Iraq: le confessioni di un disertore
«In Iraq non ho più intenzione di tornare. Per il Pentagono sono nella lista dei 6.000 "disertori". In gergo militare ci indicano con la sigla "Aow", Absent of war. Durante la mia esperienza in Mesopotamia ho visto che per i nostri soldati e comandanti lì non esistono regole. Tutti si comportano come nell'avamposto del nuovo Far west americano. Politici e militari ci hanno detto una valanga di bugie sulla missione a Baghdad. La mia esperienza è stata decisiva per farmi maturare la convinzione che non sarei mai tornato in Iraq».
Mark, 20 anni, vive in clandestinità dal marzo del 2004. Dopo l'«Active duty» alla base militare di Forthood, nel Texas, venne spedito in Iraq a 17 anni. Recentemente è entrato nelle file dei disertori alla guerra in Iraq. Come nel caso della guerra in Vietnam, il numero dei «resistenti» all'avventura bellica si sta estendendo in modo preoccupante per il Pentagono, incapace di trovare soldati, marines e forze speciali - anche dispensando bonus pecuniari dai 40.000 ai 150.000 dollari - disposti a riarruolarsi volontariamente per la guerra. Mark, nell'intervista al Manifesto, ci racconta dalla clandestinità la sua esperienza.
Quando è stato spedito in Iraq?
Nel marzo del 2003, la mia unità da Forthood in Texas è stata spostata in Iraq. Facevamo parte della polizia militare. Son rimasto fino al marzo 2004. Avevo 17 anni. Addestramento militare di una settimana con regole d'ingaggio che poi si sono verificate inesistenti sul teatro di guerra. Trattavamo tutti gli iracheni come dei criminali. I nostri comandanti pattugliavano le strade di Tikrit, la città dove ero assegnato: quando si annoiavano impartivano a noi soldati l'ordine di fare irruzione in ogni casa privata di un determinato quartiere da loro indicato. Spargendo terrore dovevamo far uscire ogni singolo membro di ogni nucleo familiare, arrestarlo e sbatterlo in prigione.
Quali erano le motivazioni per l'arresto e sequestro di civili innocenti?
Non esisteva alcun motivo, né sospetti concreti che facessero parte della resistenza irachena. Dovevamo eseguire questi ordini, terrorizzare donne e bambini con il pretesto di dover sequestrare armi e munizioni, anche se non trovavamo nulla nelle case.
Venivate informati che questo faceva parte di una missione militare?
Non esisteva nessun motivo, né missione. Ai check point bloccavamo le auto di civili iracheni sul nostro percorso e li derubavamo di tutto il denaro in loro possesso. Tra i soldati si era stabilita una gara, quasi un gioco sadico nei confronti della popolazione locale. I giovani soldati gareggiavano a chi riusciva a distruggere il maggior numero di auto irachene sparando dai nostri gipponi «Hunvees». Era diventato un passatempo. Per ogni veicolo iracheno distrutto, il soldato appostava uno sticker sul proprio cruscotto. Si scommetteva anche su quante donne nude potevamo rinvenire quando di notte effettuavamo irruzione nelle case degli iracheni. Quante persone si riusciva a terrorizzare al punto di urinarsi addosso per la paura. Fu questo il primo segnale che destò in me l'orrore per quanto stavamo facendo.
Come venivano puniti i soldati protagonisti di questi atti di sadismo ingiustificati?
In Iraq, i soldati hanno completa mano libera da parte dei loro comandanti e generali. Possono fare quello che vogliono senza essere puniti. Civili innocenti iracheni venivano uccisi impunemente, derubati e gettati nel Tigri.
Lei ha partecipato, durante le irruzioni in case private, a questi atti di terrorismo da parte dei soldati americani?
Rifiutai di eseguire questi ordini. Cominciai a capire che la guerra era contro un nemico inesistente. Stavamo semplicemente saccheggiando un paese, distruggendo scuole, ospedali. Non era vero che eravamo in Iraq per aiutare la ricostruzione, presto ho verificato le balle che hanno detto a noi e all'opinione pubblica: eravamo stati mandati in guerra per abbattere il regime di Saddam Hussein che minacciava di distruggere gli Stati uniti. Presto abbiamo appreso che non esistevano armi di sterminio in Iraq. Eravamo degli invasori che saccheggiavano il paese. L'informazione a disposizione era il giornale militare Star and stripes. L'accesso all'informazione televisiva era limitata ad un solo canale: la Arm force network, tv militare. Molto spesso non avevamo accesso ad internet.
Gli altri soldati del suo plotone la pensavano come lei?
Lei non può immaginare la reazione individuale dei soldati quando viene menzionato l'attacco terroristico dell'11 settembre. È patriottismo cieco. Loro sono convinti di essere in Iraq per vendicarsi dei morti americani dell'11 settembre. Non possono psicologicamente ammettere il contrario. Serve loro per giustificare tutto l'orrore che fanno in Iraq.
Ma nell'ultimo anno di guerra è lo stesso Pentagono ad ammettere che il numero dei disertori è salito da un numero esiguo a 6.000 soldati. Altri chiedono asilo in Canada.
Il rifiuto da parte dei soldati di tornare a combattere in Iraq per una guerra che non trova giustificazioni è una evoluzione recente. Ma la maggioranza dei soldati che sono in Iraq preferisce pensare che è ok. Eseguono ordini e si rifiutano di pensare.
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