Iraq, dal governo Berlusconi una missione umanitaria di guerra
Benché la cooperazione sia stato un tema importante della campagna elettorale e il nuovo governo conti anche su una viceministra col compito di rilanciarla, nel Dpf su questo tema non c'è una riga. Una svista? Bizzarra, anche perché in questi giorni in Italia c'è Kofi Annan e dunque un nuovo impegno multilaterale dell'aiuto pubblico allo sviluppo avrebbe bisogno di sostanza oltre che di parole. Necessarie se si fa la lista dei guasti prodotti dalla passata gestione, primo fra tutti l'utilizzo della solidarietà come veicolo per operazioni belliche. In proposito ci sono due buoni esempi, uno dei quali inedito.
Il caso ultranoto è quello dell'ospedale da campo che la Cri allestì a Bagdad col relativo putiferio sollevato a Ginevra, sede del Comitato internazionale della Croce rossa, quando si venne a sapere che l'ospedale non solo si aggiungeva agli oltre 40 nosocomi della città, ma che sarebbe stato scortato da un manipolo di carabinieri, contro ogni regola di neutralità e indipendenza. E in quei giorni forse non c'era nemmeno tutta questa necessità di mandare i carabinieri. I più maliziosi pensarono che la scorta militare servisse solo come assaggio alla missione assai più corposa di Babilonia. Se insomma il parlamento digeriva la scorta all'ospedale, nel primo evidente mix tra civile e militare, come poteva opporsi alla «missione di pace», come la definì il ministro Martino, di un nostro più corposo contingente? Eppure le prime missioni tecnico-civili alla Farnesina si erano svolte senza danno. E senza scorta. E' allora che successe qualcosa di strano.
Tra l'11 e il 15 aprile, un mese prima dell'ospedale Cri, una prima missione umanitaria della cooperazione, capeggiata da due diplomatici, parte per l'Iraq con un cargo che scarica in Kuwait 4 generatori, alcune motopompe, kit sanitari e biscotti iperproteici («40 tonnellate di aiuti di emergenza», dirà nella sua relazione al parlamento il ministro Martino). Ma solo due generatori, un kit e qualche pacco di biscotti prendono la strada di Nassiriya e Bassora. Si tratta infatti di una missione «esplorativa», solo in parte scortata da truppe americane. Verificato che non esistono problemi di sicurezza (sorgeranno poi e culmineranno nell'attacco all'Onu in agosto e alla Croce rossa in ottobre), la missione torna in Kuwait per portare in Iraq il resto. A quel punto però da Roma arriva l'alt. E un quarto dei medicinali, un terzo dei biscotti, generatori e motopompe restano bloccati in un deposito privato di Kuwait City. Coincidenza vuole che proprio in quei giorni Frattini esponga al parlamento la necessità di inviare il contingente in una situazione nella quale, dice, è urgente un intervento con fini umanitari. Situazione oscurata da «rapporti e informazioni preoccupanti». Ciò non di meno il governo intende, dice Frattini il 15 aprile, «corrispondere, con rapidità, alle esigenze concrete che ci vengono segnalate dal teatro della crisi». Frattini si dimentica però di riferire che, nonostante la missione della Farnesina sia tornata sana, salva e senza scorta dall'Iraq, pronta a «corrispondere con rapidità» alle «esigenze concrete», gli aiuti sono rimasti a Kuwait City. Una notizia che non viene mai resa pubblica. A fine aprile, l'urgente carico umanitario italiano è ancora parcheggiato, a spese del nostro governo, nell'emirato. Si sblocca solo poco prima dell'arrivo a Bagdad, tra il 6 e il 7 maggio, dell'ospedale da campo accompagnato dai primi 15 militi dell'Arma. A quel punto tutto è pronto per la missione di pace. Che poi, come sappiamo, si trasformerà in guerra vera. Cosa che, nei conti del governo, non era in agenda.
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