L’ OPEC e la conquista economica dell’Iraq
Grazie ad uno speciale accordo con Harper’s magazine, stiamo riportando qui per la prima volta l’intero articolo aggiornato sulle macchinazioni segrete del governo statunitense per accrescere il controllo sulle zone petrolifere irachene. - 24 ottobre 2005
… Per mesi il Dipartimento di Stato[ ministero degli Esteri, ndt.] ha negato l’esistenza di questo documento di 323 pagine…
… Il mutamento verso una politica favorevole all’OPEC è stata condotto dallo stesso Dick Cheney. “La persona più influente alla guida della politica americana sull’energia è il vice Presidente”, che, come ha detto un interno “ crede che la sicurezza derivi dal … lasciare che i prezzi si seguano fin dove possibile”.
Dopo due anni e mezzo e 202 miliardi di dollari per la guerra in Iraq, gli Stati Uniti hanno ora un nuovo assetto significativo da mostrare: appartenenza effettiva, attraverso il nostro controllo sulla politica energetica irachena, nella Organization of the Petroleum Exporting Countries (OPEC), il cartello petrolifero controllato dagli arabi.
Proprio su cosa fare con questa delega, almeno sino all’inaugurazione del presidente Bush, è stata la causa di una battaglia campale tra neoconservatori al Pentagono da un lato, e il dipartimento di Stato e l’industria petrolifera dall’altro. La questione è se l’Iraq rimarrà un membro permanente dell’OPEC, sostenendo i limiti della produzione e quindi prezzi alti, o un guastatore ribelle in grado di rovesciare l’egemonia araba.
Secondo alcuni membri e visti i documenti ottenuti dal dipartimento di Stato, i neoconservatori, che prima erano in prima linea, ora si stanno tirando indietro completamente. Il sistema iracheno per la produzione petrolifera, dopo un anno di sperimentazione fallita di libero mercato, è stato riorganizzato quasi interamente come era ai tempi di Saddam Hussein.
Sotto la pacata direzione dei dirigenti della compagnia petrolifera americana che lavora con il dipartimento di Stato, gli iracheni hanno scartato la visione neoconservatrice del laissez-faire, privatizzare la gestione del petrolio per ostacolare la regola delle quote da parte dell’OPEC, causa dell’aumento del 148% del prezzo del petrolio dall’inizio del 2002. E’ stato estimato che questo aumento è costato all’economia americana l’1,5% del suo PIL, un terzo della crescita totale in questo arco di tempo.
Data questa spinta economica, e dato che gli stati membri dell’OPEC provvedono al 46% delle importazioni di petrolio in America, può sembrare strano che “il controllo “ degli Stati Uniti sull’Iraq permetta ad una compagnia petrolifera nazionale di sostenere la rigatura dei prezzi dell’OPEC. E in effetti, lo schema originale per la ricostruzione, almeno quello auspicato dai neoconservatori, era di privatizzare totalmente il petrolio iracheno e quindi di minare il cartello petrolifero. Un padrino intellettuale di questa strategia è stato Ariel Cohen della Heritage Foundation, il quale, nel settembre 2002, ha pubblicato (con Gerald P. O’Driscoll, Jr.) un piano per il dopo-guerra, “The Road to Economic Prosperity for a Post-Saddam Iraq” (La via per la prosperità economica nell’Iraq dopo Saddam), che propone l’idea di usare l’Iraq per annientare l’OPEC. Cohen mi ha spiegato come sia possibile realizzare una prodezza geopolitica così straordinaria. L’OPEC mantiene alti i prezzi del petrolio tagliando la produzione tramite il sistema delle quote imposte, di fatto, ad ogni membro dall’Arabia Saudita, la quale predomina grazie alle sue oppressive limitazioni . I sauditi, per mantenere il loro controllo sul prezzo, devono porre un freno alla produzione degli altri membri, in particolar modo l’Iraq, dove si trovano le seconde migliori riserve.
