». La notte di Natale del 1999, a monsignor Emmanuel Kataliko, vescovo di Bukavu, questa omelia onesta e coraggiosa costò l'esilio a Roma, in Vaticano, dove morì d'infarto poco dopo l'arrivo. Non lontano dalla chiesa in cui aveva tuonato contro il saccheggio del Congo, il suo predecessore, Christophe Munzihirwa, era stato giustiziato a colpi di kalashnikov sulla piazza centrale di Bukavu da un gruppo di ribelli congolesi e di soldati ruandesi che stavano dilagando in città. Da allora, per la gente di Bukavu, monsignor Munzihirwa è diventato il simbolo dei tanti martiri, sconosciuti all'opinione pubblica mondiale, che hanno sacrificato le proprie vite per la pace in Congo. Sorvolando le immense estensioni di giungla fittissima che ricopre buona parte delle provincie orientali, niente farebbe pensare che questo pezzo di Eden sia invece divenuto l'inferno in terra per i suoi abitanti. Il Congo è uno dei paesi più ricchi al mondo di risorse naturali, il sottosuolo letteralmente ne trabocca. Ma i suoi 66 milioni di abitanti muoiono di fame, di malattie e di stenti, senza poter usufruire di tali straordinarie ricchezze. Nel cortile del «comptoir» di Maurice Ciyane, un commerciante di minerali di Bukavu, sulle rive del lago Kivu, al confine fra Congo e Ruanda, come ogni giorno Pierre pesta con gesto paziente nel mortaio un misterioso minerale di colore grigio-scuro, quasi nero. Deve trasformarlo in polvere finissima, qui tutti lo chiamano coltan, e da alcuni anni riveste un'importanza economica e strategica immensa. Il coltan è un composto di due minerali piuttosto rari, il Niobio e il Tantalio. Ed è proprio il Tantalio ad aver scatenato, a partire dalla seconda metà degli anni '90, una corsa frenetica, planetaria, verso il Congo. Pochi lo sanno, ma proprio nelle regioni orientali della Repubblica democratica del Congo si concentra la maggior parte delle riserve mondiali di tantalio. Molto più potente del silicio, il tantalio è un componente fondamentale per l'industria elettronica. Straordinario conduttore, inattaccabile da quasi tutti gli acidi, resistente alle altissime temperature, serve a ottimizzare il consumo di corrente elettrica nei chip di nuovissima generazione. Condensatori al tantalio si trovano praticamente in ogni telefono cellulare, in ogni telecamera digitale, nei computer portatili, nei palmari. Il tantalio permette un enorme risparmio energetico e una straordinaria velocità e versatilità degli apparecchi. Non è un caso, quindi, che venga utilizzato anche nelle playstation, per gli airbag delle automobili, nei motori dei missili e dei jet, nei radar. Basti pensare che le industrie elettroniche ed aerospaziali di Stati Uniti, Europa e Giappone consumano il 75 per cento del tantalio estratto a livello mondiale. Nelle regioni orientali del Congo, il coltan si trova in enormi quantità, persino nel terriccio e nel fango della foresta pluviale. Estrarlo è facile ma anche molto faticoso: bisogna disboscare un pezzo di giungla, scavare e filtrare il fango con l'acqua, finchè si deposita sul fondo, grazie al suo notevole peso specifico. «Alla fine degli anni '90, in pieno boom dell'industria hi-tech, il prezzo del coltan - ci dice un impiegato del comptoir di Bukavu - era schizzato alle stelle, fino a quasi 400 dollari al chilo. Tutte le grandi multinazionali del settore erano letteralmente affamate di questo minerale. E tutte lo hanno acquistato anche qui, in Congo. Ma adesso le quantità di minerali che giungono a Bukavu sono ai minimi storici. Il motivo? L'assoluta mancanza di sicurezza, troppo pericoloso andarsene in giro con sacchi di minerali». Del