Afghanistan: la Nato in guerra per conto degli Stati Uniti
La chiave di lettura dell’annunciato ritiro di una parte delle forze americane dall’Afghanistan è multipla. Innanzitutto si tratta più di un riassestamento delle forze nel Paese che di un ritiro. Anzi, le forze statunitensi tendono ad utilizzare la posizione strategica consolidata in Afghanistan per concentrare la loro l’attenzione su altre priorità regionali: l’Iran, le repubbliche centroasiatiche, la Russia, il Pakistan, la Cina e l’India. Tutti paesi che hanno già manifestato perplessità sulla presenza prolungata degli americani in Asia Centrale. L’Afghanistan si sta dimostrando di nuovo la scacchiera (o la bisca) del “grande gioco” ottocentesco che gli Stati Uniti hanno ricominciato, senza curarsi troppo delle conseguenze geopolitiche, presi com’erano dalla priorità di punire il regime dei Talebani e, cosa ancora più importante, dare l’inizio al progetto di abbattimento dei regimi islamici che da un decennio stava nel cassetto e nella mente dei neo-conservatori. Come sa bene la Gran Bretagna, in questo gioco non sono soltanto le grandi potenze ad avere le carte migliori. Quello in corso non è perciò un riassestamento puramente tecnico o di rotazione delle forze e non è detto che le nuove priorità debbano essere perseguite esclusivamente con forze militari regolari. Molti interessi statunitensi in Afghanistan e la stessa sicurezza garantita al governo di Kabul o ai signori della guerra e della droga periferici possono essere salvaguardati da forze e agenzie diverse da quelle militari. Se i responsabili del Pentagono continuano ad insistere sulla versione della rotazione significa che continuano a non capire la situazione (molto improbabile) o a non volercela far capire (più probabile).
La necessità di dimostrare che la guerra in Afghanistan è finita. Inoltre, la riconfigurazione dell’impegno militare è una decisione di politica interna. Gli Stati Uniti hanno un bisogno enorme di incassare successi: a qualsiasi costo, anche della verità. L’opinione pubblica americana deve avere sempre una vittoria da celebrare. Ogni giorno deve esserci un evento qualsiasi che dimostri la forza, la rettitudine e la natura benigna della nazione e di tutto ciò che esprime. L’amministrazione Bush ha interpretato questa esigenza storica come un fattore politico di affermazione, prima, di conservazione poi e, infine, di sopravvivenza della propria leadership. Durante le operazioni militari avviate in questi ultimi quindici anni, le amministrazioni statunitensi (e non solo) hanno largamente approfittato del bisogno di buone notizie e dalla lotta al terrorismo hanno anche imparato a servirsi di quelle cattive per risvegliare il desiderio di happy ending definitivo. La versione ufficiale elargita ormai da tempo sull’Afghanistan è che la guerra è finita e che i soldati americani, da soli, hanno vinto il terrorismo nel suo cuore storico e operativo. Ora la lotta si deve spostare altrove per cogliere nuovi successi. Si dice anche, non solo in America, che l’impasse iracheno è una forzatura, se non proprio una montatura, dei mezzi d’informazione dell’opposizione, dei soliti comunisti e degli apparati di propaganda dei terroristi che si rifiutano di dare le buone notizie e di ammettere i progressi.
Chiunque cerchi di diffondere notizie diverse è un terrorista e comunque un antipatriota o antiamericano. Anche i pacifisti appartengono a questa categoria perché in una cultura che privilegia il fare rispetto all’essere, fare qualcosa, anche la guerra, è positivo e comunque molto meglio del non fare, dell’attendere, del discutere o del ricercare il compromesso.
Ma in realtà la guerra contro i talebani non è mai finita, anzi.
Gli americani continuano a combattere la loro guerra alla caccia di talebani e terroristi. Dal 2002 gli incidenti e gli scontri con tali forze sono aumentati a dismisura. La considerazione che fanno tutti è che non sono più gli americani a combattere contro i terroristi, ma sono loro a combattere gli americani. E quindi i combattimenti si spostano dove ci sono gli americani e i loro sostenitori. La stessa cosa era accaduta con i russi e gli americani stanno reagendo quasi con gli stessi metodi, con meno forze, ma più risorse e con l’accordo dei signori della guerra e della droga che fanno affari d’oro e per ora assecondano gli americani e ignorano gli altri purché siano lasciati liberi di fare quello che vogliono. La mentalità del signore della guerra è contagiosa e in Afghanistan molti reparti americani si comportano come tali. La situazione con la popolazione è particolarmente tesa in tutta la vasta area a est, sudest e sud del paese dove da tempo sono iniziati fenomeni d’intolleranza verso le truppe statunitensi.
