Conflitti

Quel che resta di Grozny

Viaggio nella capitale cecena, detta «la terribile», dopo dieci anni di guerra
La citta vecchia è distrutta. Tra le macerie si sopravvive sorvegliati a vista dai militari in un anarchico proliferare di costruzioni
La citta nuova sorge ai margini dell'antico centro. Ma non è nient'altro che un immenso presidio militare al servizio di Mosca
3 dicembre 2005
Astrit Dakli
Fonte: Il Manifesto


Nonostante tutto, Grozny è ancora viva. E' un'affermazione difficile da fare, dopo aver girato per le sue strade e aver visto lo spaventoso panorama di distruzione e rovina che oggi sta al posto di quella che un tempo era la capitale petrolifera russa, una bella e imponente città di oltre 500mila abitanti, assolutamente multietnica e piena di risorse. Però è vero: la città è viva. Undici anni di guerra, guerriglia, occupazione militare e terrorismo, di esodi di massa, di criminalità scatenata oltre l'immaginabile l'hanno messa in ginocchio ma non l'hanno uccisa. Gli abitanti ci sono - certo sono meno di quelli che erano nel `91, e anche diversi, come di meno e diversi sono nel complesso gli abitanti della Cecenia - e si vedono: girano per le strade, fanno compere, si muovono in automobile in modo non poi molto diverso da quanto accade in altre città del Caucaso russo. Non sembrano nemmeno fare molto caso alla gran quantità di uomini armati che si vedono in giro, dagli incroci principali ai dintorni dei luoghi «sensibili», e che brandiscono i loro kalashnikov con aria da far west. In realtà ci fanno caso eccome, solo che cercano di non darlo a vedere. Grozny è nata per mettere paura. Fu fondata a questo scopo dal generale Ermolov a metà Ottocento, al culmine di una campagna di assoggettamento delle popolazioni caucasiche (non solo i ceceni) fatta di raccolti distrutti e villaggi bruciati, con sterminii di massa che meritano davvero il nome di genocidio. Sul posto di alcuni villaggi rasi al suolo il generale fondò una fortezza denominata Groznaja, «la terribile», destinata a ricordare per sempre alle popolazioni indigene chi era a comandare, e con quali mezzi: una fortezza che però presto si sarebbe trasformata nella città più importante del Caucaso settentrionale, ricca e piena di industrie di importanza nazionale. Oggi Grozny è tornata a mettere paura ai ceceni: ma nello stesso tempo è diventata il loro simbolo. Ci si poteva aspettare che, dopo la quasi completa distruzione e lo svuotamento prodotto dalla guerra, la città venisse abbandonata per sempre dai suoi abitanti, proprio per la memoria tragica legata al suo nome: ma non è successo. I combattenti indipendentisti l'hanno difesa fino all'ultima pietra, e gli abitanti sono tornati, invece di rifugiarsi nei villaggi dei clan familiari. La gran maggioranza di loro, strano che possa sembrare, è ormai così profondamente «cittadina» da non riuscire nemmeno a concepire la vita in campagna o nei villaggi tra i monti, e da preferirvi un ambiente da day after, postnucleare. Tale è in effetti il panorama della città, almeno alla prima impressione. La zona più centrale, intorno alla piazza Minutka - dove per mesi e mesi si sono svolti i combattimenti più feroci - e a quello che era il palazzo presidenziale, è rasa al suolo sul modello Hiroshima: moltissimi isolati completamente appiattiti, qualche scheletro di cemento armato stranamente in piedi qua e là, in un panorama dove solo in lontananza si vedono edifici apparentemente interi, tanto che sembra di essere in estrema periferia o addirittura in campagna, visto che tra e sulle rovine è anche cresciuta molta vegetazione. Passiamo con gli autobus accanto a lunghe teorie di edifici annientati, piegati su se stessi, come schiantati da giganteschi colpi di maglio. Quella che era una grande fabbrica - la più importante produttrice di prefabbricati edilizi in cemento di tutto il Caucaso - è ora ridotta a un'immensa selva di pilastri con qualche brandello di tetto. In alcuni casi le macerie degli edifici completamente crollati sono state portate via, ma più spesso rimangono enormi mucchi di rovine incoerenti, con travi di cemento, solette, alberi schiantati nel crollo e nuovi alberi cresciuti sopra le macerie (in dieci anni, anche abbastanza grandi) pali della luce, cavi, ferraglia indistinta. In queste aree di gente ovviamente ce n'è poca; il traffico ci passa in mezzo con indifferenza.

Per certi versi fanno ancora più impressione a vedersi i caseggiati che si possono chiamare «misti»: spaventosamente segnati dalla guerra ma ancora in piedi e almeno in parte utilizzati, per abitazione o altro. Nello stesso stabile, accanto ad appartamenti sventrati dalle cannonate sparate ad alzo zero ce ne sono altri abitati, con la biancheria stesa; un'ala vuota e bruciacchiata, crivellata da centinaia di colpi di mitragliatrice pesante, un'altra intatta, coi bambini che giocano. Più in là un palazzo apparentemente intatto e normalmente in uso, ma con un gran buco rotondo su una parete al quinto piano e un altro sulla parete opposta, al quarto (un missile?). Solo osservando le distruzioni si potrebbero ricostruire le fasi della lunghissima battaglia di Grozny, dove sono passati i tank russi, dove hanno incontrato resistenza, dove è intervenuta l'aviazione. Come possa un luogo del genere essere ancora abitato da gente normale, famiglie, bambini, è difficile capire; ma è così. In molti palazzoni ad appartementi lungo il prospekt Kadyrov, la strada principale che attraversa la città per chilometri, sono stati restaurati e messi in uso soltanto i pianterreni, ora pieni di negozi; sopra di questi, dieci-dodici piani anneriti, sforacchiati, sventrati dopo esser stati presi a bersaglio da ogni tipo di arma.