resto, rapina, saccheggio, massacri, corruzione, impunità, in Congo sono all'ordine del giorno da almeno 120 anni. Da quando, nel 1885, Leopoldo II, re del Belgio, creò il cosiddetto «Stato Libero del Congo», un elegante eufemismo per non dover ammettere che terre, foreste, persone e risorse naturali, tutto diventava da quel momento esclusiva proprietà privata del re belga. Prima per l'avorio, poi per il caoutchou, poi ancora per l'olio di palma o per il cotone, durante 80 anni di era coloniale, il Belgio depredò brutalmente il Congo. Le cose non cambiarono granchè dopo il 30 giugno del 1960 con l'indipendenza. Due settimane il primo ministro Patrice Lumumba si trovò a fronteggiare una rivolta dell'esercito e il tentativo di secessione della ricchissima provincia del Katanga sostenuta da Belgio e Stati Uniti. Lumumba fu assassinato nel 1961 su ordine di Mobutu Sese Seko, ex-agente dei servizi segreti belgi, che, appoggiato da Bruxelles, con un colpo di stato militare, riuscì poi nel 1965 a diventare presidente. Come Leopoldo secondo, come il Belgio, per 30 anni Mobutu gestì il Congo alla stregua di una ditta privata. Brutalità, repressione, incompetenza, corruzione, nepotismo. Alla metà degli anni '90, ormai vecchio, malato e scandalosamente ricco, Mobutu era diventato impresentabile, ma soprattutto inutile visto che era crollato l'impero sovietico: i suoi ex-protettori decisero di cambiare cavallo. Previdentemente, per un paio d'anni avevano finanziato e armato un capo-ribelle del Katanga, Laurent-Desirè Kabila, ex comunista, ex maoista, ex compagno d'armi di Che Guevara, ma anche ex commerciante di oro e avorio. Nel maggio del 1997, Kabila entrò trionfalmente a Kinshasa, alla testa del suo esercito di ribelli, dopo una lunga marcia di duemila chilometri. Mobutu morì poco dopo in esilio, in Marocco, con un patrimonio di 4 miliardi di dollari. Quel che non tutti sanno, però, è che prima di partire alla conquista di Kinshasa, Kabila aveva firmato contratti miliardari preventivi con alcuni i paesi limitrofi Ruanda e Uganda e con i grandi importatori occidentali di minerali. Americani, ovviamente, ma anche belgi, inglesi, tedeschi, giapponesi, russi, kazaki, israeliani, persino pachistani. I nomi degli stessi destinatari che, a dire il vero, leggiamo a Bukavu sui bidoni e sui sacchi di coltan e di cassiterite di Maurice Ciyane, il grossista di minerali. Quel che colpisce è che, violando la sovranità dell'allora Zaire, nel '97 i grandi importatori di minerali avevano ottenuto da Kabila contratti e concessioni per lo sfruttamento minerario di estensioni enormi di territorio prima ancora che queste passassero sotto il suo controllo. Fu talmente frenetica la corsa contro il tempo da parte delle grandi multinazionali che, un mese prima della caduta di Kinshasa, così cominciava l'articolo dell’inviato del New York Times: «La pista dell'aeroporto di Lubumbashi è piena di jet privati. È sbarcata una quantità incredibile di manager di compagnie minerarie. Stanno firmando contratti di favore, malgrado la totale incertezza circa il futuro. L'unico albergo decente della città è diventato il loro quartier generale». In quei giorni si arrivò al punto che la Bechtel Corporation, un colosso multinazionale americano con sede a San Francisco, commissionò alla Nasa la mappatura completa del Congo ai raggi infra-rossi per determinarne il potenziale minerario. Le informazioni, ottenute coi satelliti, valevano una fortuna e furono cedute gratuitamente a Kabila. La stessa Bechtel, da sempre in ottimi rapporti con la Cia, mise a disposizione di Kabila e dei suoi alleati ugandesi e ruandesi le informazioni militari di un satellite-spia, che