Beslan un anno dopo
1 settembre 2005. Lenta, nella prima luce del mattino, si snoda tra le macerie grigie della Scuola Numero Uno una nera processione di uomini e donne, che si susseguirà per i tre giorni di lutto nazionale proclamati in occasione del primo anniversario della strage di Beslan. Dove, secondo un’antica usanza, i parenti continuano a portare bottiglie d’acqua fresca per placare la sete dei loro defunti.
Arginato per un attimo lo scoglio inevitabile e legittimo della commozione per il massacro in cui persero la vita 331 persone di cui 138 bambini, si avverte la necessità e il diritto di trarre delle conclusioni, distribuire il peso della colpa e spezzare la barriera dell’impunità. A un anno dai fatti di Beslan suonano profetiche le affermazioni che il presidente russo Vladimir Putin fece l’indomani del sequestro al quotidiano inglese The Guardian riguardo le possibilità di un’indagine pubblica sulla strage, sostenendo che “Se il parlamento russo volesse imporre un’inchiesta sua, non avrei da obiettare, ma potrebbe diventare uno show politico. Se succedesse non sarebbe molto produttivo”.
Parole grottesche, e lo dimostrano i fatti.
L’arresto di Nur Pashi Kulayev e del fratello Kan Pashi, presunte guardie del corpo di Shamil Basayev e membri del commando che prese in ostaggio la Scuola Numero Uno, fornì un alibi alla giustizia russa, che in questo modo tentò di risolvere comodamente la questione della colpevolezza glissando la necessità di attribuire qualsiasi responsabilità per la gestione del sequestro all’esercito russo. A metà settembre scorso poi, provvidenziale, giunse la rivendicazione dell’azione terroristica da parte del signore della guerra Basayev, che tuttavia denunciò apertamente la connivenza del commando ceceno con la polizia russa, corrotta alla frontiera ingusceta con poche decine di rubli; inoltre nel suo discorso Shamil Basayev non esitò ad attribuire la sanguinosa conclusione del sequestro all’intervento dell’esercito russo nella scuola. Difatti la chiave della vicenda e del massacro finale sta nella prima esplosione del 3 settembre, in seguito alla quale si scatenò il blitz russo. Nur Pashi Kulayev sostiene che la detonazione avvenne dopo che un tiratore esterno sparò ad un terrorista collegato all’esplosivo; molti sopravvissuti confermano questa versione dei fatti. Eppure, il Pubblico Ministero che conduce le indagini Gen Nikolai Shepel ha ammesso solo recentemente e dopo le innumerevoli pressioni esercitate dai parenti delle vittime l’uso di lanciafiamme da parte delle truppe russe (negato precedentemente); continua ad affermare invece che non vennero mai usate granate e che i tank non erano puntati verso la scuola: tuttavia esistono inconfutabili documenti fotografici che dimostrano il contrario. Inoltre la Convenzione di Ginevra vieta l’uso di questo tipo di armi nelle aree abitate dai civili, quindi si può affermare con ampi margini di correttezza che Vladimir Putin avallò senza batter ciglio una plateale violazione del diritto internazionale da parte del suo esercito.
L’opinione pubblica locale a questo punto insorge. Le Madri di Beslan ( che meno di un anno fa si asserragliarono tra le macerie della scuola per impedire che le ultime prove del massacro venissero demolite dalle ruspe russe, e che in segno di protesta per la mancanza di chiarezza nelle indagini occuparono per quasi una settimana l’autostrada che collega l’Ossezia a Baku, capitale dell’Azerbaigian) parlano apertamente di manipolazione e copertura e non lesinano le accuse durante l’udienza concessa da Putin il 2 settembre al Cremlino. Il presidente si assume le responsabilità per il comportamento delle truppe russe durante il sequestro e promette risultati pubblici delle indagini. Non indugia però a paragonare Beslan all’11 settembre americano, riproponendo la macchina propagandistica che livella una guerra interna di logoramento e di stampo postcoloniale alla crociata planetaria contro il terrorismo islamico.
Appare sempre più evidente che quella in Cecenia è una guerra fraintesa. Fraintesa nelle percezioni e deformata dalla comunicazione: nessun osservatore internazionale è tollerato nella repubblica caucasica, le informazioni sul conflitto sono diramate esclusivamente dalle agenzie di stampa russe, che si ostinano a parlare di “normalizzazione”, mentre gli scontri continuano e la popolazione civile viene sistematicamente decimata dalle truppe federali.
Ormai la situazione dell’esercito russo in Cecenia è incontrollabile: l’unico modo per comprendere i fatti prende le mosse da qui, dalla luce nera delle macerie di Beslan, e prosegue imboccando le vie di analisi storica ed economica volte a capire come la Cecenia sia oggi ridotta a terra bruciata, sviato lo spettro del pregiudizio, dell’ignoranza e della giustificazione di una Russia che pur mantenendo la logica imperialista, ha ormai da tempo cessato di essere impero.
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