Essendo padrone di tutte i pozzi, con Saddam Hussein, l’Iraq aderiva alla quota limite imposta dall’OPEC (storicamente fatta per eguagliare quella dell’Iran, ora 3,96 milioni di barili al giorno). Cohen pensa che se le zone petrolifere irachene fossero frazionate e svendute, una dozzina di operatori concorrenti avrebbero presto messo in moto la produzione dalle loro zone il più possibile, facendo salire repentinamente la produzione totale irachena sino a 6 milioni di barili al giorno. Questo greggio extra sarebbe affluito ai mercanti petroliferi mondiali, l’OPEC si sarebbe invischiato nella sovrapproduzione, il prezzo del petrolio sarebbe sceso di colpo, e l’Arabia Saudita sarebbe in ginocchio, sia economicamente che politicamente.
Dal febbraio 2003, l’analisi di Cohen è stata custodita gelosamente, come politica ufficiale per la nazione occupata, sotto forma di un progetto di cento pagine dal titolo “Trasformare l’economia irachena dalla ripresa alla crescita sostenibile”- un piano che incorpora in modo generale i fondamenti per un dopoguerra iracheno sostenuto dal ministro della Difesa Donald Rumsfeld, il vice ministro Paul Wolfowitz, e il personaggio dell’Iran-Contra Elliott Abrams, ora vice consigliere alla Sicurezza nazionale. Nominalmente scritto da un comitato di rappresentanti di Difesa, Stato, e Tesoro, il programma era di fatto il progetto di un plotone di una corporazione di lobbysti, tra cui spicca il fanatico della tassa sulla casa, Grover Norquist. Dalla revisione delle tasse alla modifica della legge sui diritti d’autore, il documento traccia un trasferimento radicale dell’Iraq come un libero mercato Xanadu- una sorta di Cile sul Tigri- includendo, a pagina 73, la svendita dei “gioielli della corona” della nazione: “privatizzazione… [del] petrolio e delle industrie accessorie”.
Nel seguire la veloce avanzata dei militari americani verso Baghdad, gli scettici del piano neoconservatore sono stati sommariamente ignorati. Primeggia tra i reietti il generale Jay Garner, viceré dell’occupazione per breve tempo: arrivato in piena notte a Baghdad dal Kuwait ha ricevuto una chiamata da Rumsfeld che lo informava del suo congedo. Quando ho incontrato Garner lo scorso marzo negli uffici di Washington del L3 Corporations, gigante della sicurezza ausiliaria a cui è a capo ora, il generale mi ha detto che ha rifiutato di imporre all’Iraq il progetto di ordine di svendita, in particolar modo per il petrolio. “Non è proprio la battaglia da intraprendere adesso” ha detto. “Non vuoi trovarti a fine giornata con più nemici di quanto ne avevi all’inizio”.
Nel complotto per distruggere l’OPEC, i neoconservatori hanno però sbagliato nel predire la resistenza violenta delle forze degli insorti: l’industria petrolifera americana stessa. Dall’inizio del piano per la guerra, i dirigenti petroliferi americani si sono accordati con i pragmatici al Dipartimento di Stato e al Consiglio nazionale della sicurezza. Entro poche settimane dall’ inaugurazione, importanti esuli iracheni- molti legati alle industrie americane- sono stati invitati alle discussioni segrete dirette da Pamela Quanrud, un’esperta economica del Consiglio di sicurezza nazionale, che ora lavora allo Stato. “E’ diventato presto un gruppo petrolifero”, così mi ha detto Falah Aljibury, uno dei partecipanti. Aljibury, un consulente del commercio petrolifero della Amerada Hess e del colosso degli investimenti bancari Goldman Sachs, che una volta prestava servizio come intermediario tra gli Stati Uniti e l’Iraq ai tempi delle amministrazioni di Reagan e George H. W. Bush, ruppe i ponti con il regime di Hussein dopo l’invasione del Kuwait.