consentì ai ribelli di sbaragliare con rapidità le truppe di Mobutu. Con l'ascesa al potere di Kabila, nel maggio del '97, non solo il coltan ma anche oro, diamanti, cassiterite, cobalto, zinco, rame, cominciarono a uscire dal Congo in quantità impressionanti. Cifre da capogiro. Eppure, la luna di miele fra Kabila e i suoi amici finì molto presto perché nel maggio del '98 Laurent Kabila nazionalizzò una grande società ferroviaria. E pochi giorni dopo, davanti a un gruppo di diplomatici, dichiarò di voler favorire le industrie e le società della neonata Repubblica Democratica del Congo. Dichiarazioni che misero immediatamente in allarme le grandi corporations occidentali. Tre mesi dopo, nell'agosto del 1998, Ruanda e Uganda invasero di nuovo il Congo, ma stavolta, gli alleati si erano trasformati in nemici di Kabila. Avevano creato dal nulla un nuovo gruppo ribelle, da loro interamente armato e finanziato. E, nemmeno a dirlo, le popolazioni delle regioni di Kivu e Ituri videro di nuovo atterrare, sulle piste nel mezzo della giungla, gli stessi jet privati con gli stessi manager occidentali, che stavolta venivano a rinegoziare contratti e concessioni di favore con i nuovi leader ribelli. Dal gennaio del 2001 al potere non c'è più Laurent-Desirè Kabila, assassinato da una guardia del corpo in circostanze che non sono mai state del tutto chiarite. Al posto di Kabila è subentrato il figlio Joseph, ex-Capo di Stato Maggiore dell'Esercito. Grazie alla paziente e preziosa opera di mediazione del Sudafrica, dell'ONU e della Comunità di Sant'Egidio, il nuovo presidente sta dimostrando una notevole capacità negoziale e una grande duttilità, qualità che gli hanno consentito di varare un fragile governo di transizione e una nuova Costituzione. In attesa delle elezioni che sono state rinviate al 2006. Ufficialmente, in territorio congolese, oggi non ci sono più soldati del Ruanda e dell'Uganda. Ma restano sempre le milizie loro alleate. Ma tuttavia, coltan, cassiterite, cobalto, oro, stagno, zinco, uranio, continuano ad essere esportati illegalmente in Ruanda e in Uganda, da dove poi sono rivenduti, a prezzi più alti, ai grandi importatori occidentali. Se, fino a qualche anno fa, a Bukavu erano ben 19 i grandi grossisti che acquistavano minerali dai privati, oggi ne sono rimasti solo quattro. «Il grosso problema, per noi - ci dice Maurice Ciyane- è il rifornimento di minerali. Gli hutu ruandesi occupano praticamente tutte le zone minerarie della regione di Kivu. I minatori non riescono più ad arrivarci liberamente. E chi ci va, lo fa a rischio della propria vita. Pensi che abbiamo un fornitore che da mesi dispone di grandi quantità di coltan, ma per lui è troppo pericoloso avventurarsi in camion fin qui a Bukavu». Ma allora i minerali partono direttamente per il Ruanda? «Certo, esiste un altro circuito ben organizzato, e ovviamente clandestino. Sappiamo che non ha mai smesso di funzionare. Dove poi venga spedita la produzione, noi qui non lo sappiamo. Ecco, sì, è una mafia, è proprio una mafia».
In due rapporti esplosivi delle Nazioni Unite, redatti da un gruppo internazionale di esperti, prima nel 2000 e poi nel 2003, si citavano 34 grandi società occidentali, importatrici di minerali congolesi attraverso il Ruanda. Si denunciava addirittura la complicità della Sabena, la ex-compagnia di bandiera del Belgio, accusata di trasportare il coltan (il prezioso composto di due minerali - il Niobio e il Tantalio - prodotto in Congo) dall'aeroporto ruandese di Kigali ai destinatari finali in Europa. Una torta talmente ricca che nell'anno 2000, il solo esercito ruandese lucrò 20 milioni di dollari