La Nato aveva pianificato una graduale espansione a condizione che la sicurezza e la stabilità delle istituzioni centrali fossero aumentate. Un’altra premessa era che l’impegno degli stati membri aumentasse per favorire la democratizzazione, l’economia e la ricostruzione. In realtà la maggior parte dei fondi e dei progetti è ancora americana. Sono proprio questi fondi e questi progetti gestiti direttamente da varie agenzie governative e d’intelligence a garantire il minimo del supporto necessario. Senza questa contropartita, senza i compromessi con i signori locali, senza la possibilità di comprare tutti e tutto gli americani sarebbero ciechi e sordi in un paese immenso che li tollera non perché li teme, ma perché li munge. Questo sistema è destinato a durare fintanto che dura il compromesso.
L’Isaf-Nato non riuscirà a controllare l’Afghanistan.
L’Isaf non dispone di forze e assetti sufficienti all’assunzione di una qualche responsabilità che non sia meramente simbolica. L’Afghanistan ha un territorio di circa 653 mila chilometri quadrati (più del doppio dell’Italia), conta 16 milioni di abitanti ed ha una suddivisione amministrativa (e di potere reale) fatta di 32 regioni. L’Isaf ha una presenza media di poco più di 12 mila militari di cui il 30% non è posto sotto il comando Nato. La maggior parte delle forze è dislocata nell’area di Kabul mentre un migliaio di uomini sono dislocati in alcune province. In queste condizioni l’unico compito realmente assolto è quello di essere ‘invisibili’. Inoltre, l’Isaf presenta tutte le problematiche di comando e controllo di una forza composta da 37 paesi Nato e non Nato che, come è consuetudine, sono più orientati a mostrare la bandiera che ad assumere oneri. Una decina di paesi contribuiscono con meno di dieci uomini a testa. Con i vari progetti di espansione che ormai si susseguono freneticamente si stanno riproponendo gli stessi errori già verificati in Bosnia e Kosovo a causa della tendenza, ormai cronica, di dividere i territori, a prescindere dalla loro superficie o dalle caratteristiche socio culturali, in aree d’influenza assegnate a questa o quella nazione. Supponendo che gli americani si concentrino su Kabul e nel sudest del paese, che inglesi e canadesi si prendano la parte sud con centro a Kandahar, che italiani e spagnoli stiano nell’area occidentale tra Herat e Farah e che a nord rimangano i tedeschi tra Faryab, Mazar-e-Sharif e il Badakshan, la già labile unitarietà di comando verrà completamente meno e ogni forza tenderà ad instaurare un proprio feudo minando qualsiasi possibilità di interoperabilità fra i vari settori.
Una spartizione del territorio dagli esiti poco rassicuranti.
Se si spera nella panacea del ‘coordinamento’ si deve ricordare che si coordinano soltanto coloro che lo vogliono e, storicamente, le operazioni della Nato sono vulnerabili proprio a causa della difficoltà di coordinare i vari contingenti nazionali. E’ un dejà vu che non promette nulla di buono e, come accaduto in Kosovo, finisce per far coincidere le aree d’influenza delle singole forze con quelle dei clan locali o della criminalità organizzata. In un Paese che già è diviso in relazione alle logiche di spartizione fra i signori della guerra e della droga la prospettiva non è delle più rassicuranti. I problemi che ogni forza sotto comando Nato incontra nelle cosiddette operazioni di sicurezza e stabilizzazione sono sempre gli stessi: problemi di priorità d’interventi, di approccio culturale, di molteplicità delle catene di comando, di scollamento fra politica e operazioni, tra chi dà i soldi e chi deve eseguire i progetti, di diversità di approcci fra le varie nazioni e d’inconsistenza dei controlli contabili e dei risultati.
Troppe differenze e vincoli operativi tra le truppe Isaf.
Dal punto di vista militare e del controllo del territorio esercitato dalle varie forze straniere e da quelle di sicurezza locali, la situazione in Afghanistan non consente all’Isaf di condurre operazioni sulla base dell’intelligence, mancano sufficienti mezzi aerei ed elicotteri, le forze d’intervento rapido sono scarse e mancano mezzi adeguati per assicurare la tempestività d’intervento. In un territorio che è da considerare ostile, la protezione delle proprie forze (specialmente se le direttive dicono che ‘non deve succedere niente’ e se qualcosa succede scattano subito le rappresaglie sui comandanti), impegna la quasi totalità delle risorse. La multinazionalità, che è sempre un fattore positivo purché si sappia gestire e non raggiunga eccessi ridicoli, comporta vincoli aggiuntivi. Ci sono nazioni che limitano l’impiego dei propri soldati in determinati compiti (ad es. controllo dell’ordine pubblico) o in determinate aree. Ci sono nazioni che per spostare un plotone da un settore all’altro devono ottenere le autorizzazioni dei rispettivi parlamenti e tutte le nazioni hanno regole distinte per l’uso della forza e di determinati armamenti anche in caso d’emergenza. Ci sono nazioni che applicano standard di sicurezza e procedure per il controllo diverse. Dove bastano due uomini e un interprete si fanno posti di blocco di 30 uomini e senza interpreti. Così come ci sono quelle che hanno triggers diversi, vale a dire che sono autorizzati ad agire e reagire a diversi livelli d’intensità della minaccia presunta o effettiva.