Le idee del gruppo di lavoro riguardo la guerra sono stare meno utopistiche rispetto a quelle dei neoconservatori. “L’industria petrolifera, chimica e bancaria speravano che l’Iraq avrebbe messo in atto una rivoluzione come in passato e che il governo fosse messo a tacere per due o tre giorni”, questo mi ha raccontato Aljubury. “Avete la legge marziale. . . e dite che l’Iraq è stato liberato e tutti staranno al loro posto. . . Tutto come prima.” Secondo questo piano, Hussein sarebbe stato semplicemente rimpiazzato da qualche ex generale del partito Baath. Un candidato era il generale Nizar Khazraji, un ex capo dell’esercito appartenente allo staff di Saddam, che al momento era agli arresti domiciliari in Danimarca accusato di crimini di guerra. (Khazraji è stato visto in Iraq un mese dopo l’invasione americana, ma è subito scomparso e di lui non si è più saputo nulla da allora.)
Esattamente sei mesi prima dell’invasione, l’amministrazione Bush ha designato Philip Carroll a consigliare il ministero iracheno del petrolio una volta che i carri armati americani fossero entrati a Baghdad. Carroll è stato direttore generale sia della Fluor Corporation, ora uno dei maggiori contraenti in Iraq, e della divisione americana della Royal Dutch/Shell. Nel maggio 2003, un mese dopo il suo arrivo in Iraq, Carroll balzò in prima pagina quando disse al Washington Post che l’Iraq sarebbe potuto uscire dall’OPEC. “[Gli iracheni] a causa di interessi nazionali, hanno deciso di volta in volta di uscire dal sistema delle quote per seguire la propria strada. . . . Potranno decidere di fare la stessa cosa. Secondo me è una questione nazionale molto importante”. Più avanti Carrol mi raccontò, però, che lui personalmente non avrebbe supportato la privatizzazione delle zone petrolifere. “Nessuno sano di mente può pensare di farlo”, così ha detto.
Subito dopo le dimissioni di Carroll nel settembre 2003, il nuovo governo provvisorio ha designato un ministro del petrolio: Ibrahim Bahr al-Uloum. Uloum (a cui è stato procurato il lavoro da Ahmad Chalabi, il favorito dei neoconservatori) ha velocemente licenziato Muhammad al-Jiburi, il capo del Iraq’s State Oil Marketing Organization [Organizzazione del mercato petrolifero nazionale iracheno, ndt.] e Thamer Ghadhban, l’esperto in carica delle zone petrolifere del sud; ambedue godevano della fiducia delle industrie petrolifere occidentali. La produzione oscillava da una misto di incompetenza, furto al commercio all’ingrosso (il petrolio iracheno non veniva misurato), sabotaggi e corruzione che un petroliere mi descrisse come “rampante” con “rendiconti diretti ai rappresentanti di governo dagli operatori commerciali”.
Con le esplosioni quotidiane di oleodotti, l’idea di ricostruire l’industria petrolifera irachena è andata in fumo. Carroll è stato sostituito con un altro capo petrolifero di Houston, Rob McKee, un ex vice-presidente esecutivo della ConocoPhilips e attualmente -anche durante la sua carica a Baghdad- presidente della Enventure, una società per la fornitura di trivellatrici della Halliburton Corporation. McKee poco tollerava la minaccia dei neoconservatori di privatizzare i pozzi petroliferi. Un associato vicino a McKee e il consigliere esecutivo della Hess’s trading arm, Ed Morse, mi ha riferito che “Rob era molto deciso a fare una compagnia petrolifera nazionale molto forte” anche se avrebbe dovuto scontrarsi con le obiezioni del Consiglio del governo iracheno. Morse, che ha raccontato di avere ricevuto più di sei telefonate al giorno dalla amministrazione Bush per discutere sull’Iraq, è uno degli uomini su cui Washington conta di ottenere la realizzazione del Big Oil. Come Carroll e McKee, Morse scherniva quella che lui chiamava “l’ossessione degli autori neo-conservatori sui modi di minare l’OPEC”. Morse dice che gli iracheni sanno di produrre 6 milioni di barili al giorno, vale a dire 2 milioni in più rispetto alla quota prevista dall’OPEC, “distruggeranno il mercato petrolifero” e faranno crollare la loro stessa economia.