al mese, e con il solo traffico di coltan. Ma, si sa, l'appetito vien mangiando. Da Bunia a Goma, da Bukavu a Kindu, le milizie ribelli, che fino a poco prima erano alleate, e i loro protettori ruandesi e ugandesi, tutti cominciarono a contendersi il controllo delle aree minerarie più ricche. Vere e proprie battaglie campali che in poco tempo sfociarono in conflitti fra etnie e tribù. Oggi questo è il risultato: villaggi e campi bruciati, immensi campi-profughi, bande armate senza più alcun controllo, disintegrazione del già disastrato tessuto sociale. E un bilancio spaventoso delle vittime: 1.000 morti al giorno, ossia 30.000 al mese, 360.000 all'anno. Secondo cifre concordanti di numerose agenzie dell'Onu e di molte organizzazioni non governative, si calcola che dal 1997 ad oggi 3 milioni e 800mila morti siano da attribuire, direttamente o indirettamente, al conflitto. Colera, malaria, epatite, infezioni respiratorie, carestia, malnutrizione, deforestazione, saccheggi, stupri, massacri di interi villaggi. È sconvolgente la conclusione dei due rapporti stilati dagli esperti Onu: «Le grandi multinazionali minerarie sono state il motore del conflitto ancora in corso, e hanno preparato il terreno per le attività illegali e criminali di estrazione nella Repubblica Democratica del Congo». Chi non può e non vuole tacere sono spesso solo i missionari. Come i padri saveriani, che ci ricevono di sera nella loro parrocchia in collina, un'oasi di pace e di serenità nell'inferno di Bukavu. Padre Franco Bordignon vive in Congo da oltre 30 anni. È impietosa, senza appello, la sua condanna per il silenzio colpevole dell'Occidente e dei suoi mass-media: «Oggi - dice - una realtà è vera se è vista, se è portata di fronte alla gente. Qui non sono uscite immagini, riprese. Ne deduco che non si è voluto far sapere. Evidentemente chi tira le fila di tutto ciò ha più potere dei politici stessi. Vorrei che fosse chiaro: la guerra del Congo non è una guerra etnica, perchè il Congo ha più di 400 tribù e non si ricordano, nella storia di questo Paese, lotte fra etnie e tribù al punto da creare genocidi». Con una laurea in medicina e la specializzazione in ginecologia, il dottor Denis Mukwege lavorava da anni in Francia. Qualche anno fa, la scelta coraggiosa, temeraria di tornare in patria, a Bukavu, con moglie e 5 figli. Assieme a una volontaria inglese, oggi il dottor Mukwege è l'unico medico ad operare nell'ospedale di Panzi, specializzato in cura e assistenza alle donne vittime di stupri e di violenze sessuali. Quelle che abitano troppo lontano, o che sono state rifiutate dalle proprie famiglie, o che sono in degenza post-operatoria, sono ammassate a deecine in un paio di stanzoni dell'ospedale di Panzi. Due, tre, quattro donne per letto, spesso con i figli nati da quegli stupri. «Solo l'anno scorso - spiega Mukwege - abbiamo avuto 3.650 ricoveri di donne violentate. Di queste, 560 sono state sottoposte ad intervento chirurgico. Le donne che giungono al nostro ospedale hanno tutte subito gravissime violenze sessuali. La più giovane è stata una bimba di 3 anni, la più anziana aveva 75 anni. In maggioranza si tratta di bambine, di ragazzine di 10, 12, 14 anni. Rapite, violentate, usate come schiave sessuali dai gruppi armati ribelli. Spesso rimangono incinte». Susan ha 45 anni, 8 figli. È seduta sulle luride lenzuola di uno dei tanti letti sovraffollati. La sua storia, terribile, è solo una delle tante: «Vengo dal villaggio di Maleghe. A gennaio, 5 ribelli armati ruandesi sono venuti dalla foresta. Sono entrati nella mia capanna, io dormivo. Erano le 5 del mattino. Hanno ordinato a mio marito di