Ricostruzione: un’altra difficile sfida per la Nato.
Per quanto riguarda la ricostruzione affidata ai team provinciali (Prt), manca una visione comune sulle priorità e sui tipi di progetti. Inoltre, siccome i progetti sono finanziati dalle singole nazioni e affidati ai propri militari e ad agenzie governative o non governative, spesso si hanno duplicazioni o vistose lacune. Come accade quasi ovunque, la ricostruzione non solo non è omogenea o ‘compensata’ fra zone con varie esigenze, ma non è equilibrata e riflette quasi esclusivamente o la concezione del singolo responsabile o quella del paese donatore. Ci sono nazioni che prediligono la costruzione di ospedali e poi non ci sono né medici né medicine; ci sono paesi che costruiscono case secondo il proprio stile per cui in alcune zone si costruiscono chalet alpini e in altre prefabbricati. Alcuni paesi costruiscono scuole senza verificare se ci sono gli alunni, se ci sono gli insegnanti e che cosa viene insegnato. In alcune zone le scuole costruite all’insegna della grande crociata contro il fondamentalismo vengono usate dagli imam, gli unici a saper leggere e scrivere, ma anche gli unici a concepire la cultura in termini esclusivamente islamici.
Gli Usa continuano a favorire terroristi e signori della guerra. Nonostante gli annunci di riduzioni, gli americani non se ne vanno dall’Afghanistan e continueranno a fare da attrattori dei ribelli e dei terroristi. Per questo ruolo, evidentemente, meno si è, meglio è. A dispetto delle dichiarazioni pubbliche, essi sanno bene che la guerra lanciata con l’operazione Enduring Freedom non è finita e infatti l’operazione è ancora ufficialmente in corso. Sanno anche che la loro presenza è necessaria ai propri interessi e a quelli dell’Afghanistan rappresentato dagli attuali governanti al potere centrale e locale. Questa presenza costa cara, non solo in vite umane, ma anche in termini politici e di prospettive per il futuro. Tra i costi politici va incluso il grande favore che viene fatto al terrorismo di Osama bin Laden e dei suoi successori. Come sta accadendo in Iraq, il terrorismo ha trovato di nuovo nell’Afghanistan un luogo di sintesi della lotta antiamericana. Senza sobbarcarsi pericolosi spostamenti ed elaborate organizzazioni, le formazioni terroriste possono tenere in scacco le forze americane, e quindi gli Stati Uniti, e batterle ogni giorno che Allah manda agendo direttamente nel luogo dove esistono le migliori condizioni di successo: a casa propria. Se Al Zawahiri si è affrettato a cantare vittoria per l’annunciato ‘ritiro’ americano dall’Iraq e dall’Afghanistan forse non è perché è contento, ma perché teme che se ne vadano davvero. Ad ogni modo, a lui per vincere basta il ritiro di un solo uomo e per continuare la lotta basta un solo americano in Iraq e Afghanistan. La sua prospettiva è quindi rosea e durevole. Anche per i signori afgani la prospettiva è ottima. Quando gli americani riducono le forze, di solito aumentano gli aiuti in denaro, crescono le compagnie private, si moltiplicano le iniziative di modifica del territorio e quindi le occasioni di affari. Purtroppo questi non sono vantaggi né per l’Europa, di nuovo inondata dalla droga afgana, né per gli americani: sono costi da sostenere in attesa di tempi e idee migliori.
Gli inglesi potrebbero riuscire laddove gli americani hanno fallito.
