In Libano, macerie di periferia
La signora Jean D'Arc ha 76 anni e - vivendo nella periferia sud della capitale libanese - parecchi problemi. La sua casa è rimasta senza luce, ma questo le ha almeno evitato d'ascoltare la minaccia lanciata del capo di stato maggiore dell'esercito israeliano sui dieci palazzi di Beirut da abbattere per ogni razzo katiusha che cadrà su Haifa. Un avvertimento terribile, che riporta alla memoria antiche minacce. Nell'appartamento di pochi metri quadrati della signora D'Arc, senza elettricità, danneggiato ma scampato alla distruzione portata dagli F 16 israeliani a Dahiye, banlieue sud di Beirut, la televisione è inutizzabile e per sapere cosa accade questa nonnina dal volto pieno di rughe e dalla voce squillante si rivolge ai pochi vicini di casa che, come lei, non vogliono andare via, anche se ciò potrebbe costare la vita, come testimoniano le macerie degli edifici circostanti. «Ogni sera prego Gesù di salvare me e tutte le altre persone innocenti ma anche per coloro che sono morti sotto le bombe (israeliane)», dice Jean D'Arc volgendo lo sguardo verso le immagini sacre: Cristo sulla croce, la Vergine e il bambino, santi vari e San Giorgio che affronta il drago, immancabile in ogni casa di arabi cristiani. Già perché a Dahiye, nello stesso quartiere sciita di Haret Hreik, vivono (o vivevano fino a qualche giorno fa) anche libanesi cristiani. A poche centinaia di metri dal quartier generale di Hezbollah raso al suolodai bombardamenti, c'è una chiesa rimasta per miracolo in piedi. Sono cristiani poveri, che condividono con gli sciiti le difficoltà quotidiane e che la dolce vita di Achrafieh, nel settore est di Beirut, la vedono solo in tv sintonizzandosi su Lbc, un canale che trasmette programmi di intrattenimento sempre, anche con il paese sotto le bombe. In questi giorni, quando si leggono i dispacci delle agenzie di stampa, ci si imbatte in una frase ricorrente: «colpita la periferia sud di Beirut, roccaforte di Hezbollah». Come se Dahiye fosse un campo di arrestramento della guerriglia sciita e non un insieme di quartieri abitati da persone comuni che almattino vanno al lavoro, all'università, accompagnano i figli a scuola, aprono le saracinesche dei negozi. Queste persone non sono combattenti armati e sostengono Hezbollah perché è la forza politica che ha saputo ridare dignità agli sciiti libanesi e, fatto non secondario, fornire servizi sociali fondamentali a questa zona della città dimenticata dallo Stato e dalla municipalità. Osservando le distruzioni provocate dabombe emissili, le macerie di palazzi spesso crollati su civili inermi, si perde l'orientamento, non si riescono a riconoscere le strade, i negozi notati durante visite precedenti. Cose ne è stato del famoso «La Frutta», il baretto che preparava frullati deliziosi, o dell'unica edicola di Haret Hreik con giornali stranieri? Non c'è più la casa anche di AmalNasser, 23 anni, aspirante reporter che in questi giorni accompagna i giornalisti stranieri a osservare da vicino rovine annerite dal fuoco, scheletri di edifici, automobili schiacciate dalle macerie. «Abbiamo perduto tutto, la casa, le nostre cose, anche il lavoro di mio padre. E' un taxista e la sua auto è andata completamente distrutta», dice sistemandosi il velo islamico stretto intorno al volto. Tra le macerie si aggirano uomini e donne che scavano alla ricerca di tutto ciò che è ancora utilizzabile, ma anche attivisti, non armati, di Hezbollah che osservano ogni movimento e sono garanti della sicurezza. In caso di allarme aereo, sono incaricati di indicare alle persone in strada i rifugi più vicini. Hezbollah ha messo in moto in questi ultimi giorni una gigantesca macchina di aiuti. Soltanto a Beirut sono oltre 40mila gli sfollati che vengono assistiti in 100 scuole nel settore ovest della capitale. Decine di medici ed infermieri sono stati mobilitati a favore di chi ha perduto tutto e deve adattarsi a vivere, probabilmente ancora per molte settimane, in aule con molte altre persone. «In ogni scuola abbiamo 10 volontari e del personale paramedico. E' estate e bisogna stare attenti che le condizioni igieniche siano sempre ottimali per evitare il diffondersi di malattie infettive», spiega il dottor Asad Zeiter, che ci tiene a far sapere di aver studiato nella ex Urss «quando c'era il comunismo». Lui però oggi è del Partito di Dio. Il medico tre giorni fa ha aiutato a venire alla luce Zahrà, che la mamma, Rabab, e il padre, Ibrahim, hanno voluto far nascere nella scuola dove sono ospitati e non in ospedale «per non occupare il posto di qualche ferito dei bombardamenti». Jan Egeland, vice segretario generale dell'Onu per gli affari umanitari, non aveva mai visitato Dahiye. Domenica aggirandosi per il quartiere fantasma è rimasto quasi senza parole. Quel poco che ha detto però è stato chiaro a sufficienza. «E' terribile - ha dichiarato - tutto questo è una violazione delle leggi umanitarie» compiuta da Israele. Rivolgendosi aimembri della sua delegazione, Egeland ha detto che prima della visita non era al corrente che la distruzione nel quartiere di Haret Hreik fosse stata compiuta «isolato per isolato». Egeland ha potuto vedere di persona gli enormi disagi a cui sono sottoposti gli sfollati che inmolti casi in mancanza di meglio sono costretti a dormire su materassini di gommapiuma all'aperto. Un'anziana gli ha detto: «Ci aiuti la prego, la gente muore, stanno distruggendo le nostre case». «La cosa di cui c'è più bisogno è il cessate fuoco. I civili devono essere protetti, non possono essere un obiettivo», ha risposto il diplomatico norvegese, assicurando che l'Onu sta facendo tutto il possibile (sic). L'alto funzionario dell'Onu ieri ha ribadito che Israele sta facendo unuso «sproporzionato » della forza, il cui «prezzo» viene pagato soprattutto dai civili ma le sueparole non hanno scosso il Segretario di stato Condoleeza Rice giunta a sorpresa a Beirut a dettare le condizioni per il cessate il fuoco. «Condy» a Dahiye non ci andrà mai.
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