uscire. Hanno detto che mi volevano. Mio marito si è opposto. Lo hanno picchiato e legato. Poi, uno di loro, che sembrava il capo, ha cominciato a violentarmi. Ho tentato di resistere. Mi ha spezzato la clavicola. Non sono più riuscita a difendermi. Quando il primo ha finito, gli altri 4 si sono spogliati e, l'uno dopo l'altro, mi hanno violentata. Quando hanno finito, hanno rubato tutto quello che avevamo in casa, hanno preso mio marito e sono tornati nella foresta. Per alcuni giorni, non abbiamo saputo più nulla di mio marito. Poi lo hanno liberato. Eppure, io sono fortunata perché sono viva. Mia cugina, invece, aveva 6 figlie. Quel giorno di gennaio, volevano portarsele tutte nella foresta. Mia cugina tentò di impedirglielo. L'hanno ammazzata davanti a tutti e hanno preso le sue 6 figlie. Le hanno legate per i polsi ad una lunga corda e le hanno portate via dopo averle violentate, una per una, davanti a tutti. Da quel giorno, non sappiamo più nulla di loro». Secondo un calcolo approssimativo, per difetto, realizzato sulla base delle testimonianze raccolte, quindi assolutamente parziale, le donne e le bambine violentate in Congo, dal '98 ad oggi, sono almeno 40.000. Soprattutto nelle province orientali di Kivu e Ituri, confinanti con Ruanda e Uganda. A Bunia, non lontano dal lago Albert, una Ong italiana, la Coopi, assieme ad alcune Ong congolesi, ha assistito in 2 anni più di 5mila vittime di violenze sessuali. Ogni settimana, ci dicono i responsabili, arrivano circa 60 ragazze, quasi tutte minorenni. Impossibile parlare con loro: i responsabili della Coopi non vogliono compromettere il loro delicatissimo percorso psicologico che dovrebbe sfociare in un difficile reinserimento nella società. «Robust peace-keeping», «Mantenimento della pace muscolare, robusto». Questo è il nuovo mandato con cui, solo da pochi mesi, sono chiamati ad operare i 16.700 caschi blu presenti in Congo. La Monuc, questo è il nome della missione delle Nazioni Unite, è la più numerosa e anche la più cara fra tutte le operazioni di pace dell'Onu nel mondo. Costa all'incirca un miliardo di dollari all'anno. Ma quando i primi caschi blu sbarcarono in Congo nel marzo del 2001, di fronte al precipitare di una crisi umanitaria che ormai aveva assunto le proporzioni di un vero e proprio genocidio, il loro mandato si limitava all'osservazione e all'interposizione. Troppo poco e troppo tardi: in una situazione di caos completo, di immane emergenza umanitaria, di implosione di tutte le già traballanti strutture militari e civili del Congo, fino a poco tempo fa il mandato dei caschi blu aveva di fatto significato la resa incondizionata della comunità internazionale ai «signori della guerra», ai predatori delle enormi risorse naturali del Paese. Per fortuna, oggi le cose non stanno più così. Il 1 aprile scorso è scaduto l'ultimatum con cui la Monuc intimava il disarmo a tutte le fazioni, a tutti i gruppi armati, congolesi e stranieri, operanti nelle regioni orientali del Congo. A Bunia, ma anche in altre basi della Monuc nelle regioni orientali di Kivu e Ituri, da settimane i caschi blu marocchini fanno l'inventario della quantità incredibile di armi e munizioni consegnate dai ribelli che hanno accettato il programma nazionale di disarmo e di smobilitazione. Aggirandosi fra i cumuli di armi prese in consegna dai caschi blu, non si può non rimanere stupiti dalla loro varietà e dalle diverse provenienze. È il trionfo del mercato globale: kalashnikov non solo russi, anche «Made in China» o in Jugoslavia. Micidiali Uzi fabbricati in Belgio, ma su licenza israeliana. Persino mortai dell'esercito Usa, con tanto di numero di