La Nato, con la penuria di mezzi e con la pletorica organizzazione che la contraddistingue, non è in grado né di garantire la sicurezza con la forza, né di condurre in porto un progetto coordinato di ricostruzione e neppure di influenzare politicamente il governo di Kabul o tanto meno gli americani. La prospettiva di spartizione dell’Afghanistan in zone d’influenza nazionali comporta il rischio che le attività terroristiche si trasferiscano da un settore all’altro colpendo i settori più deboli. Gli americani continueranno a fare da bersagli nel sudest e perfino a Kabul, ma l’assunzione da parte inglese dell’area di Kandahar può far scivolare verso nord ed ovest le attività ostili. Gli inglesi hanno maggiori capacità di penetrazione con l’intelligence e quindi possono contribuire ad un incremento qualitativo delle operazioni trasformando in interventi mirati e discreti quelli che oggi gli americani effettuano in maniera sbrigativa, indiscriminata e plateale. Essi sono poi bravi nel coinvolgere i locali nelle proprie operazioni e quindi nel dirottare i problemi in altri settori. Sono anche particolarmente settari e gelosi delle informazioni e in genere non si fanno scrupolo di cortocircuitare la gerarchia Nato e perseguire i propri interessi trasformando la zona di competenza in un proprio feudo. L’espansione dell’Isaf può tuttavia portare alcuni ‘benefici’. Innanzitutto assicura uno status quo che fa comodo, per vari motivi, a molti. Infine, la presenza Nato può dimostrare la volontà occidentale di assistere il popolo afgano nella sua aspettativa di miglioramento. La cosa può funzionare badando a non soddisfare le aspettative soltanto di chi vuole il potere, dei trafficanti e degli avventurieri locali e stranieri.
Le sue specializzazioni militari includono quelle in missili anti-carro e difesa NBC, Ufficiale addetto alla Pubblica Informazione della NATO, Ispettore CBM per gli Accordi di Stoccolma ed in Operazioni Psicologiche. Ha comandato tutti i livelli di unità meccanizzate, dal Plotone alla Brigata. Il suo ultimo incarico operativo è stato quello di comandante della Brigata “Legnano” durante l’operazione “Vespri Siciliani” contro il crimine organizzato in Sicilia.
E’ stato in seguito responsabile della preparazione, addestramento e primo schieramento della Brigata in Somalia. I suoi incarichi di Stato Maggiore comprendono quelli di Ufficiale alle Operazioni e Difesa NBC presso il 4º Reggimento Corazzato, e di Capo Sezione di Stato Maggiore presso la Brigata Meccanizzata “Granatieri di Sardegna”.
Dal 1979 al 1981 è stato assegnato negli Stati Uniti presso la 4º Divisione di Fanteria a Fort Carson, nel Colorado, dove ha svolto gli incarichi di Ufficiale addetto ai Piani ed Operazioni, Secondo in Comando della Divisione Esercitazioni e Valutazioni (EED) e Capo della Divisione Esercitazioni e Valutazioni/Centro Simulazione Combattimento.
Al suo ritorno in Italia ha prestato servizio quale Ufficiale Addetto al Reparto Impiego del Personale dello Stato Maggiore dell’Esercito, Capo dell’Ufficio Studi e Coordinamento dello Stato Maggiore dell’Esercito, Capo dell’Ufficio Pubblica Informazione e Portavoce del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito.
Dal 1993 al 1996 ha svolto l’incarico di Addetto Militare a Pechino, Repubblica Popolare Cinese. Con il grado di Generale di Divisione, ha diretto l’Istituto Superiore di Stato Maggiore Interforze (ISSMI).
Nel 1999 ha svolto due incarichi concomitanti presso lo Stato Maggiore della Difesa quali Capo dell’Ufficio Generale per le Comunicazioni e la Pubblica Informazione e Capo dell’Ufficio Generale di “Euroformazione”.
A partire dal gennaio 2001 ha assunto la funzione di Comando Interforze delle Operazioni nei Balcani.
Nel 2002 il generale Mini ha assunto il comando delle operazioni di pace in Kosovo a guida NATO (KFOR).
Le sue decorazioni comprendono l’Ordine al Merito della Repubblica Italiana (OMRI), la Medaglia al Merito Mauriziana, la Medaglia di Lungo Comando, la “U.S. Army Commendation Medal” e la Medaglia “BA YI” della Repubblica Popolare Cinese.
Ha scritto molto su questioni militari, strategiche e geopolitiche. Tra i suoi lavori i libri: “Comandare e comunicare” (Alinari-Firenze, 1989), e “L’altra strategia” (Franco Angeli-Roma, 1998).
E’ autore di oltre venti saggi e di molti articoli pubblicati su riviste militari e civili come “La Rivista Militare”, “Limes” e “Heartland”.
Nel 2001 ha curato la versione italiana del libro “Guerra senza limiti”, i cui autori sono i colonnelli della Repubblica Popolare Cinese Qiao Liang e Wang Xiaosui. Ha fondato e continua a dirigere “Newstrategy”, un istituto di ricerca e studio non a scopo di lucro. E’ membro delle Conferenze Mondiali Pugwash e del Comitato scientifico di Limes. Svolge regolarmente seminari informativi presso le scuole ed i centri di addestramento nazionali dei Servizi di intelligence su questioni strategiche dell’Asia, dell’Estremo Oriente e sul terrorismo e crimine organizzato. (Tratto da AnalisiDifesa)
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