Il voto sulla guerra visto dal fronte
Ascoltate qui da Lashkargah, Helmand, le notizie che arrivano dall'Italia sul cosiddetto dibattito riguardo alla permanenza delle nostre truppe in Afghanistan risultano da un lato surreali e dall'altro confermano la miopia e la pochezza morale di quasi tutta la classe politica italiana. Surreali, perché qui all'ospedale di Emergency arrivano di continuo uomini, donne, bambini dilaniati dai missili della Coalizione, travolti dai blindati Usa che hanno ricevuto l'ordine di non fermarsi per «motivi di sicurezza».
Nel giorno in cui sto scrivendo queste righe è morto Sardar, 24 anni. Era stato portato in ospedale ieri, praticamente spappolato. Il suo bambino di quattro anni ha perso la gamba sinistra, sua moglie un seno e una mano. Colpiti da un missile Usa a caccia di talebani. Ho fatto un nome, potrei farne cento, mille. Chi, nel nostro paese, gioca con la parola pace e ricerca in realtà aggettivi «accettabili» per la parola guerra non ha idea della nausea che ti afferra quando ogni giorno sei costretto a vedere persone ridotte a pezzi di carne ferita e bruciata.
Quale presenza di pace è quella che si mostra solo chiusa in carri armati o elicotteri che bombardano villaggi di pastori? Qui il volto dell'occidente è solo quello della costante minaccia armata, di soldati assedianti e assediati che fanno paura e che hanno paura. È così nell'Iraq trasformato in un mattatoio, in Palestina e ora anche in Libano, domani in Iran, in Somalia, in Sudan... Il panorama della guerra si allarga a dismisura con il suo carico di orrori e di odi insanabili per generazioni, se ancora ci saranno generazioni.
I nostri politici si apprestano a votare per il rifinanziamento della missione in Afghanistan, con la benedizione del presidente della Repubblica, compatti e trasversali come quando nel 2001 votarono per la partecipazione italiana a questo macello. Si adducono motivi di lealtà all'alleanza con gli Usa. Se la guerra è un crimine lo è anche votarlo, e se si è fedeli ad un alleato che compie e perpetra crimini di guerra non si è niente di più e niente di meno che complici. Di fronte all'enormità della responsabilità etica di questa complicità, motivi come la «stabilità del governo», la «lealtà all'Unione», il «non riaprire la strada a Berlusconi» sono ridicoli e purtroppo anche terribilmente tragici. Diventa sempre più necessario che ognuno di noi, ogni singolo cittadino, trovi i modi e le forme per dissociarsi radicalmente da ogni complicità morale e politica con una classe dirigente nazionale che chiama la guerra «realismo» e le possibilità concrete di pace «utopia» e che ci vuole incoscientemente aprire un futuro di terrore, praticato e subito.
Una classe dirigente disposta a barattare vite umane nel piccolo bazar della politica nostrana e delle sue miserabili beghe tra partiti, partitini, leader e aspiranti tali, nel timore che se il potente alleato si arrabbia non consentirà più all'uno o all'altro schieramento di spartirsi la prossima volta il centinaio di poltrone da sottosegretario. Forse si poteva morire per Danzica, ma non si può morire e uccidere per i vostri sederi.
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