Nel novembre 2003, McKee ha disposto tranquillamente un nuovo piano per il petrolio iracheno. La bozza verrà supervisionata da un “consigliere anziano”, Amy Jaffe, che ha lavorato per Morse quando egli deteneva il prestigioso titolo di presidente del consiglio delle relazioni estere- James Baker III Institute Joint Committee on Petroleum Security. Ora Jaffe lavora per Baker, l’ex segretario di Stato, la cui società legale si occupa di consulenza per la ExxonMobil e il ministero della Difesa dell’Arabia Saudita. Il piano, scritto nominalmente dal contraente del Dipartimento di Stato BearingPoint, fu condotto, a quanto riferisce Jaffe, da un gruppetto di consulenti e dirigenti dell’industria petrolifera.
Per mesi, il Dipartimento di Stato ha ufficialmente negato l’esistenza di questo piano di 323 pagine riguardante il petrolio iracheno, ma quando ho scoperto il titolo del documento dalle mie fonti e dopo le mie minacce di azioni legali, sono stato in grado di ottenere il documento completo, datato dicembre 2003 e intitolato “opzioni per sviluppare un’industria petrolifera irachena sostenibile a lungo”. Il documento composto da più parti descrive sette modelli possibili per produrre petrolio in Iraq, ognuno dei quali elabora in modo differente una singola opzione: la creazione di una compagnia petrolifera statale. Le sette opzioni si allineano dal modello Saudi Aramco, nel quale l’intere operazioni dalla riserve agli oleodotti appartengono al governo, secondo il modello dell’Azerbaijan, nel quale i beni statali sono gestiti quasi del tutto dal “IOCs”(Compagnie petrolifere internazionali). Chi ha abbozzato il piano ha avuto un po’ di riguardo per il sistema di “auto-finanziamento”, come quello dell’Arabia Saudita, che esclude le IOCs dai pozzi, preferendo il modello del patto di condivisione della produzione (PSA) , sotto il quale lo stato mantiene il diritto ufficiale alle riserva mentre la gestione e il controllo è affidato alle compagnie petrolifere straniere. Queste compagnie dirigono, accumulano e forniscono le estrazioni del greggio in cambio di una percentuale sugli introiti delle vendite.
Mentre si promuoveva il controllo delle IOC sulle zone, gli autori [del piano ndt] si preoccupavano di avvisare il governo iracheno contro i tentativi di sottrarre i profitti delle IOC: “Le nazioni che non offrono tassi adeguati ai rischi di ritorno uguali o superiori alle altre nazioni difficilmente raggiungeranno significativi livelli di investimenti, senza considerare le loro ricchezze geologiche”. In effetti, per fare un’offerta maggiore di quella delle altre nazioni per beneficio della Big Oil, bisognerà che l’Iraq ceda una larga fetta di profitti, soprattutto quando concorre contro le altre nazioni come l’Azerbaijan che da via alle vendite. Nel documento è riportato che il governo dell’Azerbaijan è stato “capace di superare il loro limite di rischio e di attirare miliardi di dollari di investimenti offrendo un bilancio contrattuale di interessi commerciali entro i rischi da contratto.” Questo si riferisce al fatto che l’Azerbaijan, a dispetto della bassa qualità del suo petrolio e della povertà dell’ambiente, porta nelle IOCs grazie ad una scissione scandalosa di entrate permessa dal governo corrotto della nazione.
Data la facilità di adattare gli interessi dell’OPEC e quelli delle IOCs, è indubbiamente comprensibile la ragione per cui distruggere il cartello petrolifero non era per i petrolieri una buona idea. Nel 2004, con il petrolio vicino ai 50 dollari al barile durante tutto l’anno, le maggiori compagnie petrolifere americane hanno raggiunto il record, o quasi, dei loro profitti. ConocoPhilips, la compagnia di Rob McKee, ha raddoppiato questo febbraio il suo profitto trimestrali rispetto all’anno passato, che ha raggiunto anch’esso il record. L’ex azienda di Carroll, la Shell, ha registrato il nuovo record con 4.48 miliardi di dollari in quattro quarti di guadagni. L’anno scorso, ExxonMobil ha registrato il più grosso profitto di gestione in un anno nella storia delle corporazioni americane.
