Conflitti

La confusione pericolosa della "missione di pace" in Iraq


Per chi non l’avesse già capito, la recente inchiesta de l’Espresso mette in chiaro come la missione in Iraq non sia una “missione di pace”
19 maggio 2006
Gianni Rufini (docente di aiuto umanitario all'Università di York, collabora da diversi anni con Lettera22)
Fonte: osservatorio Iraq
http://www.osservatorioiraq.it

Il rapporto di 1 a 100 tra spese in aiuti e costi militari è la prova evidente dell’inganno subito dal parlamento e dal popolo italiano. Non solo: ma perché mai i militari dovrebbero occuparsi di aiuti umanitari e per la ricostruzione?
Che senso ha affidare a truppe straniere, ambiguamente schierate all’interno di una forza occupante che ha illegalmente invaso un paese, il compito di costruire scuole o fognature? Per queste cose esistono le ONG, le Nazioni Unite, le imprese e, soprattutto, gli iracheni stessi.

Cinquant’anni di cooperazione allo sviluppo e un secolo e mezzo di aiuto umanitario ci hanno insegnato ormai bene come si debbano fare certe cose, e se la stampa si impegnasse un po’ più seriamente ad informare i cittadini e i politici su come funzionano gli aiuti internazionali, probabilmente sarebbe stato molto difficile far passare questa manovra, che viola la Costituzione, espone il paese ad attacchi terroristici e ha portato alla morte inutile di trenta nostri connazionali. Non eroi, ma vittime di un raggiro.

Purtroppo, da dieci anni in qua il dilettantismo dei leader occidentali e la loro miopia politica, hanno portato al fallimento di tutti i processi di ricostruzione e pacificazione avviati nel mondo. L’idea bizzarra che possa esistere una guerra “buona” si è rivelata un’illusione priva di fondamento. Rimpiazzare il peacekeeping con le operazioni cosiddette “other than war” (diverse dalla guerra), come quella in Afghanistan, ha annichilito la capacità della comunità internazionale di intervenire con efficacia per fermare stragi e conflitti. Sostituire le Nazioni Unite con le “coalizioni di volenterosi” ha imposto la deriva perversa dello scontro tra Occidente e Islam.

Il risultato è che anche coloro che in buona fede e con le competenze adeguate vogliono intervenire per portare aiuti alla popolazione civile - le organizzazioni umanitarie - si ritrovano adesso nel mirino dei terroristi.

Adesso tocca al nuovo governo definire la strategia italiana in questo campo. E già si cominciano a sentire voci inquietanti: “ritiro graduale concordato con le autorità irachene”, “non si possono abbandonare gli iracheni in questa situazione”, “lasciare un nucleo di militari per proteggere i tecnici della ricostruzione”, ecc.

Sarà bene chiarire alcuni punti fondamentali:

1. Le autorità irachene non possono dirlo troppo esplicitamente ma lo hanno fanno intendere chiaramente: prima se ne andranno gli stranieri, meglio sarà per tutti. La presenza di truppe occupanti non fa altro che alimentare la guerriglia ed offrire pretesi al terrorismo, e configura una situazione di piena legittimità della resistenza armata, anche in termini di diritto internazionale.

2. Le forze occupanti, Italia compresa, sono costrette a concentrarsi sulla propria difesa, trascurando quella degli iracheni. Le truppe sono asserragliate nei loro compound, escono il meno possibile e quando lo fanno pensano soltanto a proteggersi dagli attacchi ostili.

3. Se si vogliono costruire scuole ed ospedali, la cosa migliore è fornire le risorse agli iracheni e lasciare che facciano il loro lavoro. Controllando – ovviamente – che nessuno rubi e che il lavoro sia ben fatto, Ma i militari non hanno nessuna competenza per farlo.

4. I tecnici non hanno bisogno della protezione militare, che li espone anzi ad ostilità ed aggressioni. Soprattutto, l’Iraq non ha bisogno dei nostri tecnici: da quarant’anni produce ottimi quadri, ingegneri, medici, architetti e quant’altro serve per eseguire le opere elementari che servono a riportare in efficienza i servizi e le strutture del paese.

5. Lasciare anche solo pochi soldati stranieri nel paese significa comunque perpetuare lo stato di occupazione, sia pure a livello simbolico. Se il problema è proteggere gli investimenti dell’ENI in Iraq, si ricorra alle tante private security, molte delle quali serie e di qualità, che operano in tutto il mondo. L’esercito nazionale non è fatto per fare la guardia agli investimenti delle imprese.

E’ ora che il nostro paese imbocchi la strada di una politica estera etica e coerente, nel campo delle crisi e dei conflitti.

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