matricola, arrivati chissà come, chissà quando. È un lavoro lungo, paziente, di catalogazione, quello che vede assieme, fianco a fianco, ufficiali pachistani e del Bangladesh, svizzeri e marocchini. Una volta consegnata la propria arma, ogni ribelle smobilitato riceve dai caschi blu marocchini un certificato di disarmo che gli dà il diritto di ottenere un incentivo di 50 dollari e di partecipare, per alcuni giorni, ad un corso di reinserimento rapido nella vita civile. Al termine, prima di ricevere la carta di smobilitazione, ad ogni ex-combattente viene fotografata l'iride: l'unico modo - ci viene spiegato - per evitare che la stessa persona si ripresenti qualche giorno dopo con un'altra arma per ottenere un nuovo contributo economico. Mentre andiamo via, incontriamo Laurent. Era un diacono di una chiesa protestante a Bukavu. «Quando un gruppo armato ammazzò mia moglie e le mie figlie, io mi arruolai in un gruppo nemico per vendicarmi. Grazie a Dio, non ci sono riuscito. Non sapevo nemmeno con chi me la dovevo prendere, chi le aveva uccise. Poi, col tempo, mi sono chiesto: ma perché devo vendicarmi? Mia moglie, le mie figlie ormai sono morte». Nel suo ufficio spartano, supeprotetto dai caschi blu, da quasi due anni c'è una donna a dirigere la missione Onu a Bunia. Tutti la chiamano «Madame». Ma Dominique Mc Adams ha il piglio e l'autorità di un generale di corpo d'armata: «Dal primo di aprile abbiamo ottenuto il disarmo di 11mila combattenti sui 15mila stimati nella regione. Ora, purtroppo, abbiamo a che fare con gli irriducibili, con quelli che non ne vogliono assolutamente sapere. Chiamateli terroristi o ribelli, questi 4.000 armati rifiutano di smobilitare» Cinquecento chilometri più a sud, non lontano dal lago Tanganica, nella torrida piana di Rusizi, lì dove Ruanda, Burundi e Congo sono separati solo da un fiume, le parole di Madame Mc Adams trovano una tragica, dolorosa conferma. Case diroccate, squallide capanne di paglia, torme di uomini in uniformi sbrindellate e lercie, sciami di mosche. All'ingresso, un cartello dipinto a mano: «Centre de Brassage». Nome pomposo per indicare il luogo in cui gli ex-combattenti di fazioni armate, fino a ieri in lotta fra loro, dovrebbero ora prepararsi a formare il nuovo esercito della Repubblica Democratica del Congo. Malgrado il nome, la realtà è assai meno promettente. Quando sono pagati (e non lo sono da 3 mesi) ricevono uno stipendio mensile di 7 euro. Sono accampati in condizioni che definire disumane è decisamente riduttivo. Quasi tutti questi futuri soldati/ex-briganti non sanno fare altro che maneggiare armi. Conoscono ben poco di una vita normale: solo la terribile esperienza di una guerra che li ha semplicemente travolti. Altro non possiedono se non l'arma che portano sempre con sé. E da settimane aspettano. Intanto bivaccano, fumano, dormono. E attendono, nella speranza finora vana di una vita più degna, che finalmente venga avviato il programma di loro integrazione nell'esercito. Ma per i 3.000 uomini di questo Centre de Brassage, l'unica acqua potabile, soltanto mille litri al giorno, è quella offerta dai caschi blu dell'Onu. Per lavarsi, bisogna arrangiarsi con le fetide acque di un ruscello, di fatto una fogna a cielo aperto. Col risultato che il colera ha già mietuto decine di vittime. Come ogni sabato dalla chiesa cattolica del Carmelo, giungono, portate dal vento, le voci di un coro che sta intonando un coro in lingua swahili. Sono le voci di uomini e donne che stanno provando i canti della messa domenicale. Malgrado tutto, nemmeno qui a Goma la speranza è ancora morta.
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