Quando ho parlato con Ariel Cohen all’Heritage sul suo sogno si distruggere l’OPEC, ha rimproverato il Dipartimento di Stato di aver assecondato i sauditi e i russi, che traggono anche essi i loro benefici dalla vendita del petrolio a costi elevati. Le politiche avvelenate erano influenzate, così egli dice, da “economisti arabi assunti dal Dipartimento di Stato che stanno sostenendo in pratica l’intruglio magico della famiglia reale saudita e del blocco sovietico. . . perché i sauditi sono interessati a massimizzare il loro mercato di condivisione e non sono interessati alla rapida crescita della produzione irachena.
Secondo Morsem , il mutamento verso una politica favorevole all’OPEC è stata condotto dallo stesso Dick Cheney. “La persona più influente alla guida della politica americana sull’energia è il vice Presidente”, che, come ha detto un componente “ crede che la sicurezza derivi dal. . . … lasciare che i prezzi si seguano fin dove possibile”.
Ho chiesto se questi erano prezzi artificialmente alti imposti dall’OPEC. “ L’ufficio del vice-presidente non [ha] seguito una politica in Iraq che avrebbe condotto ad una rapida apertura del settore energetico iracheno . . quindi non hanno fatto nulla, né con i produttori né con la politica energetica, che ci porterà a dire “Faremo pressione all’OPEC”.
L’opposizione alla partecipazione dell’Iraq all’OPEC è stata fatta in un modo tale che avrebbe reso orgoglioso Saddam. Il 20 maggio del 2004, la polizia irachena ha fatto irruzione nella casa di Ahmad Chalabi a Baghdad ed ha portato via i suoi computers e i files. Chalabi è stato cacciato dal suo stesso governo: l’accusa era di spionaggio nientemeno che per l’Iran. Il Consiglio di governo di Chalabi è stato presto messo a tacere e, contemporaneamente, Bahr al-Uloum è stato strappato dal Ministero del Petrolio e sostituito proprio dagli uomini che aveva rimosso. Thamer Ghadhban prese il posto di al-Uloum al Ministero del Petrolio e il rivale di Chalabi, Muhammad al-Jiburi, è stato nominato ministro del Commercio.
Ma proprio quando i neoconservatori stavano per cantare vittoria, Ahmad Chalabi ricompare dopo otto mesi . Nel gennaio del 2005, Chalabi, rompe gli accordi con il padre del suo ex ministro del Petrolio al-Uloum, un broker sciita, e ordina che il voto etnico-religioso ritorni nell’ufficio. Chalabi si riserva il posto di secondo vice premier e, per di più, l’allentante titolo di ministro del Petrolio ad interim. Le indagini sullo spionaggio sono stata lasciate da parte; il re di Giordania si è offerto di perdonare Chalabi per i 72 milioni di dollari che mancano dalla ex banca di Chalabi; e Chalabi richiama il suo ministro del Petrolio al-Uloum, il figlio dello sceicco. Anche il texano favorevole all’OPEC, Ghadhban è stato nuovamente rimosso.
Ma Chalabi ha imparato la lezione: non intromettersi con il Texas o con il cartello favorito dai texani. Un Chalabi castigato sostiene ora la cooperazione dell’Iraq con la “rapina” dell’OPEC nel mondo dei consumatori di petrolio.
E Dick Cheney, lontano da “fare pressioni sull’OPEC” ha di fatto permesso senza fiatare il cartello del monopolio petrolifero . Ma i prezzi stratosferici del greggio imposti dall’OPEC ha rovinato l’industria automobilistica americana e causato la bancarotta di mezza dozzina di compagnie aeree? Nel Bunker del vice-presidente l’eliminazione dei lavori dei membri dell’unione della Democratic-leaning è vista come un premio per le buone azioni rappresentate dall’incremento dei profitti dell’industria petrolifera lontana dallo strato di ozono.
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