E però Grozny non è tutta così. A parte una piccola quota di edifici rimasti più o meno sani e integri nonostante gli anni di guerra, non si può negare che ci siano anche molte costruzioni nuove, residenziali e no: qualche sforzo si sta facendo, anche per riparare alcuni edifici danneggiati non troppo gravemente. Sono sforzi compiuti da privati - da chi non ha evidentemente smesso di guadagnare con i commerci più o meno legali, sia qui sul territorio ceceno sia altrove (la diaspora cecena, già abbastanza numerosa prima della guerra e presente un po' in tutte le regioni della Russia, è ulteriormente cresciuta con le successive ondate di profughi e con l'esodo di massa della popolazione nell'autunno-inverno del '99; ora i profughi sono stati più o meno forzati a rientrare dai campi dove si trovavano, ma certo molti hanno trovato il modo di stabilirsi e lavorare altrove) - dappertutto si vedono piccoli cantieri, case unifamiliari in costruzione o in ricostruzione, negozi, officine. Quello che manca in modo pressoché totale è l'intervento pubblico, lo stato: niente scuole, niente ospedali, niente trasporti. La parola d'ordine è ognuno si arrangi come può - e non è difficile immaginare in quali condizioni versi per esempio la sanità, che già è un disastro totale a Mosca: chi si ammala in Cecenia deve solo sperare in Allah e nelle capacità mediche e finanziarie dei suoi parenti, se vuol sopravvivere.

L'unico luogo dove lo stato c'è, dove le cose funzionano come dovrebbero, è l'altra Grozny, costruita a imitazione e ricordo di quella delle origini e cresciuta negli ultimi anni a velocità impressionante alle porte della capitale, adagiata contro l'aeroporto: Khankala, la gigantesca base militare russa diventata ormai una città con decine di migliaia di abitanti permanenti più molte migliaia di abitanti provvisori e dotata di (quasi) tutto quel che serve a una città salvo le scuole, che sono ancora in fase di progetto ma saranno certamente realizzate quanto prima, visto il gran numero di militari che risiedono nella base con le famiglie, bambini inclusi; o che vi arrivano volontari (abbastanza ben pagati: uno spetsnaz semplice guadagna più di 500 euro al mese, che per la Russia è davvero un buon salario) magari con l'idea di formare una famiglia proprio lì - ci sono anche tante soldatesse e pare che i matrimoni siano all'ordine del giorno. All'ordine del giorno naturalmente c'è anche dell'altro, di cui però nessuno parla: da questa allegra cittadella escono ogni giorno anche i killer che girano per la città e i dintorni rapinando e uccidendo chi capita, a volte riportandovi dentro qualche «sospetto» che nessuno vedrà più. Qualche giorno fa il comandante, di fronte alle testimonianze schiaccianti, ha dovuto ammettere che un gruppo di soldati «ubriachi» aveva effettivamente rapinato e ucciso a sangue freddo tre uomini alla periferia della città, e che poco prima una casa era stata attaccata e distrutta «per errore». Ma il più delle volte non ci sono né scuse né ammissioni: succede e basta.

Il territorio occupato è immenso, si parla di molte decine di chilometri quadrati, e diviso tra le varie forze armate che il governo federale mantiene operative in Cecenia: esercito, aviazione, forze speciali del ministero dell'interno (Mvd) e dei servizi segreti (Fsb), in un caos di sigle e comandi in cui solo di recente si è cercato di mettere un po' d'ordine con la creazione di un comando unificato. Ma per la maggior parte il territorio è vuoto, una specie di grande fascia di sicurezza - probabilmente minata - fra la recinzione esterna e il perimetro fortificato. Strano connubio di modernità e antichità: i nuovissimi edifici degli alloggi ufficiali, dotati di comfort che molte caserme occidentali si sognano, sono a dieci metri da trincee di terra e tronchi come quelle della prima guerra mondiale - peraltro controllate da pochissimi uomini o non controllate affatto.

Il Cremlino ha sbagliato totalmente politica in questi anni, spendendo pochissimo e malissimo per la società civile cecena e sempre privilegiando la via militare - dove invece di soldi ne sono stati spesi tantissimi. Ora le autorità cecene filorusse affermano che finalmente, grazie al nuovo parlamento eletto domenica, sarà possibile costruire un bilancio repubblicano e negoziare seriamente con il governo federale un contributo per la ricostruzione: pochi ci credono, e tutti sono convinti che il parlamento servirà solo a legittimare l'arraffamento privato da parte di qualcuno - i clan che governano la repubblica - dei soldi, peraltro pochi, elargiti da Mosca. «Finalmente c'è uno stato legittimo», ci ha detto domenica il sindaco della capitale, Mosvar Temirbaev, «che può essere visto dai cittadini, a cominciare dai seggi elettorali e dalla polizia in divisa, che garantisce la sicurezza». Difficile che la tuta blu con la scritta DPS, la sigla della polizia stradale dislocata agli incroci, sia sufficiente a garantire a un pacifico abitante di Grozny che il tipo tracotante che gli sta davanti col mitra in mano è davvero diverso dal pirata con lo stesso mitra ma con barba e bandanna che sta poco più in là, o dal truce kontratnik, con due mitra, mimetica e passamontagna nero, che sta dall'altra parte. Staremo a vedere: di promesse gli abitanti di Grozny ne hanno sentite tante e nessuna è stata mai mantenuta, nemmeno in parte.

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